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Alfabeto eretico



Pietro Milone




Matteo Collura, Alfabeto eretico, Longanesi, 2002, pp. 192, Euro 13,00

In una società imposturata dal Potere e dai mass media, la verità che concerne la realtà effettuale delle cose è la più radicale eresia possibile, affidata a una sorta di santi laici di cui l'Italia, purtroppo, continua ad avere bisogno. Uomini «di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio», li definiva Leonardo Sciascia nella dedica di Morte dell'inquisitore, il racconto-saggio del 1967 imperniato sulla figura di fra' Diego La Matina, l'eretico racalmutese arso sul rogo a Palermo nel 1658, prototipo della sua resistenza al Potere.

Per Sciascia valeva quanto affermato da Camus: «La nobiltà del mestiere dello scrittore è nel resistere all’oppressione, e quindi nell’accettare la solitudine». Sciascia, scrittore libero, intellettuale disorganico, fu solo di fronte al Potere e solo all’interno dell’opposizione: a partire dalle polemiche su Il contesto e, ancor più, dopo quel Candido che segnò la rottura definitiva col PCI e una svolta determinante per l'uomo e per lo scrittore; solo in tutte le memorabili polemiche che lo videro protagonista (e che raccolse nel testamentario pamphlet des pamphlets di A futura memoria).

«Mi duole l'Italia», dichiarava Sciascia ai giornalisti durante i suoi soggiorni a Parigi dove, tra il '77 e il '78, meditava di trasferirsi. «L'Italia è un Paese senza verità» diceva allora a Sartre Sciascia, che alla verità si atteneva con tenace e impudente - ad occhi ipocriti - candore, con la radicale impoliticità di un moralista moderno. Quella sua visione sarebbe divenuta sempre più scettica - sulla scia di Montaigne e del relativismo pirandelliano - e pessimisticamente cupa, fino all’apocalittico, ma per molti versi “profetico”, affresco conclusivo de Il cavaliere e la morte.

Matteo Collura, giornalista delle pagine culturali del «Corriere della Sera», agrigentino, amico dello scrittore di Racalmuto, è l’autore di Alfabeto eretico: un dizionarietto che, attraverso le tante citazioni che compongono le sue 58 voci, delinea una sorta di ritratto di Sciascia par lui même (analogamente all’Alfabeto pirandelliano di Sciascia). Del libro converrà sottolineare, innanzi tutto, la presenza costante della dimensione biografica (Collura è autore anche della prima biografia sciasciana: Il maestro di Regalpetra).

E, poi, una serie di utili puntualizzazioni: a proposito, ad esempio, dell’enigmatica citazione dell’epigrafe funeraria («Ce ne ricorderemo di questo pianeta») o della frase «Né con questo Stato né con le Brigate rosse», diffusasi poi nel linguaggio politico con la soppressione dell’aggettivo dimostrativo. E converrà sottolineare, ancor più, la pubblicazione (alla voce Primavera) di uno scritto inedito giovanile intitolato Fantasia Agrigentina (del giugno 1940).

Alfabeto eretico
inscrive la vita e la scrittura di Sciascia tra la A di Abbondio, che ne definisce, per antitesi, la poetica (e la politica), e la Z di Zolfo, lo stesso dilemma che concludeva l’Alfabeto pirandelliano. Lo zolfo di una Sicilia sempre presente nell’opera di Sciascia (e in tante voci dell’Alfabeto eretico: Sicilia, appunto, Scirocco, Irredimibile, Circolo, Mafia, Antimafia ecc.). L’avventura dello scrivere, per Sciascia, era nata dall’avventura della zolfara, in un intrico di ragioni personali e sociali: il suicidio, nel 1948, del fratello Giuseppe, nella miniera di Assoro, in provincia di Enna, e il desiderio di riscatto da quella che Collura definisce la «dittatura del feudo, che è anche la dittatura del luogo in cui si nasce».

Era stato il desiderio di quel riscatto a ispirare le Parrocchie di Regalpetra, la cui prefazione si concludeva con l’immagine della meridiana della chiesa della Matrice ferma al 13 luglio 1789. Fu Il giorno della civetta, poi, a creare la definitiva fama di Sciascia come scrittore siciliano e mafiologo: una fama certamente riduttiva, specie quando collegata a letture di tipo quasi folklorico, di cui Sciascia si lamentava (in un’intervista a Davide Lajolo, nel 1981) definendo il suo romanzo un “essemplo” della trasformazione della mafia del latifondo in mafia cittadina, della quale evidenziava «i rapporti col potere legale: l’esecutivo, la burocrazia, i partiti (e soprattutto il partito della Democrazia Cristiana)». Il discorso sulla Sicilia di Sciascia era, in definitiva, un discorso sull’Italia e sul Potere, come emergeva già in quel romanzo, quando Sciascia scriveva: «Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia», immaginando una «linea della palma» che, con gli scandali, avanzava su su per l’Italia, ed era «già oltre Roma».

