Poesie, bambini e clandestini
Francesco Roat
Erri de Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, pp.39,
Euro 6,00
Ennio Cavalli, Bambini e clandestini, Donzelli, pp.117, Euro 10,85
Credo che la maggioranza degli estimatori dei racconti di Erri De
Luca non si sia meravigliata per la pubblicazione del suo primo
libro di poesie. Era prevedibile che questo narratore dal registro
stilistico così intensamente lirico-metaforico approdasse al verso
e non solo perché - come confessa l’autore nell’introduzione al
testo - “a cinquant’anni un uomo sente di doversi staccare dalla
terraferma e andarsene al largo”.

Semplicemente De Luca è un prosatore-poeta e se
pigliassimo una qualsiasi delle sue pagine romanzesche e ad ogni
virgola o punto andassimo a capo, avremmo una poesia. Parallelamente
- e senza sminuire la silloge appena edita - se togliessimo le
cesure dei versi ad Opera sull’acqua, otterremmo i capitoli di un
racconto. Nell’ottica più ampia dell’espressività, infatti,
non vale l’appartenenza a questo o quel genere letterario, bensì
la pregnanza e l’intensità di scrittura.
Ma veniamo alle poesie, legate fra loro da un fil rouge all’insegna
dell’acqua: soggetto dominante, insieme allegorico e concreto, che
costituisce l’impalcatura tematica dell’opera. Sia essa il
liquido elemento primordiale narrato nella Genesi, sia essa l’abisso
in cui naufragano i clandestini per i quali: “La terraferma Italia
è terrachiusa”.
Sarà che le acque “hanno volti”, sono evocative e allusive:
dicono della terra e dell’uomo che le percorre, illuso di
signoreggiarle, o che in esse perisce annegando. L’uomo, da sempre
tentato dal peccato originale della hybris, della tracotanza di
superare ogni limite, mentre è poi solo una “specie di viceré
del mondo,/ bipede senza ali,/ spaventato a morte dalla morte/ fino
a metterle fretta”.
Acqua come materia vitale e mortifera al contempo. “Ascolta il
tuffo del sangue quando l’amore stringe”, suggerisce De Luca; ma
anche: “Ascolta un altro chiasso,/ una montagna intera che
sfracella sopra l’invaso di una / diga”, incalza ancora il poeta
ricordandoci la tragedia del Vajont e (altrove) i fiumi insanguinati
della ex Jugoslavia. Acqua come cifra dell’umano e del suo mondo
quindi, giacché: “Siamo fatti di questo, d’acqua e aria, come
le comete,/ ma senza il ciclo di riapparizione e questo è
sufficiente/ per sollievo e congedo”. Infine acqua equivalente a
Sputi, come recita il titolo dell’ultima poesia. Sputo nella mano
che si asciuga sul piccone del manovale, ma pure sputo divino che
impasta la creta da cui verrà tratto Adamo. Lo sputo, confessa
umilmente l’autore in chiusa di volume, “tiene insieme,/ tutto
quello che ho scritto”.

Ed è sempre Erri De Luca a presentare l’ultimo
libro di poesie di Ennio Cavalli; testo che lo scrittore partenopeo
ci invita a leggere a tavola appoggiandolo al pane, avvicinandoci
cioè a esso attraverso un approccio informale. Come a dire: la
poesia, nutrimento dell’anima, non è faccenda di letterati o
prerogativa di accademie, ma va semplicemente gustata alla pari di
ogni altra cosa bella di questo mondo. Approccio che condivido
appieno, consigliando a tutti (specie chi non ha più sfogliato
poesie dai tempi della scuola) di leggere Bambini e clandestini:
sorta di peana nei confronti della vita in tutte le sue più diverse
sfaccettature.
Ciò che più colpisce in questi versi è infatti un energico sì
rivolto all’esistere, non frutto di vitalismo dionisiaco ma
testimonianza di un atteggiamento positivo ed accogliente nei
confronti di tutto quanto vive o ci tocca vivere: persone, animali,
luoghi, circostanze anche problematiche o dolorose. Sono però versi
di grande misura, all’apparenza assai semplici ed immediati, in
realtà frutto di notevole bravura linguistica e - credo - di una
sottrazione del superfluo che prosciuga la poesia di Cavalli fino a
farla essenziale e tersissima. Una poesia che sa cogliere con una
precisione folgorante situazioni e persone; come i quattro versi che
descrivono in modo straordinariamente intenso una barbona: “Incinta
di troppo baby, tutti whisky,/ l’ultimo la trapassò, scheggia di
alcol./ Cadde nell’atrio-biglietteria,/ coperta da un annuncio di
partenza”.
Una poesia ricca di immagini e metafore a descrivere il quotidiano
di gente umilissima ma colta in una autenticità davvero regale;
vedi l’arrotino che “legge sulle lame/ romanzi di vita
criminale/ e sgarri urgenti”. Una poesia che è vigorosamente
casereccia e terragna: sana, verrebbe da dire, ossia non nevrotica o
attenta solo al proprio ombelico ma aperta ad esplorare l’ambito
dell’altrove e dell’altro. Una poesia dove la tristezza sembra
bandita da una vitalità gagliarda ed anche beffarda, spesso, pur
senza acrimonia. Si avverte ovunque in Bambini e clandestini la
voglia di esplorare l’esistente con stupita freschezza e innocenza
bambina. C’è, insomma, un’aderenza alle cose, una fisicità
buona, la sottolineatura del piacere di esistere.
Infine una giusta dose di ironia, che non guasta mai a ben temperare
i versi sapidi e sensuali del Nostro. Come testimonia la
misuratissima poesia intitolata il caffè che, per chiudere
degnamente la serie delle prelibatezze di Cavalli, cito per intero.
Nei palazzi scrostati,
dove l’aria è amara,
ogni treno in arrivo
è sibilo ristretto di caffè.
Il lieve inganno fa sempre nuove vittime.
Scappano in cucina
a spegnere la fiamma che non c’è.
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