Il giorno dei morti
Francesco Roat
Cees Nooteboom, Il giorno dei morti, Iperborea, pp.394, L.36.000,
Euro 18,00
Arthur Daane - il protagonista del romanzo Il giorno dei morti
- è un eccentrico cineasta olandese. O meglio apolide, giacché non
ha radici, né si sente di casa in alcuno dei tanti Paesi del mondo
che egli frequenta per lavoro. I suoi documentari, inoltre, sono
attenti a registrare dettagli a tutta prima insignificanti: tracce
delle maree sulla sabbia, impronte lasciate sulla neve fresca, il
traffico ripreso all’altezza delle ruote dei veicoli. Una
collezione di immagini che normalmente sfuggono all’attenzione
dell’osservatore.
Marginalità e frammenti iconici che però rappresentano un
quotidiano anonimo ma suggestivo, fatto di particolari destinati a
un repentino oblio, di fugaci momenti inessenziali che
tuttavia sono significativi proprio in quanto espressione dello
scarto da essi rappresentato: dell’insufficiente o nullo valore
attribuito ad essi nella nostra rappresentazione della realtà.

Ciò che infatti cancelliamo dalla nostra memoria
o non registriamo nei nostri libri di storia (e il film documentario
rappresenta la fonte storica più legata alla modernità) testimonia
al negativo tutto il nostro rimosso: l’innumerevole messe di
accadimenti ritenuti poco significativi o inadatti a narrare o
fotografare una realtà sociale, un’epoca, una vita.
Non a caso il romanzo si apre su una sottile analisi linguistica del
termine olandese geschiedenis (storia) terminante nella
sillaba nis che significa nicchia: “un luogo in cui si
poteva trovar rifugio, o dove si poteva trovare qualcosa di nascosto”.
Così, come una sorta di flâneur alla Walter Benjamin, Daane
cammina per le strade di Berlino con la cinepresa in spalla alla
ricerca di esili tracce che rimandano ad un passato davvero
inquietante: quello del nazismo prima e del comunismo poi. Berlino,
crocevia emblematico della storia novecentesca, capitale del III
Reich e città un tempo sfregiata da un muro che separava non
solo l’Est e l’Ovest della più grande Stadt tedesca,
bensì dell’Europa stessa.
Ma le riprese di Daane vanno aldilà di ogni
spiegazione/interpretazione tradizionale di stampo storiografico. I
suoi documentari vogliono raffigurare “qualcosa che non poteva
esprimere con le parole”, e questo è paradossalmente
significativo in un romanzo, dove Nooteboom tenta di dire l’inesprimibile
attraverso dei film riversati in prosa. Quantunque di una prosa
molto allusiva si tratti. Di una scrittura all’insegna dell’accenno
e del detto solo in parte, lungo un racconto per immagini all’interno
del quale si intervallano riflessioni a divagazioni, a fotogrammi
evocativi tra loro felicemente amalgamati, che del racconto sono
parte integrante e che - al di là dell’esile trama - lo
costituiscono, rappresentandone la cifra organizzativa, oserei dire
la grazia narrativa.
Ciò che di ogni rappresentazione storica - relativa sia ad una
vicenda individuale, sia ad una collettiva - affascina dunque il
cineasta è la combinazione di “fatalità, caso e intenzione”. A
cui si dovrà aggiungere: l’oblio, la cesura di questo o quell’evento;
poiché - come nota Fulvio Ferrari nella postfazione al testo - ogni
nostra ricostruzione si effettua a spese di una miriade di
particolari sacrificati. Il problema della memoria, allora, è ciò
che consciamente o meno finiamo per trattenere e quanto, invece,
fatalmente finisce nel dimenticatoio, come le vicende individuali
delle vittime innocenti d’ogni guerra o dittatura. D’altra parte
- dice bene Nooteboom -: “Un eccesso di passato è la morte
assicurata”.
Lo sa benissimo Daane, costretto a fare i conti con un duplice
lutto, causa la morte per un incidente aereo della moglie e del
giovane figlio: evento indimenticabile, che l’uomo deve
allontanare da sé giorno dopo giorno per sopravvivere. E magari per
ritrovare l’amore fra le braccia di una sconosciuta incapace di
scordarsi una giovinezza segnata dalla sopraffazione più
oltraggiosa. Una donna ancor più problematica del cineasta, la
quale tenta invano di prendere le distanze dal proprio passato
doloroso immergendosi in quello remotissimo della regina spagnola
Urraca, vissuta in un medio evo lontano anni luce dalla frenesia
mass-mediatica del nostro tempo dove l’enfasi martellante delle
notizie è pari solo alla rapidità con cui esse vengono sostituite
da altre.
Così, data la sequela degli ambiti presenti ne Il giorno dei
morti, è difficile anche solo accennare a tutti i temi
affrontati da un Nooteboom ancor più provocatorio e incalzante del
solito, che non dà requie al lettore con le sue diagnosi impietose
su un Occidente distratto nei confronti delle tragedie che
colpiscono il mondo. Con le sue considerazioni sul dolore, il lutto,
la fatica del vivere quotidiano. Ed è davvero un fabulatore
eccezionale questo scrittore olandese; una persona con cui
parleresti volentieri di tutto, come fa spesso Daane coi suoi amici
in una vecchia osteria di Berlino, dove uno spuntino a base di birra
e salsicce tedesche è appena l’occasione per discutere di donne,
estetica, polititica e persino di Dio.
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