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Pirandello inedito e disperso



Pietro Milone




Luigi Pirandello, Taccuino di Harvard, Mondadori, 2002, pp. 150, Euro 6,80

a cura di Ivan Pupo, Interviste a Pirandello. «Parole da dire, uomo, agli altri uomini, Rubbettino, 2002, pp. 651, Euro 36

"L’uomo, dice Pirandello, è la bestia più infelice perché è complicato e il risultato è che se canta una calandra, se canta un cardellino, tutte le calandre, tutti i cardellini del mondo, e sono tanti, subito li capiscono, e magari rispondono e mille voci si intrecciano in coro. Invece l’uomo, con tutta la sua intelligenza e sapienza, con tutte le sue lingue e dialetti, se prova a farsi capire, sia pure da un altro solo uomo, non ci riesce"».


Dopo questa citazione l’intervista a Pirandello, pubblicata su «Il Tevere» del 7-8 ottobre 1936, proseguiva con il progetto del «suo libro testamentario»: Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, si sarebbe dovuto intitolare. Ma Pirandello non poté scriverlo e il suo proposito rimase consegnato a quella che fu la sua ultima intervista che possiamo leggere, ora, al termine di Interviste a Pirandello: il volume che raccoglie un centinaio di interviste (oltre la metà di quelle di cui il curatore, Ivan Pupo, dà notizia) rilasciate dallo scrittore alla stampa italiana dopo il 1902 e, per lo più, dopo il 1921, l’anno della celebrità raggiunta con la rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore.

Leggere queste interviste equivale, in definitiva, a soffermarsi sulla soglia del laboratorio creativo di Pirandello e, talora, ad entrarvi, guidati da lui stesso, per seguire l’elaborazione delle opere della sua stagione più fortunata e acclamata. Questo genere di testimonianze è prezioso e a volte indispensabile per seguire e ricostruire il work in progress di alcune opere, la cui composizione fu più lunga e tormentata delle altre, come Uno, nessuno e centomila, così come di lavori che rimasero incompiuti o allo stadio di puri progetti: dai Giganti della montagna e La moglie di prima a Adamo ed Eva, il romanzo al quale è dedicata un’intera intervista realizzata, nel 1926, dal figlio Stefano.

Tra gli intervistatori di Pirandello figurano personaggi divenuti anch’essi celebri, scrittori e critici o giornalisti-scrittori: da Pier Maria Rosso di San Secondo e Corrado Alvaro a Silvio d’Amico e Eligio Possenti o, ancora, a Goffredo Bellonci, Lucio D’Ambra, Umberto Fracchia, Orio Vergani. E, dietro a loro, c’è il corteo dei tanti altri navigatori dell’onda breve della cronaca giornalistica sorpassata e travolta dalla marea della storia letteraria: nomi magari celebri, allora ma, oggi, sconosciuti protagonisti di Quella «mostruosa macchina del giornalismo» alla quale Pupo dedica un’introduzione ricca e puntigliosamente documentata.

Come poteva Pirandello - lo scrittore del relativismo e dell’incomunicabilità, l’autore di Uno, nessuno e centomila, il drammaturgo che sottolineava l’esistenza di tanti Pirandello diversi nelle diverse recensioni dei critici - confidare nel mondo della comunicazione di massa, banalizzata oltre che, in parte inevitabilmente, distorta? Come poteva affidare ad esso la propria parola e la propria immagine?

Nel romanzo Suo marito (del 1911) la protagonista, la scrittrice Silvia Roncella, «si era scoperta un’altra […] di fronte a quel giornalista. Si era sentita felice anche lei di parlare, di parlare… E non sapeva più che cosa gli avesse detto. Tante cose! Sciocchezze? Forse… ma aveva parlato, finalmente!». Pirandello, che in quegli anni era ben lontano dalla celebrità, auspicava probabilmente quella profusione di interviste che, quando fosse diventato qualcuno, sarebbe finalmente arrivata ma che avrebbe diffuso una serie di immagini nelle quali l'autore non si sarebbe riconosciuto.

L’intervista sarebbe divenuta, allora, la prigionia della Forma, l’immagine riflessa di un fantoccio di se stesso: il fantoccio che in Quando si è qualcuno, una delle sue ultime opere teatrali, il protagonista, l’indefinito celebre scrittore e trasparente alter-ego pirandelliano, immagina di presentare ai visitatori e agli intervistatori, per fargli ripetere, grazie a un grammofono posizionato nello stomaco, «tutto quello - già fissato - che ho l’obbligo di ripetere a vita. Non perché l’abbia detto io; perché me l’hanno fatto dire gli altri! Cose che non mi sono mai sognato di pensare».

Pirandello non si sarebbe dunque sorpreso di fronte al titolo («Il sesso nel taccuino») con cui «L’Espresso», nel 1995, anticipava la pubblicazione di un suo taccuino inedito allora ritrovato. Lo avrebbe giudicato una forma, per di più incongrua, in quanto banale e scandalistica, per imprigionare la vita della scrittura. Proprio nei taccuini, infatti la Vita (contrapposta alla Forma dal critico Adriano Tilgher in una nota interpretazione dell’opera pirandelliana che Pirandello stesso, per un certo periodo, fece propria) trovava la prima e più immediata espressione.

