In carne e ossa
Francesco Roat
Christa Wolf, In carne e ossa, traduzione Anita Raja, edizioni
e/o, pp.149, Euro 14,00
Non è un libro di facile lettura l’ultimo romanzo di Christa Wolf
tradotto in italiano (da Anita Raja). C’è poca (anzi nessuna)
trama; il testo è un lungo ininterrotto soliloquio giocato in prima
e in terza persona; la prosa è sontuosamente colta: ben
orchestrata, questo sì, ma molto letteraria; abbondano le citazioni
auliche (da Goethe, in primis); infine il racconto è venato
da riflessioni tra il sociologico e il filosofico che non
favoriscono la scorrevolezza, eppure…
Eppure vale la pena di misurarsi con questo romanzo atipico - in
questi tempi di narrativa all’insegna dell’intrattenimento -;
può risultare stimolante calarsi in questa storia sospesa e senza
sviluppo, dove niente accade ma in cui si parla di vita e di morte,
di illusioni utopistiche e disincanto, di passato e presente, di
sfiducia nel mondo e determinazione a lottare contro la malattia per
semplice voglia di esistere.

La vicenda è presto narrata. Protagonista una
anziana signora, ricoverata in un ospedale nella Berlino Est della
ex DDR. Prima un intervento chirurgico, poi un altro, nessuno dei
quali risolutivo. E una febbre defatigante che toglie ogni forza al
corpo esausto della vecchia donna, stordita, in balia di sofferenze
e ricordi che assumono la forma di incubi stranianti ed inquietanti.
Questo lo sfondo doloroso su cui e in cui prende corpo il
racconto. Attenzione, non si tratta di un’immagine, ma proprio di
quanto ha cercato di fare la Wolf: rendere palpabile il malessere
fisico e psichico attraverso una prosa che prova a dire l’indicibile
del patire.
Qualche settimana fa, giusto su Caffè Europa, si parlava
dell’importanza degli incipit letterari. A tale proposito l’avvio
di questo romanzo mi sembra davvero esemplare. Innanzitutto c’è
la parola iniziale, nella quale si condensa la prima riga: “Ferita”.
E poi, dopo uno stacco bianco, l’intensissimo prosieguo: “Gemiti,
niente parole. Parole accalcate contro il mutismo che si allarga
cocciutamente, insieme alla perdita di coscienza. Questo emergere e
immergersi della coscienza in una favolosa onda primordiale. Memoria
a isole. Là dove lei è sospinta adesso, le parole non arrivano,
dev’essere stato uno dei suoi ultimi pensieri chiari. Gemiti.
Dentro di lei, intorno. Gemiti che nessuno è capace di accogliere”.
Ben presto, però, la vicenda individuale della protagonista, lungi
dal rivelarsi solipsistico resoconto lamentoso, si dilata debordando
dalla storia individuale a quella collettiva. Il ricordo della
donna, infatti, non è mai ripiegamento intorno al vissuto privato
ma si rivolge ad eventi collettivi che hanno segnato il Novecento,
come quelli relativi al clima socio-culturale imbevuto di retorica
populista della Repubblica Democratica Tedesca o come la icastica ma
folgorante rievocazione della Cecoslovacchia invasa dai carri armati
russi (“Mi sento dire: hanno invaso Praga. E sento mia madre che
mormora: c’è di peggio. Volta la testa verso il muro. C’è di
peggio. Muore. Io penso a Praga”).
Certo, si tratta di una scrittura franta, scabra, spigolosa, che non
concede nulla all’ovvietà, alla spettacolarità del narrare. Una
scrittura impietosa, volta a mettere a nudo miserie, lacerazioni,
ambiguità ed errori non solo individuali ma pure sociali lungo l’arco
di un cinquantennio: dalla Germania nazista alla vigilia del secondo
conflitto mondiale al crollo di quella comunista. E, quasi non
bastasse, ecco d’improvviso affiorare domande fanciulle, tra
metafisica e scaltra innocenza, come: “cos’è per gli esseri
umani la felicità?”.
Conte philosophique, riflessivo monologo solitario, si
diceva, anche se la protagonista tenta in ogni modo di instaurare
dialoghi all’interno della spersonalizzante (e alienante)
struttura ospedaliera. E’ significativa la sottolineatura dell’importanza
del rapporto umano, della presenza dell’altro, solo attraverso la
relazione col quale ci si realizza come persona. Bella, a tale
proposito, l’umanissima figura del primario, sempre un po’
impacciato ma mai saccente, che rimanda all’archetipo del
guaritore ferito. Centrale quella dell’anestesista Kora (modellata
sulla falsariga di Kore/Persefone della mitologia greca), ossia “la
messaggera che afferra le anime non ancora morte in viaggio verso l’Ade,
le sottrae al mondo sotterraneo e le riporta nel regno dei vivi”.
Ma prima della guarigione che sembra promettere il finale del
romanzo, l’anziana signora dovrà percorrere un catartico viaggio
agli inferi della memoria - individuale e storica - attraverso
allucinazioni causate dalla febbre, che la faranno riandare dagli
anni delle persecuzioni contro gli ebrei ad un presente segnato
dallo sfacelo e dallo sbando in cui versava la Germania dell’Est
negli ultimi anni del regime comunista, quando negli ospedali
mancavano persino asciugamani e guanti da chirurgo.
Per scoprire, alla fine del viaggio, come l’unico modo per non
venire travolti da lutti e sconfitte è forse quello di “seguire
la traccia dei dolori” mantenendosi “disarmati”: nell’accettare
cioè l’ineluttabilità della perdita; consapevoli che “una
parvenza di felicità” fra esseri umani può nascere appena dal
donarsi l’un l’altro un assaggio della propria salsiccia.
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