In Marocco con Edith Wharton
Bibi David
Edith Wharton, In Marocco-Harem, moschee e cerimonie”, Editori
Riuniti, pp.201 Euro14,50
Libertà, evasione e fuga: questo era il Marocco per Edith
Wharton, la scrittrice americana de L’età dell’innocenza,quando
nell’autunno del 1917, in piena guerra, lascio’ Parigi per
avventurarsi in quell’allora inesplorato lembo di territorio
africano. Come uscire dalla grettezza di una fosca quotidianità? La
via migliore era, penso’ la Wharton, perdersi per un po’ in una
terra lontana, nutrita d’incanto, dove non esistevano guide
turistiche né cartine. Da quel penetrare nel mistero nacque un
ricco diario di viaggio: In Marocco-Harem, moschee e cerimonie”(Editori
Riuniti).

Il deserto, con una luce che annienta i contorni delle cose, è
morte e anelito al divino, squallore e sogno. La scrittrice racconta
i miraggi di una sabbia rosata, ai margini dell’irrealtà, il
chiasso delle piazze marocchine invase da cantastorie, venditori di
acqua, incantatori di serpenti con caftani colorati, donne con i
piedi neri dipinti di hennè; rievoca le tinte del mercato di
Marrakech, con i banchi di petali di rosa e i sacchi di pepe, gli
odori inconfondibili del tè con le foglie di menta di Salè, città
dall’uva dorata e dai melograni rossi come la ruggine ma anche
città dei pirati.
La civiltà marocchina, cosi’ prossima all’Africa nera, ci dice
la scrittrice, è la civiltà dalle eterne contraddizioni, stagnante
e florida al contempo. Qui i personaggi de Le mille e una notte,
califfi, principi e re, si confondono con i nomadi e i mendicanti,
sotto i tetti di paglia marciti dei suk, dove i cani scheletrici si
aggirano in cerca di immondizia, sotto i minareti imponenti di Rabat
o nella malinconica Fes. In Marocco “nulla dura se non la
mutevolezza”, in un presente pero’ che è un passato prolungato
in eterno.
La Wharton scrive: “tremi continuamente per paura che entri la
persona di Porlock”, il visitatore che interruppe S. T. Coleridge
mentre scriveva la poesia ‘Kubla Khan’, perché il confine fra
veglia e illusione ha contorni tutt’altro che nitidi. Le tombe dei
santoni, i koubba, affiancano i mercati di frutta candita, drappi,
cipolle viola e frittelle dorate, le storie arabe di geni malvagi
che prendono le sembianze di tempeste di sabbia assalendo le
carovane di cammelli si mischiano a leggende religiose, i popoli che
hanno sfiorato il Marocco, i berberi ribelli di Blad-el-Siba, gli
uomini velati del sud, i tuareg, sono specchio di una architettura
fatta di cupole gigantesche, moschee, madrase.
Le cerimonie rituali come l’Aid-el-Kebir, il sacrificio della
pecora, ricordano antiche usanze tribali, ma anche episodi dei testi
biblici. Ogni cosa è pure il suo contrario.
Solamente un’ombra ottenebra il soggiorno della Wharton:la vista
degli harem, i palazzi dei nobili locali. Le donne marocchine sono
rinchiuse da mesi, a volte da anni, in incantevoli prigioni fatte di
arabeschi e fiori primaverili dipinti sui vasi, pallide sotto i veli
e i diademi, immobili come statue, paralizzate in una apatia senza
tempo, in una “sensualità priva di seduzione”. Molte di loro,
prima di finire in quegli appartamenti, erano libere di camminare
per le strade e assaporare i profumi delle città.Ora i loro sguardi
non sono piu’ sofferenti né rassegnati per un destino beffardo,
come forse erano all’inizio, perché l’oblio ha sconfitto la
memoria.
“Forse è meglio che nessuno proveniente dal mondo esterno venga a
ricordare a queste creature indifferenti che da qualche parte i
gabbiani danzano sull’Atlantico e il vento mormora fra i boschetti
di palme”, commenta , alla fine, con amarezza la Wharton. E
approfitta per dirci che dovunque la schiavitu’ sta nel rimanere
bloccati, immobili, mentre l’evasione è quel guardare oltre, quel
volare con la mente e con il corpo che si ha nel viaggiare e nello
scrivere.
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