A cosa credono quelli che dicono di
credere
Francesco Roat
Arnaldo Nesti, A cosa credono quelli che dicono di credere,
Meltemi, pp.119, Euro 11,40
A cosa credono davvero quelli che affermano di essere religiosi?
Questa la domanda di fondo alla quale ha cercato di rispondere un’articolata
e puntuale ricerca sociologica, a cura di Arnaldo Nesti, condotta a
Poggibonsi su un campione di 621 persone tra i 18 e i 74 anni. Non
è infatti così semplice analizzare la reale appartenenza a un
credo o a un orientamento religioso. Perché, solo per fare un
esempio, se l’82,07% degli intervistati ha dichiarato di
riconoscersi all’interno del Cattolicesimo (dato che rispecchia
abbastanza fedelmente la media nazionale: 88,6%), l’adesione ai
principi basilari: ai dogmi di fede non raggiunge minimamente tali
percentuali plebiscitarie (i cosiddetti cattolici conformi
sono appena il 10,5%). La questione della credenza religiosa è
dunque alquanto complessa. Basti pensare al fatto che gran parte dei
sedicenti cattolici si professa tale “per la socializzazione che
ciascuno ha ricevuto”; ma al contempo ben più della metà di essi
ritiene di far parte della Chiesa di Roma per il mero fatto di
credere in Dio.

Il problema è che a livello socio-culturale negli ultimi decenni
non solo si è andato affermando un pluralismo religioso un tempo
inimmaginabile, ma soprattutto il fatto che i contenuti dottrinali
di questo o quel sistema di credenza non sono spesso né conosciuti
né condivisi dai più, venendosi piuttosto a delineare per molti un
generico sentimento (o una sensibilità di tipo) religioso che con
gli articoli di fede dei testi sacri e l’obbedienza all’autorità
di questa o quella Chiesa ha sempre meno a che fare. Inoltre,
ribadisce Nesti riferendosi ad un contesto più ampio, oggi spesso
in Europa e negli Stati Uniti: “Vengono simultaneamente
sottoscritte verità della dottrina cristiana con altre quali la
reincarnazione, l’astrologia, l’uso di droghe”; per non
parlare della scarsa o nulla conoscenza dei testi biblici e del
generale disinteresse nei confronti di ambiti quali ortodossia o
liturgia. Lo stesso vescovo anglicano Barber ha ammesso recentemente
senza mezzi termini come la sua Chiesa stia cercando modalità
inedite attraverso cui “praticare la fede meno centrata sui
sacramenti e più informali”.
A quale fenomeno ci troviamo di fronte, allora? Sincretismo
religioso, babele di credenze contraddittorie o più semplicemente
voglia di una fede fai da te? Forse per tentare di inquadrare
meglio il variegato mondo dell’appartenenza religiosa in occidente
all’inizio del terzo millennio è bene riflettere su come, in
generale, sia difficile per tutti noi postmoderni aderire senza
distinguo ad un qualsivoglia sistema filosofico o spirituale d’impianto
rigido, ad un’etica imperniata su valori assoluti, ad un Testo
monolitico, a verità o visioni del mondo metafisiche. O
meglio ancora - suggerisce Fabio Dei nel capitolo finale del libro -
l’appartenenza religiosa non sembra più in grado di collegarsi
né con “compiuti sistemi cognitivi” né con “apparati
simbolici forti” capaci di generare senso. Ciononostante
non è che tutti questi elementi scompaiano; piuttosto perdono la
loro valenza dogmatica per diventare più duttili e fluidi, e
fatalmente finiscono per mescolarsi o apparentarsi con altri “stili”
religiosi o atteggiamenti morali.
Quel che emerge dalla ricerca è comunque una religio all’insegna
del pluriverso, la quale non si identifica nel culto
istituzionalizzato, però al contempo non lo esclude. Emerge
altresì l’affermarsi di una religiosità fortemente pragmatica,
costituita da una serie di atti e atteggiamenti che vanno dalla cura
della propria famiglia all’etica del lavoro, alla solidarietà, al
volontariato. Come assai significativa risulta la partecipazione a
cerimonie religiose ritenute necessarie per consacrare riti
di passaggio quali matrimoni, nascite e funerali (ma anche il
consenso rispetto a sacramenti come la prima comunione o la cresima
è molto alto).
Emerge invece a chiare lettere dalla ricerca di Poggibonsi come, per
i più, l’opzione religiosa non sembra oggi essere indotta dall’urgenza
di dare una risposta a interrogativi metafisici sui perché dell’esistere,
su ciò che ci attende dopo la morte o su chi abbia creato il mondo,
ma dal bisogno di dare un senso qui ed ora - su questa terra e nel
quotidiano - alla propria vita. Pare comunque che la profezia di Max
Weber sull’inesorabilità del disincanto sia lungi dall’essersi
attuata. In quanto - ad onta di scienza, tecnologia e razionalità
imperanti - la religiosità, seppur polisemica e metamorfica, non è
certo scomparsa o destinata a tramontare all’orizzonte del nostro
universo culturale.
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