Uno di questi scritti, l’inedito Taccuino di Harvard (ora pubblicato a cura di Ombretta Frau e Cristina Gragnani, due giovani studiose che vi premettono un lungo saggio come indispensabile guida), ci porta nel cuore della fucina creativa dello scrittore ben più delle interviste.

Nonostante l’esistenza dei taccuini sia nota almeno dal 1934, quando Corrado Alvaro ne pubblicò alcune parti (poi ripubblicate più volte), del più conosciuto tra di essi, il taccuino di Bonn (che accompagnò l'autore anche oltre gli anni del soggiorno universitario nella città tedesca), non esiste ancora un’edizione. Questa anomalia critica (ed editoriale, considerando il consistente mercato delle opere pirandelliane) si spiega, da un canto, con le vicende degli studi pirandelliani che solo da pochi anni hanno inaugurato, dopo decenni di una sovrabbondante, e talora inutile, messe interpretativa, una nuova stagione di studi filologici, attenti alla storia e alla ricostruzione dei testi; ma si spiega anche, da un altro canto, con le vicende connesse alla proprietà dei manoscritti: alla loro accorta, troppo accorta, o disaccorta conservazione, alla loro dispersione che di molti di essi ha fatto perdere le tracce.

Fu per questo motivo che, nel 1995, quando dall’archivio degli eredi di Lucio D’Ambra, lo scrittore e giornalista amico e vicino di casa di Pirandello, riemerse il taccuino inedito di cui abbiamo già detto (poi pubblicato, a cura di Annamaria Andreoli, con il titolo di Taccuino segreto), esso suscitò un certo clamore di stampa. E anche perché, messo all’asta da Christie’s, senza il provvidenziale intervento del Ministero dei Beni Culturali, avrebbe preso la strada di qualche ricca biblioteca o fondazione straniera. La strada, in altre parole, già presa dal Taccuino di Harvard, cosiddetto perché conservato alla Houghton Library della Harvard University che lo comprò da un noto libraio antiquario newyorkese per affiancarlo alle altre carte pirandelliane in essa conservate (tra le quali spicca il manoscritto del Fu Mattia Pascal).

La pubblicazione del Taccuino di Harvard colma un vuoto nella storia degli scartafacci pirandelliani: databile agli anni 1897-1902, in prevalenza, esso si inserisce tra quello di Bonn e quello di Coazze (una località della Val Sangone, in Piemonte, dove Pirandello trascorse la vacanze estive del 1901) e ci fornisce una serie di importanti testimonianze sul laboratorio creativo di Pirandello.
In esso possiamo seguire l’evoluzione dell’ideazione o della realizzazione di alcune opere: in primo luogo di numerose poesie confluite, per lo più, nella raccolta Zampogna, del 1901, o in quella più tarda, di Fuori di chiave (1912) di cui compare qui, per la prima volta, il titolo.

E possiamo cogliere il primo germe ideativo, condensato, di solito, in poche righe, delle trame e dei personaggi di molte novelle: Il vitalizio, Il lume dell’altra casa, La signora Speranza, Quand’ero matto e tante altre. Nuclei ideativi da cui talora fuoriusciranno alcuni elementi che confluiranno in opere diverse: un passo del taccuino affianca infatti elementi del Fu Mattia Pascal (e, poi, della commedia Liolà) e de I vecchi e i giovani. Di quest’ultimo romanzo che, fino a pochi anni fa, si riteneva composto non prima del 1907, nel taccuino sono presenti numerose presenze ideative: si ha così la conferma testuale di un’affermazione dello stesso Pirandello in alcune sue lettere la cui pubblicazione, nel 1998, aveva posto il problema di una diversa e anteriore datazione del romanzo.

La parte del taccuino più godibile per i lettori è senz’altro quella intitolata «Soggetti di novelle», dove al primo germe ideativo segue già una più estesa e articolata organizzazione e stesura dell’intreccio. Qui siamo peraltro, nel campo del già noto (fatte salve le avvertenze già espresse: proprio qui, infatti, troviamo la trama della commedia Liolà). Mentre è proprio da ciò che è ignoto (e che magari si sottrae anche alla puntuale catalogazione e annotazione delle curatrici), che possono venire nuovi stimoli e curiosità per i lettori più avveduti. Da questo campo, per ora inesplorato, emergono, per fare solo un paio dei possibili esempi, l’abbozzo di un dialogo tra Prometeo e Giove e, ancora, il breve ritratto di un personaggio artefice di bugie come «esercizio dell’immaginazione su tutte le probabilità verosimili. Egli non mentiva solamente; creava di sana pianta la verità». Un ritratto che prefigura l’autoritratto del Pirandello grande romanziere e drammaturgo del Novecento.

 

 

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