Sonderkommando
Francesco Roat
Salmen Gradowski, Sonderkommando, Diario da un crematorio di
Auschwitz, 1944, Marsilio, pp.222, Euro 14,00
Il Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau era una squadra
davvero speciale, essendo formata da ebrei deportati, costretti ad
operare nelle camere a gas e nei forni crematori del campo di
sterminio nazista. I membri del Sonderkommando costituivano
un gruppo a parte all’interno del Lager, usufruendo d’un
trattamento assolutamente privilegiato rispetto agli altri
prigionieri causa l’ingrato compito cui erano destinati: rimuovere
i cadaveri dalle finte sale docce in cui era stato immesso letale
acido cianidrico; quindi (dopo aver tolto loro eventuali denti o
anelli d’oro e aver rasato i capelli alle donne) ridurli in
cenere: in un primo tempo bruciandoli in grandi roghi e poi, più
efficientemente, attraverso gli impianti di cremazione.
All’inizio del 1945, nel vano tentativo di eliminare ogni traccia
dei loro strumenti di morte, le SS distrussero tramite esplosivo sia
i forni che le camere a gas. Ormai la maggior parte degli
appartenenti al Sonderkommando era stata a sua volta
eliminata ma i pochi sopravissuti, nell’immediato dopoguerra,
fornirono un significativo atto d’accusa nei confronti degli
aguzzini che li avevano costretti a tanto esecrande e disumane
mansioni. Fra le alcune centinaia di ex membri della famigerata
Squadra speciale di Auschwitz, che non uscirono vivi dai campi di
concentramento, spicca la figura dell’ebreo polacco Salmen
Gradowski, autore di alcuni quaderni diaristico-testimoniali sullo
sterminio, redatti in lingua yddish tra il ‘42 e il ‘44 all’interno
del Lager e ritrovati dopo la liberazione del campo in due
contenitori metallici, sepolti nei pressi dei forni crematori.

La testimonianza di Gradowski è, a dir poco,
agghiacciante. Essa inizia con una perorazione all’ipotetico
futuro lettore affinché egli si rivolga ai parenti del deportato
rimasti in vita per ottenere da loro una fotografia della sua
famiglia “bruciata qui martedì 8/12/1942”, da pubblicare
assieme al diario a perenne memoria dei congiunti assassinati: la
moglie, la madre, le due sorelle, il suocero e il cognato di
Gradowski. Segue quindi una amara confessione: l’immondo lavoro
imposto ai componenti del Sonderkommando è così
psicologicamente devastante che: “non puoi provare neppure il più
grande dei dolori”, in quanto il tormento individuale “è
inghiottito dal dolore collettivo”.
Da parte dell’autore, por subito le mani avanti in quello che
potrebbe venire interpretato come un inopportuno tentativo
giustificatorio, costituisce una manovra difensiva nei confronti
delle accuse di collaborazionismo e complicità con gli aguzzini,
rivolte al Sonderkommando dagli altri internati. In effetti
non era certo facile simpatizzare per gente come Gradowski, che
nella speranza di salvare la pelle era giunta a svilirsi in compiti
così degradanti. Non va tuttavia dimenticato che - come ebbe a
sottolineare un’ex internata: Elzbieta Jezierska - i “Sonder”
erano “prigionieri di tempi crudeli, tempi di morte e di disprezzo
nella grande fabbrica dei morti, ad Auschwitz”. Perciò, esorta
con grande pietas la donna: “Non affrettatevi a giudicare”.
E’ quanto implicitamente chiede Gradowski, ribadendo con dolorosa
insistenza come la condizione apparentemente privilegiata degli
appartenenti alla Squadra speciale non fosse poi tale, essendo loro
obbligati a vivere ogni giorno - sia pure per interposta persona -
il reiterato sterminio dei propri fratelli (così vengono spesso
chiamati nel testo gli uccisi nelle camere a gas) in uno stillicidio
di violenza senza fine. “Ho veduto davanti a me l’abisso d’orrore
nel quale è finito il mio mondo” osserva senza mezzi termini il
testimone privilegiato dello sterminio. Un orrore talmente assoluto
da ingenerare un’apatia straniante (“ancora non abbiamo potuto
piangere”).
L’importanza del diario non sta comunque nel racconto della
sofferenza di chi assisteva al massacro, ma nella relazione
dettagliata di quanto accadeva prima, durante e dopo il letale
transito nelle camere a gas; sta nella lucida descrizione di una
serie di omicidi di massa perpetrati con algida disumanità. Sono
pagine estreme, talvolta terribili per i dettagli così macabri e
raccapriccianti, ma che andrebbero inserite nelle antologie
scolastiche e fatte leggere soprattutto ai ragazzi perché sappiano
a cosa può giungere il razzismo, il disprezzo per il diverso, la
supponenza del credersi appartenenti ad un popolo superiore. Il
cuore del diario è, si diceva, il resoconto puntuale della
macchina per lo sterminio.
Quando vengono condotte al macello le vittime “confuse, svuotate,
rassegnate”, esse devono spogliarsi. I carnefici parlano di docce,
però i morituri “hanno intuito che questi non sono dei bagni, ma
che questa stanza è l’anticamera della morte”. Qualcuno o
qualcuna, con rassegnazione stanca, interroga Gradowski: “Dimmi,
fratello, dura a lungo la morte? Fa soffrire? O arriva rapidamente?”
Ma non c’è tempo per rispondere: bisogna affrettarsi, stiparsi
nudi nel bunker in cui verrà immesso il venefico gas Zyklon-B.
E dopo l’esecuzione, tocca al Sonderkommando entrare in
azione. E’ una scena da far rabbrividire. “Si tira, si strappano
di forza i cadaveri dal groviglio”. Poi, ogni morto, “come una
carogna lurida e disgustosa, verrà gettato sul montacarichi, verso
l’inferno, e inviato ai forni”. L’intero processo di
cremazione - annota puntigliosamente Gradowski - dura venti minuti,
“e un corpo, un mondo, è ridotto in cenere.” Questo è quanto.
Non ritengo vi sia necessità di commento ulteriore.
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