La porta dei Cherubini
Paola Casella
Carlo Scirocchi, La porta dei Cherubini, Edizioni Il punto
d'incontro, Pagg. 153 Euro 11,88
"Questo non è un racconto né un indovinello, ma un'esperienza
di progressiva scoperta", scrive l'io narrante de La porta dei
Cherubini, il romanzo esoterico (così lo definisce il
retrocopertina, dandogli una classificazione più precisa - e forse
più riduttiva - di quanto l'autore stesso abbia fatto) di Carlo
Scirocchi.
E in effetti la storia de La porta dei Cherubini si dipana non tanto
come una narrazione, ma come il progressivo disvelamento di un
percorso di evoluzione interiore, di un viaggio alla scoperta di
sé.
Al centro della vicenda, un poeta (l'io narrante) e una donna
dall'intuito formidabile (intuito che spesso "assume le
dimensioni di una profezia"), uno scienziato di quelli che
cercano "risposte che soddisfino il cuore più che la
ragione" e un orefice egiziano che è guida un po' turistica e
un po' spirituale. Al centro delle loro attenzioni, un oggetto
misterioso antico oltre otto milioni di anni, realizzato in una lgea
completamente sconosciuta, il cui ritrovamento costringerà l'intera
comunità scientifica a "ripensare tutta la nostra
filogenesi", mettendo in forse la teoria dell'evoluzione.

Una storia alla Indiana Jones, se volete, ma (come
del resto anche le storie di Indiana Jones) anche "una
questione che coinvolge i termini della fede, non più i problemi
della scienza, ma dello spirito". Sopra a tutto, emerge
"l'ineffabile gioia" di scoprire "lontane
armonie", "lo schiudersi delle sotterranee potenzialità
del mondo, l'avverarsi della speranza che tutti noi possiamo molto
di più, perché siamo molto di più di un semplice evento
deterministico".
Per Carlo e Ginevra, la coppia protagonista, la vera ricerca
riguarda l'utilizzo dell'oggetto misterioso, una ricerca che
"non rientra nei canoni classici dell'apprendimento", ma
richiede un abbandono totale di pregiudizi e vecchi atteggiamenti,
nonché una completa sottomissione alle leggi della provvidenza:
"Quello che dovete fare è riuscire a sottomettervi veramente
ad un piano che non potete conoscere, ma di cui già sapete
l'esistenza", viene loro rivelato.
E l'apprendimento va fatto secondo i propri tempi, come succede ai
bambini che "imparano secondo il ritmo della loro capacità di
elaborazione e il tempo è completamente a servizio della loro
naturale capacità di vivere nel presente", più come un
recupero di antiche conoscenze che come l'acquisizione di nuovi
concetti. Come dice Carlo alla sua compagna, di viaggio e di vita:
"Cosa abbiamo dimenticato in questi anni, Ginevra, credendo di
aver trovato tutto?"
La ricerca di Carlo e Ginevra procede per gradi di consapevolezza,
secondo le "leggi dell'incontro e delle diramazioni",
dando loro la precisa sensazione del cambiamento, la sensazione di
"continuare un'opera incompiuta". Laddove l'obbiettivo, se
di obbiettivo si può parlare per una ricerca così poco
autodeterminata, è fondamentalmente quello di affinare il proprio
vissuto.
Alla fine dell'avventura, Carlo e Ginevra, ma anche lo scienziato e
l'orefice, avranno imparato, più ancora che a fornire le giuste
risposte, a porsi le giuste domande, o perlomeno quelle importanti:
"Di che cosa veramente aver paura? Qual è il nutrimento di cui
abbiamo veramente bisogno?".
Forse uno degli elementi chiave del racconto è l'importanza del
cercare queste domande, e queste risposte, insieme, in modo
sinergico: "Le scoperte che si possono fare dipendono
direttamente dal tipo di persone che si uniscono. Lo sanno bene nel
mondo scientifico quando si formano dei gruppi di ricerca",
dice a Carlo l'orefice, citandogli come esempio il gruppo di Via
Panisperna. E la loro personale scoperta di Carlo e Ginevra richiede
"la simultaena presenza di te, di me e della nostra corrente di
pensiero".
A fare loro da guida lungo tutto il percorso, ci sono le lettere
dello scienziato scomparso - scomparso proprio al momento giusto,
cioé quando la sua parte di percorso era giunta al termine, ed era
ora di passare il testimone.
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