Filosofia del Don Giovanni
Paola Casella
Umberto Curi, Filosofia del Don Giovanni, Bruno Mondadori, pp.
250, Euro 11,50
Lo confesso: ho letto questo saggio principalmente perché ho
grande stima del suo autore, illustre collaboratore di Caffé
Europa. Umberto Curi è docente di storia della filosofia e
direttore della sede di Venezia dell'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici e della Fondazione "Istituto Gramsci Veneto",
nonché autore di molti saggi critici come il recente Il volto
della Gorgone. La morte e i suoi significati (Bruno Mondadori).
Per Caffè Europa, e nel suo saggio Cinema e filosofia
(Raffaello Cortina), Curi ha analizzato alcuni celebri film - da Matrix
a Moulin Rouge ad A.I. - dandone una valutazione
filosofica piuttosto che cinematografica, scomponendoli in modo da
consentirci di esaminarne da vicino gli elementi costitutivi, e
ricollegando questi elementi alla tradizione filosofica, ma anche
alla leggenda e al mito.

Non stupisce dunque che Curi si sia cimentato, nel
suo ultimo saggio Filosofia del Don Giovanni, con un figura
che al reame del mito appartiene di diritto: il sottotitolo del
saggio spiega infatti che Curi si propone di andare "alle
origini di un mito moderno". E lo fa da par suo, con la
lucidità e il metodo che ci consentono di seguire il filo del suo raggionamento
(come direbbe Sciascia) senza smarrirci nella complessità delle sue
elucubrazioni, e senza venire abbagliati dal fulgore di certe sue
intuizioni.
Perciò, invece di lanciarmi in una recensione di questo saggio, che
insegue il mito di Don Giovanni attraverso le tre incarnazioni
classiche di Tirso de Molina, Molière e Mozart-Da Ponte, mi limito
a citarne alcuni paragrafi, attinti da vari capitoli del saggio ed
elencati in ordine sparso (ma non del tutto casuale), con il preciso
intento di farvi venire l'acquolina in bocca.
"Il mito del grande seduttore è indistricabilmente connesso
con il cristianesimo, non soltanto per l'enfasi che indirettamente -
negandola - il cristianesimo pone sulla sensualità (come aveva
osservato Kierkegaard), ma più ancora perché, nella sua essenza,
esso si costituisce muovendo dal presupposto della negazione di Dio
e del rifiuto ad accettare la morte come mezzo di redenzione".
"Prendersi gioco delle donne, e più in generale di tutta la
varia umanità con la quale (Don Giovanni) viene a contatto, farsi
beffe dei loro sentimenti, ridurre l'amore a inganno, equivale ad
attaccare il nucleo della buona novella recata dal Cristo, quella
concezione teogonica dell'amore che, nell'amore reciproco fra gli
uomini, indica la premessa per ricongiungersi direttamente a
Dio".
"Ecco dunque, ciò che merita una 'pubblica censura' e che
attira 'l'indignazione di tutte le persone pie": la derisione
della religione, la professione di libertinismo, lo scherno alla
maestà divina. Nessuna accusa di turpiloquio o di licenziosità, ma
una circostanziata denuncia di ateismo, libertinismo,
empietà".
"Figura autenticamente diabolica è Don Juan, proprio in
quanto espressione di un principio generale - la scissione contro
l'unione; la discordia contro la concordia; la guerra contro la pace
- e non soltanto simbolo di una circoscritta trasgressione, motivata
dalla pulsione sessuale".
"Don Giovanni conduce alle sue conseguenze più estreme, e più
rigorose, il processo di immanentizzazione soggiacente al programma
libertino, affrancando l'amore da ogni funzione ontologica e da
qualsivoglia implicazione teologica, e mostrando come esso
scaturisca da quel medesimo sostrato materiale di istinti e bisogni,
di desideri e implusi, che sono alla base di una modalità di
rapporto fra gli uomini altrettanto primitiva - e altrettanto
insopprimibile - dell'amore, quale è (...) la guerra".
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