Unione Europea, facci sognare
Sebastian Faulks con Paola Casella
Sebastian Faulks è un'anomalia: uno scrittore di romanzi ambientati
nel passato che però lui non può (e non vuole) definire storici;
un narratore di grandi storie d'amore scritte in uno stile alto ed
erudito ("lirico", scrive la critica); un inglese che ha
ambientato tre dei suoi romanzi in Francia; un uomo che predilige
l'io narrante femminile.
Faulks, classe 1953, che prima di dedicarsi alla narrativa ha
lavorato per anni alle pagine culturali dell'Independent, ha
al suo attivo una serie di successi internazionali pubblicati in
Italia da Marco Tropea Editore, fra i quali Il canto del cielo
(Premio Selezione Bancarella nel '97), La ragazza del Lion d'Or e
Il gioco dell'alfabeto. Dal suo best seller La guerra di
Charlotte è stato tratto il film omonimo diretto da Gillian
Armstrong e interpretato da Cate Blanchett, fra poco sui nostri
grandi schermi.

In occasione dell'uscita di On Green Dolphin
Street (sempre Marco Tropea Editore, 352 pp., Euro 16,80), una
storia d'amore fra la moglie di un diplomatico inglese e un
giornalista italoamericano durante gli anni dello scontro elettorale
Kennedy-Nixon, Faulks racconta a Caffè Europa, con
caratteristico humor britannico, le sue abitudini di
scrittore e le sue opinioni sulla plausibilità di un'iidentità
europea.
Chi sono i suoi modelli letterari, e qual è il suo
"genere"?
I miei miti sono Dickens e Tolstoji, Zola e Proust, Dante e
Shakespeare. Questo non significa che sappia scrivere come loro,
anche perché ogni scrittore deve trovare il proprio stile senza
imitare nemmeno i suoi predecessori più illustri. Per quanto
riguarda il genere letterario, non ne ho uno in particolare: i miei
libri sono spesso ambientati nel passato, ma non fanno parte del
filone "fiction storica", quello dove i personaggi sono
vestiti in costume e si esprimono in modo demodé. Se devo
descrivere il mio stile letterario, invece, dico: scelgo ogni parola
con cura, come se dovessi comporre una poesia.

Come funziona per lei il processo creativo?
Sono le storie che vengono a bussare alla mia porta e a chiedere
di entrare. Si presentano sotto forma di immagini e di suoni, che io
accolgo a metà fra il conscio e l'inconscio. Possono nascere da una
chiacchierata con gli amici, e in quel caso il mio compito, come
scrittore, è quello di distinguere fra gli spunti sufficientemente
complessi e interessanti da costituire la base per un romanzo, e le
chiacchiere da lasciare al tavolino del bar.
Ma possono anche essere evocate da un ambiente particolare: io ad
esempio sono molto sensibile alle case. Mi è capitato di entrare
nell'abitazione di qualcuno e di essere travolto da un'ondata di
sensazioni e di idee, di visualizzare immediatamente un'atmosfera,
un cast di personaggi.
Qual è il suo metodo di scrittura?
Mi sforzo di costruire uno schema razionale, fatto di note e
diagrammi, pianifico un inizio e una fine e mi segno una mezza
dozzina di punti salienti della trama, qualche scena madre o qualche
momento chiave che serva a imprimere una svolta alla storia che
intendo raccontare. Poi però lascio che la storia si dipani da
sola, concedendole abbastanza spazio per crescere e per prendere
direzioni inaspettate. E alla fine il tutto assume una forma
coerente.
Quando rileggo Il canto del cielo, il mio romanzo di maggiore
successo, mi sembra che abbia una struttura narrativa forte e coesa,
ma ricordo benissimo che, quando ho iniziato a scriverlo, non avevo
la più pallida idea di come si sarebbe sviluppato. E' stato un day
by day in cui ogni mattina avevo la sensazione di sporgermi nel
vuoto, come Indiana Jones, e miracolosamente mi compariva sotto i
piedi un sostegno al quale appoggirami.
Quando scrivi un romanzo hai bisogno che la tua ispirazione regga
fino alla fine. Non c'è sensazione peggiore del ritrovarsi con un
centinaio di pagine dattiloscritte e la coscienza di aver smarrito
l'entusiasmo e l'energia necessari per portare a termine il lavoro.
Ma l'ispirazione va disciplinata. Costruisci nella tua immaginazione
un universo coerente, cerchidi dargli una forma, e solo allora lasci
che la fantasia corra a briglia sciolta.

