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Questa pazza fede



Andrea Tolu



Tim Parks, Questa pazza fede, Einaudi Tascabili Stile Libero, 2002, pp. 430, Euro 14

Come vive, pensa, soffre un ultrà? Solo un ultrà può dirlo, o meglio solo chi è tanto dentro il tifo da capirlo, ma abbastanza fuori da poterlo vedere e raccontare. Tim Parks, autore di A Season with Verona, uscito qualche settimana fa a Londra a appena tradotto dall’Einaudi (Questa pazza fede), sembra avere entrambe le caratteristiche. Inglese, ma a Verona da vent’anni, narratore di larga fama internazionale (i suoi romanzi sono proposti dall’Adelphi) e tifoso della squadra locale, Parks racconta la sua esperienza con il tifo organizzato delle Brigate gialloblù, seguendo il Verona anche in trasferta, sciroppandosi migliaia di chilometri in autobus per vedere partite magari noiose, o in cui la squadra è condannata in partenza.

La stagione col Verona è l’occasione per parlare del calcio italiano e dell’Italia in generale, e il quadro che ne esce non è proprio lusinghiero verso il carattere nazionale. L’Italia è “un Paese che ammira più i lustrini della lealtà, che ha sempre anteposto lo stile alla rettitudine, o confuso le due cose per convenienza,” un Paese dove le regole devono per forza essere complicate, e dove non esiste “popolo più incline ad immaginare complotti.” In mezzo a tutto ciò, il campionato di calcio riflette i “campi di forza in perenne vibrazione della vita nazionale: Nord-Sud, metropoli-provincia.” Ciononostante, la sensazione di Parks è che l’Italia sia un’unica nazione, tenuta insieme dallo stesso “bisogno di ingiuriare” e di parlare di calcio.

Quello di Parks è anche un viaggio tra gli stadi italiani. Da quello di Bari, “enorme, tanto brutto all’interno quanto imponente da fuori, al Delle Alpi, di un’“eleganza in scala monumentale. Eppure… malgrado tutto è freddo e suscita distacco;” da Lecce, “una struttura piccola e bassa, ma ben concepita,” allo stadio di Udine, “colorato e pittoresco con le sue tribune vecchio stile;” da San Siro, che “fra tutti gli stadi italiani è quello che fa più impressione. è di una verticalità chiusa, severa… una Bastiglia riconvertita a centro ricreativo,” al San Paolo di Napoli, una “tinozza di cemento enorme, antiquata, grigia.”

Citando ora Leopardi, ora studiosi di antropologia, Parks spiega che il calcio è una fede, ma non in senso proprio: “la folla crede nell’Hellas, ma in fondo non ci crede. Può sognare, ma non si aspetta sul serio di andare in paradiso.” Mentre la fede dell’uomo primitivo è vera, all’uomo moderno è concesso solo un “auto-inganno collettivo” e consapevole. Nelle squadre più piccole, questo atteggiamento diventa eroico, perché proclamarsi campioni quando l’obiettivo sarà rimanere in serie A, è “il sommo ed estremo dei successi.”

Anche se l’amore di Parks per il Verona è incondizionato, almeno all’inizio rimane ai margini delle Brigate, senza diventarne parte integrante, perché il suo atteggiamento critico gli impedisce un coinvolgimento totale, ma soprattutto perché, nelle tifoserie delle cosiddette “provinciali,” alla fede nella squadra si aggiunge anche un forte radicamento locale. Il Verona quindi, appartiene prima di tutto a chi è nato e cresciuto all’ombra del Bentegodi.

Questa condizione fa oscillare continuamente lo scrittore tra il “noi” e il “loro,” e gli permette di analizzare lucidamente i sentimenti del tifoso, così come il fenomeno del razzismo. Parks non nega che ci sia, ma traccia dei confini precisi, per far capire dove secondo lui finisce, e dove inizia lo stereotipo della “Verona razzista,” tanto caro a certi media. Il razzismo dei butei (che in dialetto significa “bambini,” ed è il nome con cui si chiamano tra di loro gli ultrà del Verona), spiega l’autore, è quasi sempre solo verbale, limitato all’interno dello stadio, e perpetrato solo in base al colore della pelle, non per motivi genericamente etnici o religiosi. Ecco perché gli ultrà non potevano essere gli autori del (falso) pestaggio al professore ebreo Marsiglia, ed ecco perché, quando i tifosi del Verona hanno fischiato Mihajlovic, non l’hanno certo fatto perché “zingaro.” Finché sei bianco, dice Parks, per i gialloblù non c’è nessun problema.

