Madre nostra che sarai nei cieli
Sergio Garufi
Piersandro Pallavicini, Madre nostra che sarai nei cieli,
Feltrinelli, 2002, pag. 246, Euro 13,50
Mario Provera, il protagonista del bel romanzo di Piersandro
Pallavicini, Madre nostra che sarai nei cieli, è un
architetto trentenne di successo che vive a Milano in una bella casa
piena d’oggetti di design e opere d'arte, viaggia con macchine
costose, mangia nei migliori ristoranti, ha diversi amici colti e
ricchi, collabora a una prestigiosa rivista di arte contemporanea e
si circonda di donne stupende; eppure non è capace di godersi tutti
quei privilegi, perché non riesce a scrollarsi di dosso i sensi di
colpa originati nella sua infanzia.

Tutti i suoi problemi nascono da lì, da quei
primi anni vissuti in Brianza, in una famiglia borghese come tante,
apparentemente tranquilla, rispettabile e benestante. La madre che
lavora come impiegata in un mobilificio, il padre che dirige
un'agenzia d’assicurazioni, i giochi nel cortile con gli amici, le
rivalità col fratello maggiore.
La narrazione si alterna su due piani temporali e spaziali distinti.
La Milano di oggi coi suoi vernissage, il denaro, il lusso
sfacciato, gli incontri facili; e la Brianza della fine degli anni
'60, con gli attriti e le tensioni incomprensibili fra i genitori,
la scoperta di una sessualità ambigua e incerta, le difficoltà
economiche. Centro del racconto è l'ospedale di Niguarda, luogo di
dolore fisico e morale, dove la madre del protagonista adulto viene
ricoverata per una leucemia che la condurrà alla morte, e dove il
protagonista bambino si era ritrovato per una malattia inizialmente
non ben diagnosticata.
Entrambi quei ricoveri riveleranno nel finale al protagonista il
vuoto affettivo che sta alla base di quell'unione familiare, insieme
alle vere ragioni dei suoi sensi di colpa, espiati in parte solo
attraverso un’eccentrica religiosità, "piegata a un'oscena
numerologia".
Non avevo apprezzato particolarmente il suo primo romanzo, Il
Mostro di Vigevano (edito da Pequod nel ‘99). Mi era parso una
tranche de vie banale, grigia, insignificante; e forse infastidivano
un po’ tutte quelle situazioni sospese, le cose non dette, i
chiarimenti rimandati. Ma proprio questo è uno dei meriti maggiori
dei libri di Pallavicini, cioè che non lasciano mai indifferenti,
ma smuovono qualcosa in profondità, sollecitano una forte
partecipazione emotiva, e il disagio e il malessere che la loro
lettura provoca nascono da questi personaggi così volutamente
sgradevoli, ambigui, sfuggenti; e allo stesso tempo, nella loro
apparente quotidianità, così riconoscibili.
La lettura di Madre nostra - opera certamente più articolata
e complessa nella struttura narrativa, e più matura nella
padronanza dei mezzi espressivi rispetto al Mostro -
chiarisce che proprio quella è la cifra stilistica dell'autore; che
da un lato mette a nudo figure comuni, mostrandone i lati più
imbarazzanti e detestabili, e dall’altro ci presenta quel
"mostro" come una persona qualunque, normale, a tal punto
da potercisi riconoscere come in uno specchio. Come nel titolo della
sua precedente raccolta di racconti (Anime al neon, Fernandel),
i personaggi di Pallavicini sono tratteggiati in modo asettico
mediante uno stile crudo e asciutto e una luce fredda e
ambulatoriale come il neon; senza indulgere a compatimento o
pietismo di sorta.

Le parti migliori del libro restano, a mio avviso,
quelle riguardanti l'infanzia, nelle quali il narratore riesce a
restituire lo sguardo stupito e innocente dei bambini; mentre la
descrizione della Milano dandy e cinica non sempre convince,
risentendo, a tratti, di un compiacimento eccessivo e di una critica
un po’ di maniera.
Curiosamente, proprio alcuni errori topografici milanesi (per
esempio il fatto che il protagonista, uscendo di casa in via
Crocefisso, si rechi a prendere la metropolitana in via Turati
anziché in piazza Missori; o che passi per piazza Piola in macchina
dovendo andare dalla Stazione Nord a Niguarda), tradiscono, da parte
dell’autore, una scarsa conoscenza sia della città che dei suoi
riti mondani, descritti in modo un po’ stereotipato.
Ma è pur vero che l’ambientazione meneghina rimane molto sullo
sfondo, lasciando la scena a quello che rappresenta l’autentico
fulcro narrativo del romanzo, cioè il dramma familiare del
protagonista, reso con grande abilità registica e dialoghi
perfetti.
La dolente catarsi finale, vissuta, come in una tragedia greca,
sulla sorprendente agnizione dei vari personaggi e costruita, come
in un thriller, sul disvelamento graduale dei veri motivi della
dissoluzione della famiglia, raggiunge nelle ultime pagine toni di
commosso e trattenuto lirismo, con l'uso sapiente del futuro
semplice per illustrare le azioni del protagonista, e con la tenera
allusione a una profonda amicizia virile, ultimo disperato sostegno
cui aggrapparsi nel fiume in piena degli eventi.
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