Il bilancio di una vita
Sergio Garufi
a cura di P. Zampetti, Libro di spese diverse, Olschki, 1969
Sebbene sussista ancora nel grande pubblico qualche pregiudizio,
incentrato più che altro sul presunto minor valore delle opere a
soggetto sacro rispetto alla ritrattistica, la verità è che non è
più il tempo di scoprire Lorenzo Lotto, come scriveva Flavio Caroli
in un brillante saggio (Lorenzo Lotto e la nascita della
psicologia moderna, Fabbri, 1980).
E non lo è più perché quel lungo percorso di avvicinamento e di
rivalutazione incominciò già ai primi del Novecento, con le
appassionate peregrinazioni filologiche di Bernard Berenson nelle
Marche, nel Veneto e nel bergamasco, proseguì poi con le delicate e
liriche divagazioni della Banti, per concludersi infine con la
grande mostra che Bergamo, sua patria di adozione, gli tributò
pochi anni fa.
Ma forse sarebbe il caso di riscoprire, o perlomeno di far conoscere
a un pubblico più vasto, cioè non solo di addetti ai lavori, quel
documento umano di sconvolgente modernità, quell'autobiografia in
cifre che è il Libro di spese diverse a cura di P. Zampetti
(Olschki, 1969), nel quale il Lotto annotò, nell'arco di quasi
vent'anni, i suoi debiti e crediti.
Può sembrare paradossale che si affidi a un registro contabile il
bilancio di una vita, ma nel caso del Lotto avvenne proprio questo.
In mezzo a quei numeri, trascritti con maniacale e puntiglioso
scrupolo; tra quelle cifre, incolonnate negli schemi del dare e
l'avere come fossero categorie dello spirito e il cui saldo risulta
sempre e invariabilmente negativo, affiorano spesso notazioni
personali struggenti, e si scorge non di rado il carattere del
grande artista incompreso, assillato dallo spettro dell'indigenza,
mortificato nel suo talento da commissioni provinciali, mancati
pagamenti, aste deserte e liti frequenti con clienti insoddisfatti
perfino dei suoi ritratti.

Negli affreschi della cappella Suardi a Trescore
Balneario (BG), seppur eseguiti a soli 44 anni, cioè quando la
fortuna non gli aveva ancora voltato le spalle, il Lotto ci consegna
un'immagine di sé che già tradisce un'espressione stanca,
sfiduciata, malinconica, quasi risentita; che è poi lo specchio
fedele di quei malumori e di quel pessimismo che contrappuntano i
commenti e le osservazioni personali di tante pagine del suo
registro contabile.
Non è impossibile, come sospetta il Berenson, che la
responsabilità di queste continue traversie economiche fosse
unicamente sua, cioè che il Lotto sia stato un amministratore
inetto dei propri guadagni, o, perlomeno, che abbia dato fiducia a
persone che non la meritavano. Quel che è certo, come si evince
dalle numerose contestazioni sorte sul prezzo e il valore delle sue
opere, quasi mai stabiliti fin dal principio, cioè da quando gli
veniva commissionato un dipinto, è che il Lotto era un artista del
tutto incapace di curare i propri interessi, di promuoversi e di
valorizzarsi, creandosi un ambiente favorevole o circondandosi di
protezioni influenti; tutte qualità indispensabili per il successo
professionale fin da allora.
Non si spiegherebbe altrimenti come, perfino durante il soggiorno
bergamasco, cioè quando la sua reputazione era alta, le commissioni
giungevano numerose e il costo dei suoi dipinti era considerevole,
il pittore veneziano abbia ugualmente sofferto di ristrettezze
economiche. Resta comunque il fatto che, fuori della provincia, il
suo nome ebbe solo di rado una certa risonanza e il suo stile
stentò sempre a imporsi, vuoi per il gusto anticlassico delle opere
sacre, vuoi per la ritrattistica più incline all'indagine
psicologica che non alla glorificazione del soggetto.
La preoccupazione economica fu costante negli anni e non lo
abbandonò mai in tutti i suoi trasferimenti. Dal Libro di spese
diverse ai testamenti, il Lotto appare sempre ossessionato dal tarlo
di una rispettabilità che, se non fosse un anacronismo, verrebbe da
definire borghese, e che si concretizzava nella preoccupazione per
il giudizio della gente e nel timore di non essere in grado di
saldare i propri debiti e di onorare gli impegni presi, seppur a
costo di privazioni e sacrifici.
Esemplare, in questo senso, appare l'episodio di Treviso, trascritto
nel testamento veneziano del 1546. In sintesi, Lotto riferisce che
in quella città viveva nell'abitazione di Giovanni dal Saon, con
cui aveva sottoscritto un accordo davanti a un notaio per il quale
s'impegnava a impartire lezioni d'arte al figlio del padrone di casa
in cambio dell'alloggio gratuito. Infastidito dalle dicerie della
gente, che lo accusavano di sfruttare la situazione vivendo a sbafo
in casa d'altri, il Lotto pretese un nuovo accordo che prevedesse un
pagamento da parte sua.
