Non ti muovere
Francesco Roat
Margaret Mazzantini, Non ti muovere, Mondadori, pp.295, L.32.000,
Euro 6,53
Con tutto il rispetto per la prosa, l’ultimo libro di Margaret
Mazzantini riesce a coinvolgere il lettore come ai giorni nostri
sempre più spesso riesce a farlo solo la regia d’un film
avvincente. Forse perché è un romanzo molto visivo Non ti
muovere, le cui immagini sapientemente evocative ti catturano
sin dalla prima pagina e non ti lasciano nemmeno all’ultima,
quando il racconto viene sospeso e tu rimani lì a figurarti cosa
potrà mai capitare agli uomini e alle donne di questa narrazione,
scordandoti che si tratta di personaggi, sebbene credibili e a tutto
tondo però, non piattamente cartacei.
Già l’avvio appare sorprendente. Diretto, immediato, in prima
persona, reso con una scrittura essenziale ma al contempo attenta al
particolare (al fotogramma, diresti) e al contesto metropolitano in
cui si cala il dramma della quindicenne Angela che, sul suo motorino
con “gli auricolari del walkman pressati nelle orecchie”,
attraversa un incrocio senza dare la precedenza. Ed è l’incidente,
il grave trauma cranico, la corsa all’ospedale dove la incontra il
genitore chirurgo, il quale è poi la voce narrante di questa
storia: sorta di confessione narrata alla figlia in coma da parte di
un “povero padre sfondato dal dolore”.
Confessione in forma di ininterrotto monologo su
un amore doloroso e inusuale: quello adulterino che tanti anni prima
è accaduto (uso questo verbo non riuscendo a trovarne di
più adatti a rendere tale improvvisa, imprevedibile e straniante
passione) tra il brillante chirurgo e Italia: una non certo
fascinosa donna delle pulizie alquanto “volgare”, da lui
incontrata per caso e subito amata con un trasporto intessuto d’attrazione
fatale e disagio; fra brucianti sensi di colpa, erotismo, tenerezze,
squallore e ambiguità, in un alternarsi di odi et amo all’insegna
d’una relazione conflittuale sì, ma vivace.
Ed è la precisione nello scavo dei sentimenti e delle emozioni -
che Mazzantini disseziona da vera anatomista dell’anima - a
colpire in questa vicenda di amori e disamori. Perché il rapporto
fra il medico ed Italia si intreccia fatalmente o conduce a quelli,
parimenti irrisolti, fra l’io narrante e le altre due donne della
sua vita: la bella moglie (“così desiderabile”) e la figlia. In
particolare a quello con Angela, che il padre latitante (“parsimonioso
nel dare, frettoloso nel ricevere”) è costretto a descrivere come
segnato da una distanza affettiva difficile per lui da attraversare
e colmare.
Così può accadere che un approccio fortuito con l’assolutamente
altro metta in crisi sia un menage matrimoniale all’apparenza
sereno, sia una condotta di vita borghese appena incrinata dalla
stanchezza per la stressante scalata professionale. Così può
succedere che una donna “scialba” e “deprimente” ma dalla
dedizione quasi materna per il proprio uomo riesca a tenerlo legato
a sé ad onta della sequela di contrarietà e dei lunghi o brevi
abbandoni che intervallano i loro incontri/scontri amorosi.
Quindi è la difficoltà a gestire gli affetti a costituire il tema
portante di Non ti muovere. Sarà forse perché oggi molti
sedicenti adulti, come afferma con amarezza il dottore, “non hanno
certezza di nulla, e non sanno chi sono e che vogliono, e non sanno
dove andranno”. Per bocca dei suoi personaggi la Mazzantini non
pretende dunque di insegnarci nulla intorno al perché e al come di
un amore: sulle sue ambivalenze, sulla sua grande fragilità e
bellezza. Si limita a raccontarci in un crescendo drammatico d’alternarsi
di stati d’animo un rutilante caleidoscopio di emozioni.
Ma certe sue considerazioni (o meglio del protagonista Timoteo: il
chirurgo che incarna la crisi di un uomo incapace d’essere fino in
fondo padre, marito o amante) sull’impermanenza e sulla finitudine
rivelano una umanità profonda e una pietas davvero toccante;
come quando il dottore con un’immagine suggestiva descrive la
nostra urgenza di essere riconosciuti, amati ed accettati: “Siamo
carne bisognosa”. O come quando riflettendo con pacata
rassegnazione sulla precarietà della vita e delle umane relazioni
lamenta: “Nessuno saprà mai nulla di quanto ci siamo stretti e
frugati, e della vita che è corsa fin qui”.
Attraversa infine questa sorta d’originalissimo monologo a più
voci una sofferta nostalgia d’assoluto: una sete di amore
definitivo, oblativo, illimitatamente disponibile (di coppia,
materno o paterno che sia). Anelito infantile o utopico, forse. Ma
non è splendida questa dichiarazione di incondizionato (si vorrebbe
di incrollabile) affetto da parte di Timoteo per Italia? “La amo,
figlia mia, come non ho mai amato nessuno. La amo come un
mendicante, come un lupo, come un ramo di ortica. La amo come un
taglio nel vetro. La amo perché non amo che lei”.
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