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Pietro Farro




Alessandro Baricco, Next, Feltrinelli, pp. 90, Euro 6,00

Global, local, no global, new global, glocal, logo, no logo, branding, outsourcing. Non è uno scioglilingua inglese, ma un minimo elenco dei termini che più spesso ricorrono sui mezzi d’informazione a proposito del tema più discusso dei nostri tempi: la globalizzazione. Che vivessimo nell'epoca del "villaggio globale" lo aveva già detto Marshall McLuhan negli anni Settanta, ma è certo che oggi abbiamo di questo fenomeno una percezione assai più netta che in passato.

Ormai da qualche anno non si contano gli articoli giornalistici e i libri che parlano dell'argomento, a cominciare dal citatissimo NoLogo di Naomi Klein. Buon ultimo, è giunto da qualche giorno in libreria anche Next (Feltrinelli) di Alessandro Baricco, "piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà" come recita il sottotitolo.

Noto a tutti per la sua attività di romanziere, non è la prima volta che Baricco si cimenta con la scrittura saggistica, mostrando di trovarcisi perfettamente a suo agio. Il volume - che riprende, con qualche correzione e qualche aggiunta, quattro lunghi articoli pubblicati su Repubblica nello scorso autunno - parte dalla constatazione che "un'unica definizione della globalizzazione, buona per tutti, non esiste per la semplice ragione che si hanno molte idee diverse su cosa sia, effettivamente, la globalizzazione". Così, visto che non c'è una definizione univoca del fenomeno, Baricco inizia con l'andare a verificare alcuni tra i più diffusi luoghi comuni che circolano sulla globalizzazione.

Ovvero: che la globalizzazione consista nel fatto che i prodotti delle multinazionali siano diffusi in ogni angolo del globo; che grazie ad Internet sia possibile acquistare qualunque cosa senza staccarsi dal computer di casa; che il cinema americano sia visto in tutto il pianeta; che i monaci tibetani comunichino col mondo grazie a Internet.

E' vero tutto questo? Sì e no, è la rispota, a parte la questione dei monaci tibetani che è inventata di sana pianta. Per il resto: è vero che la Coca Cola è presente dovunque, ma il suo consumo non sempre raggiunge livelli significativi (un indiano ne beve in media quattro bottigliette l'anno). E' vero che si può comprare quasi di tutto tramite computer, ma quelli che lo fanno sono una percentuale trascurabile.

E' vero che il cinema hollywoodiano è visto in tutto il mondo, ma, come scrive l'autore, "la globalizzazione implicherebbe un flusso circolare di denaro e prodotti" mentre in questo caso "il mondo vede i film americani, gli americani non vedono i film del mondo", perciò è più appropriato parlare di "colonizzazione culturale".

Insomma, la globalizzazione c'è ma è difficile da identificare con qualcosa di preciso. Allora chiediamoci: "Qual è il propellente della globalizzazione?". Risposta: i soldi. Se questo è vero, "la globalizzazione è un paesaggio ipotetico, fondato su un'idea: dare al denaro il terreno di gioco più ampio possibile". Resta da domandarsi se sia un bene o un male, una cosa da contrastare o da assecondare. Trattandosi di qualcosa che nasce per favorire l'economia capitalista il rischio più serio è che si arrivi ad un mondo regolato esclusivamente dalla legge del profitto e, quindi, del più forte. Prospettiva assolutamente indesiderabile e fanno benissimo le organizzazioni no-global a mettere tutti noi in guardia da questo rischio. Però, la globalizzazione ha pure le sue attrattive: "La circolazione delle idee, la moltiplicazione delle esperienze possibili, il superamento dei nazionalismi, l'adozione della pace come terreno obbligato della crescita collettiva".

Ma è possibile una globalizzazione buona, che sviluppi le opportunità positive senza far prevalere la legge del più forte? E' la domanda che arrovella da qualche anno le menti di studiosi e leader politici in tutto il mondo. La conclusione cui giunge Baricco suona come un auspicio e un'esortazione: "La globalizzazione, così come ce la stanno vendendo, non è un sogno sbagliato: è un sogno piccolo. (...) E' un sogno grigio, perché viene direttamente dall'immaginario di manager e banchieri. In un certo senso si tratterebbe di iniziare a sognare quel sogno al posto loro: e realizzarlo".

 

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