Riformisti per forza
Federico Solfaroli Camillocci
Che cosa ha impedito al centrosinistra di capitalizzare i suoi
successi di governo? Che cosa ha determinato il distacco evidente
tra il Paese e la classe dirigente dell’Ulivo? A queste domande,
quanto mai attuali, tenta di rispondere Nicola Rossi, docente
universitario di economia politica, deputato dell’Ulivo, già
consigliere economico di D’Alema a Palazzo Chigi, con il libro,
edito dal Mulino, intitolato Riformisti per forza. La
sinistra italiana tra 1996 e 2006. Un libro che - come ha
scritto Dario Di Vico sul Corriere della Sera - “può
diventare il manifesto della sinistra liberal e blairiana”.
Attraverso un’analisi puntuale delle linee di politica economica,
sociale e del lavoro degli ultimi governi di centrosinistra, l’autore,
senza trascurare i significativi successi raggiunti, individua
limiti e ritardi che hanno portato alla sconfitta del 13 maggio
2001.
Vi è stata, anzitutto, l’incapacità di usare appieno la legge
elettorale come nel 1996, pur in presenza di rapporti di forza forse
migliori di quelli registrati nel passato. E’ emersa, poi, una
difficoltà di comunicazione (al “chiacchiericcio della classe
politica” ha corrisposto “l’afasia dell’attività di governo”).
Ma è soprattutto la debolezza culturale con cui la
coalizione ha affrontato i problemi del Paese la ragione essenziale,
a detta di Rossi, del distacco tra società e dirigenti dell’Ulivo,
debolezza che ha trovato quotidiana espressione nei pregiudizi,
nelle paure, nelle consolidate abitudini, nelle ambiguità che hanno
caratterizzato l’azione della maggioranza. “Non sono pochi i
casi in cui l’incapacità o la difficoltà di leggere la realtà
ha fatto sì che tematiche cruciali per ogni strategia riformista
finissero per essere affrontate decisamente a parole ma in pratica
tardi e male, con il brillante risultato di consegnare ad altri le
proprie bandiere”.

E’ indubitabile che dal 1996 al 2001 l’Italia
sia cresciuta economicamente e socialmente, come dimostrano
chiaramente i dati riassunti nell’Appendice del volume. Eppure, al
raggiungimento di grandi obiettivi, come quelli del risanamento
finanziario e dell’adesione all’Unione monetaria, non è seguita
una performance soddisfacente su fronti importanti, quali la competitività
e l’equità, sebbene ciò non sia riconducibile solo a
scelte politiche ma pure alla qualità del nostro sistema delle
imprese. Nonostante l’enorme lavoro compiuto su questi e su altri
temi, si è trattato sempre di “interventi non iscritti in un
disegno politico” compiuto, diretto a colmare il nostro divario
dall’Europa.
Porsi sul serio i temi della competitività e dell’esclusione
sociale avrebbe significato, per il centrosinistra, riflettere senza
pregiudizi e senza riserve mentali sul nuovo sistema di relazioni
internazionali, sui nuovi paradigmi tecnologici e sulle loro
implicazioni sui modelli di produzione, consumo ed organizzazione
sociale, ridefinendo il campo d’azione dell’operatore pubblico.
La stessa caduta del governo Prodi è, per Rossi, la conseguenza di
un’insufficienza programmatica e soprattutto culturale del
centrosinistra italiano.
Nel Mezzogiorno si è misurata in modo particolare, secondo l’autore,
la distanza tra la coalizione ulivista e gli italiani, a causa di
decisioni politiche spesso contraddittorie, dell’incapacità di
scegliere con nettezza tra opzioni diverse e inconciliabili di
politica economica.
Inoltre, nel passaggio dalla “stagione dell’emergenza” alla
fase successiva non si è avuta - osserva Rossi - quella distinzione
di ruoli necessaria per affrontare le nuove sfide che derivavano
dall’ingresso nell’area dell’euro, distinzione di ruoli che
richiedeva che ognuno tornasse a fare il proprio mestiere,
riportando la concertazione al suo significato originario e
impostando su basi equilibrate e più trasparenti i rapporti tra
governo e società (e sue rappresentanze). Il riferimento è in
primo luogo al sindacato, che, superata l’emergenza, sarebbe
dovuto stare “più in fabbrica e meno nei palazzi”. Confondendo
alcuni ruoli o negandone altri si è ingenerato nell’elettore il
“dubbio devastante della inutilità della partecipazione”.