Controvoglia, data l'insistenza del pittore, il padrone di casa
acconsentì, ma di lì a poco il Lotto dovette abbandonare lo stesso
anche quella casa, trasferendosi per l'ultima volta a Venezia, per
l'impossibilità di pagare la pigione concordata ("mi convene
partir e levar da Treviso, maxime che de l'arte non guadagnava da
spesarmi"). Anche in questo caso, il denaro occorrente per
partire è frutto di un prestito del Saon, la cui promessa di
risarcimento è accettata dal trevigiano solo dopo molte insistenze.
Ma la vocazione al fallimento lo segue pure a Venezia. Lì, più che
altrove, il suo stile non piace ed è giudicato provinciale, le
commissioni sono scarse e di poca importanza, i soldi - nonostante i
risparmi e le spese ridotte al minimo - insufficienti; e così anche
questo ennesimo trasferimento si rivela un fiasco.
Nell'aprile del 1548, poi, mentre si arrangia fra un subaffitto e un
altro, il Lotto riceve la famosa lettera di Pietro Aretino, che con
il tono della compiacenza gli invia i saluti di Tiziano dalla corte
di Carlo V. Quel capolavoro di calibrata perfidia, che dietro a un
finto abbraccio nasconde una pugnalata, gli giunge nel momento di
massimo sconforto. Forse fu proprio allora, a Venezia, dopo questa
lettera, che il Lotto si convinse della vanità dei suoi sforzi e
del suo destino fallimentare.
In capo a poco tempo, dopo aver sbrigato le faccende del caso, Lotto
lascerà pure Venezia, trasferendosi per l'ultima volta nelle
Marche, cioè proprio là dove la sua carriera era iniziata, quasi
mezzo secolo prima, con ben altre aspettative.
Ormai vecchio, stanco e solo, Lotto accetta la propria sconfitta
personale e artistica e si arrende al suo destino. Comprende che non
sarà mai Tiziano, che si fa raccogliere il pennello
dall'imperatore, e neppure Baschenis, che strimpella sereno e beato
fra i due Agliardi, e nemmeno Macedonio Fernandez o Emanuel
Carnevali, che abbandonavano i propri averi nelle camere ammobiliate
con disinvoltura e noncuranza per fuggire i creditori. Le delusioni
pesano troppo e poi l'età è quella che è. Si fa quindi oblato
della Santa Casa di Loreto, donando i miseri averi che gli restano,
e, in pratica, dichiara fallimento.
Le ultime annotazioni ci restituiscono il ritratto di un animo
generoso e fiero che per vivere si adattò a fare di tutto,
ritraendo perfino il calzolaio in cambio dei suoi servizi, o
dipingendo i numeri per i letti dell'ospedale della Santa Casa di
Loreto. Un episodio del 1551, forse l'anno più triste della sua
vita, illustra bene gli ultimi disperati tentativi del pittore
veneziano di racimolare qualche soldo. Assillato dai debiti, il
Lotto invia in dono a Francesco Bernabei, nobile anconetano, tre
dipinti. Ma perché in lui non rimanga - si noti la finezza -
preoccupazione alcuna di essergli debitore di qualcosa, gli fa
sapere "ch'el me facesse quella cortesia che piacesse a lui,
che me ne contentaria, e non per cunto di pagamento".
Ovviamente, il dono fu rispedito al mittente, ed è commovente
vedere un grande artista costretto a chiedere aiuto in modo così
sommesso e pudico, seppur goffo.
In questi ultimi anni, nella rassegnata quiete del convento
marchigiano, il Lotto dipinge opere di grande maturità e altissimo
lirismo come la "Presentazione al Tempio", rimasta
incompiuta alla sua morte, nella quale si avverte già una
sensibilità sorprendentemente moderna, nella pittura incerta e
tremolante, nella luce sconsolata, nello sguardo dolente, nella
ricerca ansiosa e trepidante di nuovi mezzi espressivi.
Qui, dopo quasi vent'anni, s'interrompe la stesura del Libro di
spese diverse, e, poco dopo, pure la sua esistenza terrena. Ci
restano le testimonianze di chi lo conobbe, che lo descrivono come
un uomo sfortunato, mite e religioso seppur tormentato. Ma è
proprio in quell'inquietudine profonda, che non lo abbandonerà mai,
e nel senso di sradicamento, in quell'eterno vagabondare fra un
posto e un altro alla ricerca di una serenità irraggiungibile, e
infine nella scelta risoluta, testarda, di dipingere a modo suo,
incurante delle correnti di gusto dominanti, che noi sentiamo il
Lotto come l'incarnazione e la prefigurazione dell'artista moderno;
e comprendiamo pure le ragioni della passione di Bernard Berenson
per questo pittore, quando parlò de "il fascino di un'anima
gemella che ci parla da un'epoca lontana".
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