Era l’Italia del potere democristiano prima, del compromesso storico poi, contro la quale Sciascia polemizzava. «Nel suo immaginario di scrittore, la Democrazia cristiana diventerà un mostro, un Leviatano dal corpo metà sirena (quella che attrarrà a sé le forse popolari, i partiti della sinistra) e metà drago (quella che contribuirà alla corruzione generalizzata del Paese)», scrive Collura, sottolineando come per Sciascia il PCI dovesse essere il partito della «questione morale». Questa componente etica dell’iniziale progressismo, non marxista, e anzi, per molti versi, antimarxista, di Sciascia, mi sembra però che andrebbe sottolineata per rintracciare l’eredità di una cultura laica, giellista e azionista, e poi radicale, piuttosto che per affermare, come fa Collura, che Sciascia «è un comunista alla Gide, [che] ha più del cristianesimo che del marxismo» (affermazione completata, per gli ultimi anni, dalla dichiarazione di Sciascia sulla sua «impressione di avere perso globalmente lettori a sinistra e di averne trovati di destra e di centro»).

Collura evidenzia (chiamando giustamente in causa anche il Pasolini della resistenza antropologica all’omologazione) la lotta di Sciascia contro la «desertificazione ideologica e morale» e la sua affermazione (in Nero su nero) che «uno scrittore dovrebbe sempre poter dire che la politica di cui si occupa è etica. Sarebbe bello che potessero dirlo tutti. Ma che almeno lo dicano gli scrittori». Questa affermazione esprime una visione realistica e civile della letteratura (che convive, peraltro, con una visione metafisica determinata dagli influssi di Pascal, Pirandello, Borges) come contro-storia d’Italia scritta dai suoi intellettuali disorganici. Al riguardo conviene citare uno splendido passo di Cruciverba, ingiustamente trascurato da Collura: «In quella terra quasi di nessuno (o di qualcuno), in quell’esile striscia di territorio intellettuale e morale in cui - come sulla luna il senno di Astolfo e di tutti gli uomini che l’hanno perduto - sta il senno e il senso della storia d’Italia.

Di una storia non realizzata, tralignata, impedita; ma che pure esiste, se negli italiani migliori sempre trova testimonianza e altissima l’ha trovata in Dante e in Manzoni. In quella terra quasi di nessuno si ritrova tutto ciò che nella pratica italiana, nel farsi della storia italiana, è stato ridotto a puro nominalismo, a vana retorica, a fittizia conflittualità, da un machiavellismo endemico e a momenti epidemico: vi si ritrova il cristianesimo nella sua essenzialità, il cattolicesimo nelle sue vene più limpide anche se tenui, il diritto più certo, l’aspirazione alla giustizia più fervida, gli ideali del Risorgimento più veri».

Sciascia - che sostiene la disorganicità di Manzoni, spietato verso le responsabilità individuali, rispetto al cattolicesimo italiano, consolatorio e assolutorio - legge I promessi sposi come il disperato e impietoso ritratto dei vizi della società italiana, personificata in don Abbondio, vero protagonista e trionfatore del romanzo. Collura, nella prima e già ricordata voce del suo libro, per far risaltare l’ eresia sciasciana, illustra l’opposto sistema di don Abbondio, predominante fino all’Italia contemporanea: «un sistema di servitù volontaria […]. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, l’uomo del ‘particulare’ contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi».

Per Sciascia la resistenza al Grande Fratello di un’orwelliana società del presente può avvenire solo nell’assunzione individuale di responsabilità, poiché collettivamente domina l’impostura che riscrive e falsifica la storia del passato. Il Presente va evitato per sfuggire all’ impostura, agli errori, rifugiandosi nella letteratura (l’ «esile striscia di territorio intellettuale e morale in cui [...] sta il senno e il senso della storia d'Italia», come abbiamo visto) in una reclusione nella quale consiste la libertà, e la solitudine, dello scrittore. La solitudine, ovverosia, scriveva Sciascia: «il nessun legame con qualsiasi forma di potere comunque costituito, l’indifferenza a ogni ricatto economico, ideologico, culturale, sentimentale persino. Quella che una volta, solennemente, si chiamava noncuranza dei beni terreni. Una condizione difficilissima a conseguirsi». Sciascia, tuttavia, tentò di avvicinarcisi, con tenacia e con comportamenti personali coerenti: basti pensare, come ricorda anche Collura, al rifiuto dell’offerta di 5 miliardi (nel 1989!) per il passaggio alla Mondadori.

Alla voce Tana si legga la frase di Montaigne citata in epigrafe al Contesto: «Bisogna fare come gli animali che cancellano ogni traccia davanti alla loro tana». Collura la interpreta alla luce di una successiva ripresa sciasciana che aggiungeva e spiegava: «per non farsi scoprire e trovare dall’errore, dagli errori». E la interpreta anche alla luce di una poesia di Pessoa: «Nasce un dio. Altri muoiono. La Verità/ né venne né se ne andò: mutò l’Errore».

 

 

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