Non c’e’ ombra che sia piu’
oscura
Tina Cosmai
Fabrizio Rizzi, Non c’è ombra che sia più oscura, Editrice
Clinamen, Pag. 176, Euro 15,30
Fabrizio Rizzi è alla sua seconda prova narrativa. La prima, Diario
di bordo, pubblicata da Bollati Boringhieri, uscì nel 2000.
Rizzi è un prosatore che fonde la realtà e l’esperienza clinica
con la storia umana individuale, con la liricità della storia
personale, uno psicologo clinico e psicoterapeuta che vive a Trento,
dove è nato nel 1955; un dottore che crede profondamente nell’aspetto
itinerante della psicoterapia.
Ma procediamo con calma; Non c’è ombra che sia più oscura è
la storia di un lutto non elaborato. Marta, la protagonista del
romanzo, ha perduto sua sorella gemella in un incidente d’auto e
invece di accogliere il dolore di questa perdita espandendolo nelle
fibre del suo essere, si affaccenda nel trovare soluzioni di fatto,
nel mettere “ a posto” la realtà, insomma, di vivere
nascondendo dentro sé quel lutto, quella morte che invece giace
viva nelle profondità del suo spirito.

Il dolore non è qualcosa che si può mettere da
parte, è la vita che ce lo insegna. Difatti Marta, dopo alcuni anni
dal tragico episodio si ammala, e la sua malattia sembra non avere
una causa. La presenza costante di fobie, gli attacchi di panico
quando esce di casa, la nevrosi che serpeggia nella trama della sua
mente e delle sue membra, sembra essere nata dal nulla… questo
nulla che il malato di mente, spesso, si ostina a seguire.
Perché la malattia mentale dovrebbe nascere dal nulla; perché un
calo nell’equilibrio chimico del nostro corpo dovrebbe impedirci
di vivere; perché le paure devono essere immotivate; ma soprattutto
perché si pensa che il disagio mentale non sia una malattia?
Sono quesiti che mi pongo spesso e che Rizzi affronta nel suo
romanzo, rispondendo in maniera del tutto originale: attraverso la
narrazione di una storia, quella di Marta appunto. E a nulla è
valsa la rivoluzionaria scoperta freudiana della psicoanalisi se
alla fine si avallano teorie che sostengono l’uomo come l’insieme
chimico e genetico delle sue parti vitali.
La fobia che impedisce a Marta di oltrepassare la porta della sua
casa non può dipendere da un calo di serotonina, come tentano di
farci credere le moderne teorie psichiatriche, che spiegazione
puerile! Difatti le compresse rosa che Marta prende non annullano il
suo dolore, lo intontiscono, lo addormentano, ma esso è lì, sempre
vigile, ogni volta che lei lo ascolta.
Il dolore mentale è insopportabile, tanto che può portare al
non-contenimento della lacerazione spirituale che esso produce. Come
scrive lo stesso Rizzi "Pensare è fatica. Sentire -
soprattutto il dolore mentale- ancor di più".
In questa era della tecnica, della genetica assolutista, della
globalizzazione, l’universo dello spirito si è ristretto, tanto
da evitare persino il pensiero che esistano luoghi non “palpabili”
dove il dolore può risiedere, dove si trova l’intreccio tra l’es,
l’io e il super io, dove il valore della nostra storia ha un peso
enorme e intenso, la mente, appunto.
L’anima del romanzo di Fabrizio Rizzi sta proprio nell’importanza
della storia; il sintomo, la malattia sono il segnale che qualcosa
nel nostro equilibrio emotivo è cambiato, non la causa. E qui
comincia una ricerca che ha le caratteristiche del viaggio che il
paziente compie, che Marta compie.
Marta è una viaggiatrice, una cercatrice per dirla con
Hermann Hesse, perché siamo in viaggio, tutti, sempre e
comunque. La ricerca della verità che è in noi non è un
percorso lineare ma accidentato, denso di curve e di fossi, di
discese e di risalite, di cambi di direzione, di bivi.
Marta esplora le camere del suo spirito, compiendo un percorso
attraverso i suoi sogni, densi di simbologie, di metafore, di
significati manifesti che si fondono a quelli profondi. Marta
comprende che sta per accadere qualcosa nella sua vita e attende che
ciò si manifesti.
Accade che il passato ritorni attraverso la figura di Serendip, il
pittore che giunge a casa di Marta per dipingere dei trompe-l’oeil.
E tra i colori e i viaggi onirici, la protagonista esplora il suo
mondo interiore, sino ad arrivare a quella porta chiusa che sempre
è presente nei suoi sogni, ad aprirla e a ritrovare così il
passato rimosso, il dramma della morte di sua sorella mai vissuto,
espulso. Sì, perché il dolore mentale va espulso come in un parto;
non si esce dalla malattia mentale se non con una rinascita, un
ritorno alla vita nuovo, pieno di un senso e di un valore prima
sconosciuto.
La vita comprende i lutti, ogni perdita è un lutto e da ogni lutto
emerge una nascita, è il ciclo vitale che si accompagna in noi:
nascita/morte/rinascita. Questo percorso dialettico è descritto da
Rizzi con intensa liricità. Come in Diario di bordo, anche
in questo romanzo la poesia si immerge nella prosa, proprio a
significare che il viaggio attraverso noi stessi è il più bello,
perché il più doloroso, perché per rinascere bisogna morire. La
morte può essere un’emozione, una sensazione lirica, se si riesce
a vedere oltre… e oltre è il titolo dell’ultimo capitolo
del romanzo.
Marta dà luce e colore alle sue ombre, quelle più oscure; ha
saputo guardare e cercare attraverso quell’esile filo di luce che
da esse filtrava. Anche nell’oscurità più fitta, nel buio della
morte, c’è sempre un punto luminoso che seguendolo, ci conduce a
compiere "il passo che oltrepassa il confine del conosciuto,
per andare in ciò che è oltre".
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