Il razzismo ultrà, secondo Parks, non è una cosa “seria,” nel senso che genera solo parole in un determinato contesto, ma non atti violenti fuori o dentro il contesto, che è quello di un gran “teatro,” di un gioco delle parti. Quando la polizia tiene a bada i tifosi, questi si ribelleranno, ma alla fine faranno esattamente ciò che viene loro ordinato. Allo stesso modo, la curva è lì, oltre che per essere il dodicesimo, ma anche il “tredicesimo, quattordicesimo, quindicesimo uomo in campo,” anche per affrontare la tifoseria opposta. E lo fa con offese e ingiurie, ma lo scontro è, e rimane verbale e a distanza.

Quando non siamo in presenza di violenza vera e propria quindi, la battaglia è solo simbolica, le offese e le minacce sono rituali, fanno parte del gioco. Così si spiega l’apparente contraddizione per cui i butei insultano la curva opposta urlando “negri” o “albanesi,” fischiano quando un giocatore di colore dell’altra squadra tocca il pallone, o indossano mascherine anti-inquinamento per proteggersi dalla “puzza dei napoletani,” ma poi si arrabbiano se qualcuno li accusa di essere razzisti. Anche se la logica può apparire oscura ai non iniziati, in realtà è tutto un grosso equivoco: gli ultrà non saranno delle educande (ma Parks non li descrive certo come tali, anche se si ha l’impressione che talvolta muoia dalla voglia di farlo), ma sono molto meno pericolosi di quanto faccia comodo credere.

Le analisi di Parks convivono nel libro assieme a veri e propri assiomi, come quello per cui l’arbitro è sempre e comunque a favore della grande squadra, e soffre terribilmente quando non può concederle un rigore, o annullare un gol ai brocchi di provincia; o quello per cui è impossibile, per chiunque sia nato e cresciuto a Verona, tifare per un grande club invece che per l’Hellas. Quando ciò accade, non è mai per amore, ma solo per interesse, visto che evita la sofferenza della serie B. E’ il tifoso o l’osservatore esterno a parlare in questi casi? Stabilirlo non ha poi molta importanza: le due anime convivono e si confondono in Parks, così come il tifoso convive con lo scrittore, il cittadino italiano con quello inglese, e l’individualità dell’intellettuale con l’unione alla comunità.

Le considerazioni di Parks aiutano a capire meglio il suo ormai famoso articolo sul Chievo, che ha suscitato molte polemiche. Apparso lo scorso autunno, nel pieno del fenomeno mediatico-calcistico della “favola Chievo,” l’articolo proponeva una tesi decisamente controcorrente: il Chievo è amato non perché è una squadra piccola che surclassa le grandi, ma perché rappresenta il “politicamente corretto,” cioè l’esatto contrario di ciò che si vuole vedere nell’Hellas. Lodando apertamente il Chievo, i cui tifosi non bestemmiano e applaudono anche i giocatori con un colore della pelle più scuro del loro, si può quindi continuare a odiare, ipocritamente e in silenzio, il Verona.

Il resto sono parole piuttosto offensive sia nei confronti del quartiere e dei suoi abitanti, sia verso il presidente e l’allenatore. Chi sono questi “contadini,” - scrive in sostanza Parks - questi poveracci che abitano in un quartiere sconosciuto e marcescente, per venire nella nostra città, a giocare nel nostro stadio, con colori simili ai nostri, e appropriandosi persino del nostro nome, facendosi chiamare Chievo Verona? Risposta scontata: nessuno. Il Chievo è una squadra senza comunità, senza radici, quindi un guscio vuoto, bel gioco e nient’altro, - come afferma nel libro - “un sottoprodotto del moderno calcio televisivo, la prova provata della non indispensabilità dei tifosi in carne ed ossa.”

