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Tra due mari



Francesco Roat




Carmine Abate, Tra due mari, Mondadori, pp.197, Euro 14,60

L’invito a presenziare al Salone del Libro di Parigi ha rappresentato per Carmine Abate la meritata conferma, a livello europeo, d’una notorietà che da tempo travalica i confini del Belpaese (i suoi romanzi sono ormai tradotti in varie lingue). Ma Abate è due e forse anche tre volte cittadino e scrittore europeo; in quanto di origine italo-albanese, essendo nato in Calabria a Carfizzi - una comunità arbëreshe -, ed in quanto emigrato per anni in Germania, dove ha pubblicato nel 1984 il suo primo libro di racconti Den Koffer und Weg!, successivamente riedito in italiano nella versione ampliata dal titolo Il muro dei muri (Argo, 1993).

Personalmente, ricordo il gioioso stupore che mi prese nel 1991 quando lessi le splendide pagine d’avvio del romanzo di un’allora sconosciuto esordiente, speditomi dalla Casa Editrice Marietti. Si trattava de Il ballo tondo (ristampato da Fazi nel 2000), a tutt’oggi forse il suo capolavoro. Una narrazione tra fabula e disincanto, all’insegna d’una scrittura fortemente metaforica, dal ritmo poeticissimo da antica ballata popolare. Una vicenda - come sempre in Abate - attuale e insieme legata al passato, al ricordo, alla storia con la esse maiuscola e minuscola: quella degli accadimenti soggettivi e dei grandi eventi. Un romanzo corale dalla prosa sapida e vibrante, capace di una magia evocativa come poche altre, in grado di ricostruire il mondo di ieri delle comunità tradizionali arbëreshe.

Due anni dopo, ecco i quattordici racconti del Muro dei muri, aventi per tema la vita degli emigranti in Germania e volti a sottolineare il cruciale problema dello sradicamento, vissuto (patito) quale perdita d’identità ed alienazione. Doppiamente esuli, i “germanesi” di Abate non solo hanno perduto al contempo la “piccola Arberìa” e la Calabria, ma quando ritornano o sognano di tornare dall’esilio - sempre il tema di fondo di questo autore è la nost-algia: il dolore (álgos) per il mancato o difficile ritorno (nóstos) - il rimpatrio agognato, il ritorno alle origini risulta impossibile, avendoli la lontananza contaminati in modo irreversibile, essendo essi ormai divenuti fatalmente stranieri a loro stessi.

Quindi, nel 1999, il secondo fortunato romanzo La moto di Scanderbeg (Fazi), che già a partire dal titolo - dove è citato il soprannome del genitore di un giovane arbëreshe: Giovanni - fa riferimento al noto eroe leggendario albanese (XV sec.), campione della resistenza antiturca, il quale nel libro quasi si reincarna nella figura del padre del protagonista, venendo a rappresentare il “passato catarroso che ti soffoca” da cui il ragazzo non sa o non vuole liberarsi. Così, ancora una volta il nóstos, il ritorno, qui nostalgicamente inteso come la restaurazione del mondo tradizionale, fallisce o risulta estremamente problematico. Lo conferma il finale amaro e tragicissimo che conclude quello che è, a mio avviso, il testo più melanconico di Abate.

Maggior levità mi sembra invece abbiano registro compositivo e scrittura del suo ultimo romanzo, Tra due mari, ambientato in un paese sito “come un ferro di cavallo su una collina” fra Ionio e Tirreno. Ancora e sempre due sono i protagonisti: il presente, rappresentato dall’io narrante Florian, ed il passato che ha voce e figura dello “sgherroso” Giorgio Bellusci: nonno di chi ci narra la favola bella sul recupero (questa volta infine felicemente realizzato, nonostante lacrime e sangue) d’una locanda, ossia il mitico “Fondaco del Fico”: già amena trattoria finita in rovina. L’asso del racconto è però il vecchio Bellusci di cui Florian, mezzo tedesco e mezzo italo-albanese, rievoca le fatiche e i drammi per portare a buon fine un’iniziativa osteggiata dalla ‘ndrangheta.

Mai come in questo libro Abate si lascia e ci fa prendere dal piacere della fabulazione che scorre fluida come un racconto orale e dal gusto dell’intreccio, pur se la trama ha talvolta esiti scontati - che Giorgio Bellusci sia destinato a soccombere e il testimone venga raccolto dal nipote, è abbastanza prevedibile -; però questo non nuoce all’economia del romanzo. Anzi, in un certo senso favorisce la lettura e la voglia di scoprire (di confermare) quanto ci si attendeva dai personaggi: veri propri eroi di un’epica minore, fatta dal coraggio di sopravvivere ed essere fedeli a un progetto che lega più generazioni: il ripristino, appunto, del Fondaco del Fico, la cui storia parte dal lontano ottocento e arriva ad oggi tra incontri con uomini illustri (Alexandre Dumas), garibaldini, piemontesi, briganti e “americani” (gli emigrati negli USA), passando per prigioni, killer e botti di dinamite che ovviamente non riusciranno a distruggere il sogno di Giorgio e di Florian.

Ma forse il pregio maggiore di Tra due mari sta nella vivacità descrittiva di caratteri e luoghi, essendo il romanzo un grande arazzo paesaggistico rurale di forte pregnanza evocativa. C’è scialo di profumi, sapori, aromi. C’è tutto il calore, la vivacità di un Sud passionale e sanguigno. Per non parlare della corporeità sensuale che traspare con naturalezza dal comportamento dei vari personaggi che affollano questo romanzo così segnato dalla presenza del sesso inteso quale sana espressione vitale (“Si mangia bene e si fotte benissimo”).

Ed anche la chiusa della favola bella appare nel segno del raggiunto equilibrio d’una positiva conciliazione tra il passato e il presente, il modo campagnolo e cittadino, la Calabria e la Germania, i giovani e i vecchi. Florian, deciso a non tagliare i ponti con l’Amburgo paterna, infatti prenderà in mano a modo suo il Fondaco del Fico, destinato a rimanere aperto solo nella bella stagione, in quanto: “Vivendo in due posti diversi tra loro come il sole e la luna, mi illudo di vivere due volte, perché in ogni posto mi tuffo a capofitto”.

Come a dire una volta per tutte: bando a regressioni, patetismi e troppo facili nostalgie. Siamo o non siamo finalmente cittadini europei?

 

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