In definitiva, l’analisi di Rossi appare assai argomentata e
stimolante, anche se, a nostro avviso, non sufficientemente
autocritica su taluni aspetti determinanti dell’azione di governo
del centrosinistra (si pensi, ad esempio, alla riforma del sistema
fiscale, che ha deluso le aspettative di chi si attendeva una più
significativa riduzione della pressione fiscale e un’effettiva
semplificazione di norme e procedure).
Peraltro, per interpretare il ruolo di un’opposizione credibile
che si presenti al prossimo appuntamento elettorale come concreta
alternativa di governo occorre, altresì, secondo l’autore,
analizzare i comportamenti dell’avversario. Sotto questo profilo,
i primi atti della politica economica del centrodestra si
caratterizzano per la prevalenza di interventi correttivi a
carattere temporaneo; non si affrontano i problemi strutturali dell’economia
italiana; si accantonano i temi dell’innovazione e della ricerca;
manca una strategia per le aree depresse.
Nelle scelte della nuova maggioranza si intravede, inoltre, un’inversione
di tendenza che apre la strada a una rinnovata, diffusa presenza
della politica in tutti i segmenti della vita sociale ed economica,
con un ritorno a una sorta di “dirigismo discrezionale” a
livello domestico, espresso dalla volontà di ripristinare un
controllo politico sulle imprese a partecipazione pubblica, dal
tentativo di condizionare le Autorità indipendenti, dalla
riluttanza ad accelerare i processi di privatizzazione, da una
nostalgia del centralismo statale che traspare in certi
provvedimenti legislativi o nei vincoli imposti agli enti locali
attraverso la legge finanziaria.
Partire, quindi, dai limiti del centrodestra per organizzare una
opposizione “paziente, incisiva e vincente”: questa è la strada
indicata da Rossi, secondo il quale, tuttavia, è indispensabile che
l’Ulivo abbandoni una autolesionistica strategia della
competizione per la competizione tra le sue componenti, per porsi,
invece, seriamente la questione della legittimazione democratica del
leader, legittimazione che sta innanzitutto nel suo programma e
negli obiettivi collettivi che vi sono indicati.
In definitiva, la sinistra riformista deve riprendere a “declinare
nel quotidiano i suoi valori di sempre con riferimento alla concreta
realtà in cui essa vive ed opera”, tornando, altresì, a
valorizzare temi come quelli dei diritti civili, della scuola e del
Mezzogiorno, facendo proprie le discussioni sui limiti e i pericoli
della globalizzazione, che non deve essere solo subita ma deve
essere pensata e governata, creando un sistema di regole globali per
i mercati globali.
Ma soprattutto la sinistra riformista deve affrontare il tema della
sua rappresentanza sociale, cosciente del fatto che i confini
sociali si sono fatti esili e vaghi; chiedendosi, al di là di
schemi consolidati, quali sono effettivamente le posizioni più
deboli da difendere. “La sinistra dei valori spesso guarda negli
occhi la sinistra degli interessi e, come nel Ritratto di Dorian
Gray, la scopre diversa da sé: vecchia, livida e scavata.”
Occorre una sinistra che sia presente dovunque c’è un problema di
democrazia, un problema di equità, un problema di libertà, anche
quando quei problemi riguardino gruppi sociali tradizionalmente
lontani dalla sinistra. Una sinistra che scelga un progetto per una
società più aperta e partecipata, abbandonando quella centrata sui
limiti alla concorrenza, sulle corporazioni, sulle barriere che chi
è dentro erige verso chi è fuori.
In sostanza, una sinistra nella quale la scelta di una linea
socialdemocratica ed europea non sia compiuta “per forza”, come
è accaduto troppo spesso negli ultimi anni, ma per convinzione.
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