Se pensiamo a quell’articolo come all’opinione di un giornalista, tolte le doverose osservazioni sui facili entusiasmi mediatici verso il Chievo, e sui pregiudizi verso la città e la sua tifoseria, le parole di Parks sono indubbiamente offensive. Ma il loro peso cambia, se pensiamo che è il tifoso a parlare, e se riconduciamo tutto all’ambito dell’ingiuria e del simbolismo ultrà. Hornby l’ha spiegato per la prima volta ai profani in Febbre a 90’, e Parks lo conferma nel suo libro: per ogni tifoso, il calcio non è un piacere estetico, ma sofferenza, gioia e dolore estremi, individuali, e soprattutto collettivi. Per il tifoso, lo stadio non è solo il luogo dove si giocano le partite, ma una casa, un posto dove mettere radici e trovare un’identità. E i colori della squadra non servono solo a distinguerla da tutte le altre, ma sono una bandiera, qualcosa che appartiene alla comunità e a nessun altro.

I giocatori e i dirigenti passano, ma queste cose restano. La “vera posta in gioco,” intuisce Parks, non è la sconfitta o la retrocessione, ma “il pensiero-tabù: e se la nostra comunità sparisse?” Di fronte a questo incubo, il tifo diventa un “esorcismo rituale,” per mezzo del quale la squadra avversaria e il suo seguito, cioè la minaccia, vengono battute ed espulse dal territorio, così che la comunità possa continuare ad esistere, e deve farlo, perché la scomparsa dell’esaltazione collettiva lascerebbe posto al vuoto dell’esistenza individuale.

Questa mescolanza di diverse identità è soprattutto un punto di forza del libro, che può quindi essere letto su piani diversi. Questa pazza fede rende un servizio prezioso agli ultrà, aiutando chi non è tifoso a capire il perché di certi atteggiamenti e il loro vero significato. E’ un libro che può aiutare anche gli ultrà a capire meglio se stessi, come intuisce il tifoso “Maio,” che sul sito ufficiale dell’Hellas propone l’idea di affidare a Parks un forum che “ci formasse come cultura, in senso calcistico ma soprattutto in senso personale.”

E’ quindi un peccato che, mentre l’unione con le Brigate si rafforza, il delicato equilibrio tra coinvolgimento e distacco si spezzi, e alle riflessioni intelligenti sul calcio e sul tifo, Parks aggiunga una retorica faziosa e autoreferenziale del “soli contro tutti,” che non serve a nessuno se non agli ultrà, per sentirsi sempre e comunque nel giusto. In Italia, scrive, “tutti vogliono che la propria squadra vinca a qualunque costo e tutti vogliono sinceramente che il mondo sia giusto. Non è uno stato d’animo facile da governarsi.” Nemmeno per Parks.

Dopo migliaia di chilometri percorsi assieme alle Brigate, del proposito di “riflettere a lungo e con impegno” sul calcio e la società, rimane poco. E’ pur vero che nel nostro Paese tutto viene politicizzato, e che fa comodo a molti vedere in Verona la città più razzista d’Italia. Ma, se per gli ultrà insultare un calciatore di colore non è razzismo, o (com’è accaduto recentemente) rallegrarsi della morte di Mero non è poi così grave, mentre per chi sta fuori dalla loro logica invece sì, non ci si può sempre proclamare vittime della demagogia di un certo giornalista e dei pregiudizi delle “anime pie.”

Chi ha dato agli ultrà la patente per decidere che “in certe situazioni, determinate leggi siano di fatto sospese”? “Il calcio offre un ambiguo territorio intermedio fra parole e botte,” dice Parks, ma è davvero il calcio a offrirlo, o i tifosi a crearselo? Perché per Parks il “politicamente corretto,” che vorrebbe non solo che la gente di colore non venisse picchiata a sangue di notte nei vicoli, ma anche che non venisse insultata, dentro allo stadio deve essere sempre sinonimo di ipocrisia? E perché, chi prova disagio nel guardare una partita in mezzo a gente che bestemmia, che urla “meridione in fiamme,” o fa il verso della scimmia quando un “negro” tocca la palla, non trovando divertente e non condividendo quell’atteggiamento, deve essere per forza un bigotto perbenista (e quindi destinato a tifare Chievo)? Come afferma saggiamente l’autore, un carattere distintivo degli italiani è un “paradossale miscuglio di autostima e malcontento,” che a quanto pare Parks, dopo vent’anni nel nostro Paese, ha avuto tutto il tempo di apprendere.

 

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