| La conversazione 
 
 
 Francesco Roat
 
 
 
 Theodore Zeldin, La conversazione - Di come i discorsi possano
            cambiarci la vita, Sellerio, pp.149, Euro 8,00
 
 
 Vi garba poco l’attuale assetto planetario, la situazione
            internazionale, la società odierna, il pianeta a rischio di
            irreversibile degrado? In parole povere, vorreste cambiare il mondo
            come i quattro amici al bar della canzone di Gino Paoli?
            Allora puntate sulla conversazione, imparate a conversare, fate in
            modo che sempre più gente lo faccia e il cambiamento, anzi il
            miglioramento di ciò che vorreste mutare verrà da sé.
 
 No, non sto vaneggiando e questa non è una boutade. Si
            tratta dell’autorevole opinione del prof. Theodore Zeldin dell’Università
            di Oxford, consigliere del Brains Trust della BBC, nonché
            inserito dall’Indipendent of Sunday nella lista delle
            quaranta personalità a livello mondiale le cui opinioni potranno
            influenzare il terzo millennio. Insomma, questa idea che favorendo e
            migliorando la comunicazione verbale tra gli umani possano derivarne
            enormi benefici legati alla risoluzione di problematiche a livello
            globale è una teoria serissima, illustrata da Zeldin all’interno
            di un saggio discutibile ed utopistico quanto si vuole, ma oltremodo
            stimolante e provocatorio.
 
 “Credo che il ventunesimo secolo debba
            orientarsi verso un nuovo ambizioso obiettivo - scrive l’eccentrico
            studioso inglese -, quello di sviluppare non le modalità del
            parlare ma la conversazione, la quale sì che è in grado di
            cambiare le persone”. Ma in che senso e come si opererebbe tale
            cambiamento? Innanzitutto - e non mi sembra cosa da poco - a detta
            di Zeldin il conversare (scambiandoci l’un con l’altro idee e
            punti di vista, non chiacchiere da salotto o sul tempo) ci permette
            di assumere una diversa ottica attraverso cui guardare il mondo; ne
            consegue che, se muta la prospettiva dalla quale osserviamo le
            situazioni, pure queste ultime vengono fatalmente a mutare. Però,
            secondo il nostro professore, bisogna liberarsi da un fuorviante a
            priori concettuale: quello di ritenere che il mondo sia retto
            solo dalle ferree leggi dell’economia, e che volontà di dominio
            ed egoismo siano le uniche molle che spingono le persone ad agire e
            soprattutto interagire.
 Attraverso la conversazione noi operiamo un vero e proprio “scambio”
            fra menti caratterizzate da memorie e abiti cognitivi differenti. Ma
            queste menti, scrive Zeldin, lungi dal limitarsi a comunicare meri
            fatti, “li trasformano, li rimodellano, ne traggono conseguenze
            diverse”. E cita un aneddoto relativo alla scoperta del DNA che,
            per un certo verso, sarebbe stata il risultato di una serie di
            annose conversazioni tra i due scienziati Crick e Watson, i quali
            nei loro interminabili colloqui a trecentosessanta gradi seguivano
            una sola regola molto creativa: parlare di qualunque argomento
            venisse loro in mente, per quanto strampalato o poco scientifico
            fosse. Ciò al fine di non restare ingabbiati all’interno di
            ambiti specialistici rigidi e castranti.
 
 Purtroppo, oggi, persino nelle facoltà umanistiche manca quest’apertura,
            questa disponibilità al dialogo, al libero scambio di menti; come
            manca una formazione universitaria in grado di forgiare quelli che
            Zedlin, con felice espressione, chiama individui del Rinascimento,
            cioè non solo esperti in un limitato settore, ma in grado di
            spaziare tra aree disciplinari diverse. La specializzazione, al
            contrario, tende a limitare l’orizzonte discorsivo entro troppo
            angusti confini, debordare dai quali è considerato
            professionalmente sconveniente o inutile.
 
 Così le teorie, le idee più ardite e destabilizzanti sono guardate
            con sospetto e di esse raramente si conversa. Eppure le più grandi
            rivoluzioni scientifiche (si pensi solo a quella copernicana) sono
            state rivoluzioni rispetto ad un modo scontato di guardare al mondo
            e di parlare del mondo. Il geocentrismo, infatti, entra in crisi
            quando per i più illuminati uomini di scienza e di pensiero risulta
            inconcepibile immaginare ancora il nostro piccolo pianeta al centro
            del sistema solare.
 
 Conversare, gettare ponti verso regioni della mente e del cuore
            inesplorate, dialogare senza preconcetti con l’altro - specie se
            straniero e portatore di usi e costumi diversi - significa rendersi
            disponibili al cambiamento del proprio modo di vivere e pensare:
            condizione sine qua non di successivi mutamenti: culturali,
            sociali, economici persino; in quanto i concetti di lavoro,
            benessere, realizzazione variano a seconda dei discorsi che
            su essi vengono fatti, e quindi non è possibile fissare una volta
            per tutte in modo dogmatico e definitivo in cosa consista - ad
            esempio - la ricchezza o la miseria per il singolo, la collettività
            o il genere umano.
 
 Conversazioni, allora, per fare incontrare giovani e vecchi, per
            dialogare senza prevenzioni con chi la pensa politicamente in modo
            dissimile dal nostro. Conversazioni per incrementare la fratellanza
            e il reciproco rispetto, per veicolare idee, suggerire o recepire
            progetti, modi di vita alternativi.
 
 Utopia, si dirà, pensare che le parole e i discorsi possano mai far
            cambiare alcunché. Può darsi, ma in ogni caso, prima di scartare
            come illusoria questa tesi, parliamone.
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