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Una donna sbagliata



Paola Casella




Francesco Roat, Una donna sbagliata, Avagliano Editore, pp.119, Euro 9,00

Per sentirsi sbagliata, in epoca fascista, bastava essere donna e, a dispetto del proprio genere, aspirare ad essere qualcosa di più (o di diverso) da una moglie sottomessa, una madre eternamente disponibile, una figlia servile, una giovane italiana adorante.

E' questa la premessa dietro Una donna sbagliata, secondo lavoro di fiction di Francesco Roat, dopo la raccolta Tra guardo (Argo). I lettori di Caffè Europa conoscono bene Roat come nostro critico letterario. Ma attraverso i suoi romanzi conosceranno l'altra metà di lui: il lucido e distaccato (ma mai freddo) recensore del lavoro altrui si trasforma nell'appassionato e partecipe narratore di vicende sempre raccontate in prima persona, anche se l'io narrante è ogni volta diverso, ogni volta una creazione letteraria originale.

Nel caso di Una donna sbagliata, l'io narrante è Elena, ragazza della buona borghesia trentina, due genitori che oggi definiremmo anaffettivi (ma che durante il Ventennio erano abbastanza la regola), un fratello straniato dalla guerra (o forse outsider dalla nascita). Tutto ciò che in Elena è vitale, erotico, affermativo della sua unicità individuale viene sistematicamente soppresso dal suo ambiente, dal suo quadro familiare, dal suo contesto sociale (Elena insegna in una scuola dove una collega viene allontanata per "astenia nervosa" e un'alunna perché ebrea). Tutto ciò che farebbe di Elena una donna normale, secondo gli standard contemporanei, in epoca fascista la rende una disadattata.

E la prima a sentirsi sbagliata è lei, che impara ad odiare il proprio corpo "esagerato", a negare le proprie emozioni, a subire la propria condizione di donna come un martirio, come una condanna a vita. Ciò che colpisce, nel romanzo di Roat, è proprio la capacità di calarsi non solo dentro una mente femminile, ma dentro una mente che nega la propria femminilità.

Non c'è grazia nelle parole di Elena, anzi, al contrario, c'è una continua ricerca di ciò che è sgradevole e abbietto, e che testimonia il suo profondo rifiuto di sé. E non deve essere facile, per uno scrittore delicato e gentile come Roat (lo conosciamo così attraverso le sue recensioni, sempre garbate, oltre che sensibili), cogliere il lato greve di una donna, la sua ferocia, la sua vocazione all'abbrutimento.

Roat tratteggia in modo efficace e commovente il ritratto di una donna non comune proprio nella rivendicazione della sua interezza, nell'ottusa determinazione a non cedere alcuna parte di sé a un mondo, e un regime, che voleva le persone ridotte a un paio di variabili, e perciò più facilmente manovrabili. Un mondo all'interno del quale le donne erano soprattutto massaie, fattrici e corcerossine, garanti di un ordine sociale che, come tutti gli ordini, veniva impartito da alcuni e subito da altri.

 

 

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