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Oh, Flaiano!



Pietro Farro



Giovanni Russo, Oh, Flaiano!, Avagliano, pp. 117, Euro 11.40

In un appunto del ’57 Ennio Flaiano annotava: “Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa”. Una frase - se scritta oggi gli varrebbe la qualifica di “comunista” - che basterebbe da sola a mostrare la perdurante attualità delle sue riflessioni a quasi trent’anni dalla morte.

Giovanni Russo, che di Flaiano è stato molto amico, ci racconta chi fosse lo scrittore abruzzese in Oh, Flaiano! (Avagliano), ideale prosecuzione di quel Flaianite pubblicato nel ‘90 per i tipi di Vanni Scheiwiller. Il primo incontro tra i due risale al maggio ’49, nella redazione romana del Mondo di Mario Pannunzio dove Flaiano, oltre a curare la critica cinematografica, aveva i gradi di redattore capo (o, come egli soleva definirsi, “redattore cupo”). Di lì la nascita di una lunga amicizia che durerà fino alla morte di Flaiano, avvenuta nel novembre del ’72.

Amante del paradosso, Flaiano ha avuto un destino paradossale: quello di essere il più grande “scrittore postumo” della nostra letteratura. Post mortem, infatti, una straordinaria fortuna editoriale è toccata alla sua opera, facendo sì che - oltre alle ristampe di quanto già pubblicato in vita - arrivassero in libreria numerosi volumi che raccolgono i materiali più vari: pagine di diario, scritti giornalistici, note di viaggio, sceneggiature, aforismi, battute e quant'altro.

Del resto, Flaiano è stato uno di quegli intellettuali eclettici che amano esplorare quanti più territori è possibile, così potremo definirlo, in ordine sparso, come: narratore (vinse la prima edizione del premio Strega, nel ’47, col romanzo Tempo di uccidere), autore di teatro (celebre e sfortunato il suo Un marziano a Roma), giornalista, sceneggiatore (ricordiamo la lunga e feconda collaborazione con Fellini), critico teatrale e cinematografico.

Parallelamente allo svolgersi di questa sua intensa attività intellettuale, veniva inoltre creandosi attorno a lui una leggendaria fama di brillante inventore di battute, aforismi e calembours. Fama non certo usurpata, ma certamente riduttiva se, come spesso avviene, finisce per prevalere sul resto della sua produzione. Infatti, se da un lato, per dirla con Enzo Siciliano, battute ed aforismi erano “il suo modo di affilare le polemiche, di ridurre a dimensione frequentabile l'enfasi, la cattiva coscienza, la petulante demagogia altrui”, è altrettanto vero che spesso, come scrive Giovanni Russo nel libro, tale fama è degenerata nell’insopportabile manierismo di “presentatori radiofonici o televisivi, o commentatori di giornali, che, citando una battuta, che qualche volta non è nemmeno di Flaiano, credono che diventi più efficace o spiritosa se attribuita a lui”.

Insomma, Flaiano non era un battutista ma un intellettuale dotato di senso dell’umorismo, impegnato anche se refrattario alla retorica dell’impegno. “Nelle sue sceneggiature come nelle sue opere teatrali, nei suoi libri come anche nella sua attività di giornalista risulta chiaro che il vero aspetto di Flaiano era quello di un eccezionale osservatore della società e del carattere degli italiani, che lo inducevano spesso al pessimismo, riscattato dall’ironia”, annota Russo e il suo libro contribuisce certamente a restituire Flaiano alla dimensione che gli spetta, oltre che a raccontare una stagione indimenticabile della cultura italiana del dopoguerra.

 

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