Il suo io narrante è spesso una donna: è
difficile raccontare una psicologia femminile?
(Ride) Quello che per un uomo sia più difficile raccontare una
donna che un suo simile è un pregiudizio molto diffuso. E' vero
però che spesso gli scrittori uomini usano i personaggi femminili
come mera decorazione o come veicolo sessuale. Perciò sono stato
molto attento a restituire complessità e ricchezza alle mie
protagoniste, e questo ha significato "studiarle" più a
lungo a più attentamente.
Ogni volta che ho scritto una scena vista attraverso lo sguardo di
una donna, dopo aver fatto in modo che il mio personaggio dicesse e
facesse ciò che volevo farle dire e fare, rileggevo quanto avevo
scritto domandandomi: la protagonista ha detto o fatto qualcosa che
una donna non direbbe o non farebbe mai? Ed è un controllo al quale
non sottopongo mai le scene raccontate attraverso lo sguardo di un
uomo.
In ogni caso, il fatto che il personaggio sia maschio o femmina è
forse il dettaglio meno importante all'interno della narrazione:
contano di più altri fattori, come la sua età, o la sua
provenienza sociale, il suo temperamento, le sue circostanze di
vita.
In quale paese ha più successo?
I miei romanzi vendono bene soprattutto in Inghilterra, ma anche
negli Stati Uniti, il che per me è abbastanza sorprendente, visto
che sono ambientati nel passato e gli americani hanno una notoria
difficoltà a confrontarsi con la storia. Ricordo ancora che il
primo editore americano al quale ho offerto uno dei miei romanzi mi
ha chiesto di riambientarlo in epoca contemporanea - inutile dire
che ho semplicemente cambiato editore.
Il Paese dove i miei libri vendono di meno è la Francia, nonostante
- o forse proprio perché - tre dei miei romanzi sono ambientati
lì. Pare che i lettori francesi siano sconcertati dal fatto che un
autore inglese si occupi della loro storia, e lo faccia in maniera
anche abbastanza critica, come ne La guerra di Charlotte,
dove ricordavo che il governo francese aveva mandato volontariamente
i bambini ebrei ad Auschwitz per "fare numero" rispetto
alle "quote" di deportati richieste dal governo tedesco.
Lei come si vede: come un autore inglese, o europeo?
Uno scrittore non pensa mai alla propria identità. Preferisce
concentrarsi sugli eventi e le idee che devono entrare a far parte
dei suoi romanzi. Devo però ammettere che sono diventato un
romanziere nel tentativo di esplorare il mio passato, ciò che fa di
me quello che sono. Sono nato nei primi anni Cinquanta, cioè dopo
la Seconda Guerra Mondiale, dove mio padre aveva combattuto, e da
bambino ascoltavo i racconti di battaglia di mio nonno, che era
stato ufficiale durante la Prima Guerra Mondiale.
Davo quindi per scontato che da grande anch'io avrei combattutto in
qualche guerra: mi sembrava una naturale progressione del ritmo che
aveva scandito il passare delle generazioni che mi avevano
preceduto. Solo crescendo mi sono reso conto che la vita non deve
per forza essere una replica del passato, ma al contrario può
prendere direzioni del tutto inaspettate.
Crede che alla nascita dell'Unione europea corrisponderà quella
di un'identità europea?
Non credo che la gente abbia una gran scelta riguardo alla
formazione della propria identità etnica: non si può stabilire a
priori se si diventerà europei o si rimarrà inglesi, o italiani.
Vedo comunque il mondo intorno a noi cambiare gradualmente, e vedo
che noi ci abituiamo ai cambiamenti senza accorgercene. Faccio un
esempio: recentemente ho assistito a una partita di calcio insieme a
un anziano signore inglese che vive da decenni all'estero. Era la
finale Chelsea-Arsenal, e il signore ha osservato che, pur
trattandosi di due squadre londinesi, erano piene di stranieri. In
quel momento mi sono reso conto che, a livello sportivo come a
livello sociale, la società inglese è già in gran parte
multietnica.
Tuttavia l'idea di un'identità europea non è ancora sviluppata in
noi, ci abbiamo pensato solo in modo superficiale. Credo che la
maggior parte della gente istintivamente voglia tenersi attaccata
alle proprie radici, e ho paura che molti di coloro che sbandierano
la loro smania di identità europea lo facciano per ragioni
infantilmente idealiste o, peggio, biecamente economiche. Non esiste
ancora un senso profondo di identità europea, almeno non per le
generazioni che sono nate e cresciute in un paese senza pensare che
quel paese dovesse diventare una tessera del mosaico Europa. Forse
acquisiranno quel senso le nuove generazioni, o gli immigrati che
dall'Asia e dall'Africa arrivano in Europa cercando un futuro che
non sia specificatamente inglese, o francese, o italiano, ma
genericamente europeo.
Crede che l'Inghilterra tenga l'Unione Europea a debita distanza?
Penso che gli inglesi si pongano spesso la domanda: "Che cosa
ha fatto l'Europa per noi? E si danno la risposta:
"Niente". Poi si chiedono: "Che cosa abbiamo fatto
noi per l'Europa?", e si rispondono, "Moltissimo". Di
qui la reticenza ad entrare a far parte dell'Unione con entusiasmo.
Credo però che il problema principale sia che l'Unione Europea non
è riuscita a suscitare entusiasmo in nessuno dei Paesi membri. E'
un'istituzione così povera di idealismo, così mortalmente noiosa.
E' difficile per qualsiasi paese europeo scaldarsi e salire sulle
barricate per un gruppo di burocrati belgi grassi e borghesi il cui
unico scopo è far approvare leggi fastidiose.
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