I giorni dell’abbandono
Tina Cosmai
Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono, Edizioni e/o, Pag.
211, Euro 14,00
Dopo dieci anni dall’uscita de L’Amore Molesto, Elena
Ferrante ritorna sulla scena letteraria con un nuovo romanzo, I
giorni dell’abbandono. Dell’autrice si sa pochissimo, che è
nata (o nato?) a Napoli e che pare risieda in Grecia, che il suo
nome altro non è che uno pseudonimo per celare la sua vera
identità.
Tra le sue due opere v’è grande affinità di contenuti, quali l’abbandono,
la menzogna, il tradimento e soprattutto la carnalità delle figure
femminili partenopee. Anche Olga, la protagonista de I giorni
dell’abbandono, è partenopea, e la sua storia si svolge nella
“metallica” Torino, come la definisce l’autrice; città in cui
Olga vive un’esistenza tranquilla con suo marito e i suoi due
figli. Ma un giorno, improvvisamente, dopo pranzo, suo marito Mario
le comunica che vuole lasciarla, così, senza una ragione precisa.
La ricerca di un nuovo senso della vita, l’insoddisfazione, sono
le ragioni che Mario dà ad Olga, che rimane sola, perplessa, senza
sapere neppure su cosa riflettere, cosa pensare.

Una situazione quasi surreale che introduce la
protagonista in un processo di distruzione e poi di ripresa colmo di
riferimenti al suo passato partenopeo, alla figura della madre e
della “poverella”, una donna napoletana abbandonata dal marito e
rimasta sola per sempre nel suo dolore, nella sua incapacità di
ripresa dell’esistenza.
Certo quella dell’abbandono è una tematica diffusa e vissuta per
molti di noi e ciò che rende originale questo romanzo è l’espressione
e la sussistenza narrativa di questa esperienza così dolorosa. Olga
affronta l’improvviso deserto che avvolge la sua vita rievocando
il proprio passato mediterraneo, i luoghi, le persone, la madre, il
linguaggio, i tabù, la rassegnazione delle donne di fronte ai
tradimenti dei loro mariti. Tutto un universo emotivo vissuto anni e
anni prima rivive nell’animo di Olga che usa modalità originarie
per affrontare e pensare l’abbandono che sta vivendo.
E in tutto questo si mescola una sensualità viscerale e umida, di
corpi che tentano di rifuggire dal dolore recuperando la loro mimica
abbandonato anni or sono per lasciar vivere un “ragionevole”comportamento
sessuale. Nella sessualità di Olga non v’è più ragione quando
scopre di essere stata abbandonata da Mario per una donna di venti
anni più giovane di lui, Carla.
Olga ha spasimi di pensieri per i “luoghi” del corpo femminile,
quelli che donano piacere e che lei evoca nella volgarità del
linguaggio d’origine. Ed è uno spasimo non solo di dolore, ma
anche di piacere. Olga si sente ferita profondamente nella sua
femminilità e tenta di recuperarla nella sua radice partenopea.
Napoli e le epifanie viscerali, mediterranee, sono l’anima di
Olga, come furono l’anima de L’Amore Molesto, in cui il
tema dell’abbandono era legato alla violenza fisica subita dalla
protagonista, al tradimento, alla menzogna. Non a caso gli uomini
con cui le donne dei due romanzi della Ferrante fanno l’amore
vengono nominati per cognome o per nomignoli, come Caserta e
Polliedro ne l’Amore Molesto e Carrano ne I giorni dell’abbandono;
quasi a mortificare un universo maschile prepotente, despota.
Olga dunque si rifugia sempre più nella sua memoria napoletana, che
nel dolore della sua attuale esperienza l’avvolge come un
fantasma. Si ribella a tutto, alla Torino algida e ossessivamente
razionale, al suo cane fedele e persino ai suoi figli. Olga vive in
un clima da pura tragedia tutto ciò che le appartiene. Non ha più
una lucida percezione di sé, fino al giorno in cui la perde del
tutto e comincia a calarsi in un vortice buio del quale non riesce a
trovare l’uscita. Sono momenti di una drammaticità assoluta che
la Ferrante racconta con maestria di stile e di contenuto. Sono
momenti in cui non v’è più differenza, per Olga, tra la vita e
la morte, tra i sentimenti profondi e il nulla affettivo. Sono
momenti incandescenti che trascinano il lettore in un flusso
narrativo potente.
In questo modo la Ferrante esce dallo stereotipo della donna
abbandonata e afflitta perché la sofferenza di Olga è viva,
palpitante delle sue radici meridionali. Olga non si abbandona al
dolore, lo vive fino in fondo, con gioia spossante e reagisce
recuperando il suo arcaico essere femminile, il suo nucleo profondo.
Esistere è questo, pensai, un sussulto di gioia, una fitta di
dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è
nient’altro di vero da raccontare
Così riprende la sua vita, ed ora è lei ad abbandonare il
marito, nella considerazione che tutte le giustificazioni di lui
erano fallaci. La sua ricerca di senso, il suo andare verso un
futuro nuovo altro non era che uno squallido ritrovamento di ciò
che il loro rapporto non produceva più, la passione.
E quando Mario, pentito, tenta di tornare sui suoi passi, Olga gli
dice: Non ti amo più perché, per giustificarti, hai detto che
eri caduto nel vuoto, nel vuoto di senso e non era vero […] Ora so
cos’è un vuoto di senso e cosa succede se riesci a tornare in
superficie. Tu no, non lo sai. Tu al massimo hai lanciato uno
sguardo di sotto, ti sei spaventato e hai turato la falla col corpo
di Carla.
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