I ribelli di Márai
Francesco Roat
Sándor Márai, I ribelli, Adelphi, pp.275, L.28.000, Euro 14,46
Pubblicato per la prima volta nel 1930, I ribelli di Sándor
Márai è caratterizzato, a mio avviso, da un’intensità e un
livello espressivo alquanto inferiori rispetto agli altri testi dell’autore
magiaro tradotti finora in italiano. Questo romanzo dall’avvio
lento, che stenta a far decollare la storia di un gruppo d’inquieti
adolescenti ungheresi alla fine della prima guerra mondiale, non ha
certo la tenuta narrativa e drammatica de Le braci, l’acume
psicologico de L’eredità di Eszter o il fascino ambiguo
che emana dai tre protagonisti de La recita di Bolzano.
Anche I ribelli si colloca però nel segno del commiato, del
rimpianto e della perdita irrimediabile: sia rispetto all’innocenza
infantile che al Welt von gestern, al “mondo di ieri” -
per dirla con Stefan Zweig -, quello ingessato e paternalistico ma
rassicurante della Austria felix di Francesco Giuseppe.

I ribelli, infatti, è ambientato nella
cornice d’una non ben precisata località (anche se essa ricorda
molto quella natale dello scrittore) all’interno dei confini dell’imperial-regia
monarchia danubiana, ma lontana dal fronte. Siamo nel 1918, l’anno
della disfatta austro-ungarica, quantunque presso la sonnolenta
cittadina “tirata a lucido e variopinta come una città giocattolo”
gli echi del conflitto giungano assai attutiti.
Solo l’affiorare di qualche soldato morto, che il fiume trascina
con sé, rammenta l’immane conflitto. Oltre all’assenza dei
maschi adulti, in quanto quasi tutti gli uomini sono da tempo sotto
le armi. Approfittano di ciò un gruppo di liceali che, in assenza
dei padri, si lasciano andare ad una loro privatissima rivolta “contro
l’utile e il pratico”, rubando, gozzovigliando e dilapidando
tutti i risparmi familiari in una serie di trasgressioni sempre più
audaci.
Loro mentore è un attore di provincia: squattrinato istrione capace
solo di affascinare quella banda di ragazzi sprovveduti, orfani di
un mondo adulto segnato dalla latitanza dei padri, affettivamente
assenti anche prima della guerra (essi “non erano sinceri,
evitavano di rispondere con franchezza, non dicevano cosa li facesse
soffrire”). Ma la fallimentare congiura dei Ribelli verso i
genitori è segnata dalla regressione e da un atteggiamento
paranoide di odio contro tutto e tutti.
L’unico ad essere idolatrato è il commediante, che per i liceali
“non commetteva mai un errore” apparendo loro sempre
impeccabile, senza chiaroscuri, cedimenti o incertezze, come può
essere solo un uomo che impersoni la parte di adulto onnipotente:
finzione in grado di allettare solo una psiche adolescenziale.
Ancora una volta per Márai, quindi, si tratta di personaggi in
bilico fra aspirazioni e realtà, tra un’imprecisata voglia di
mutamento esistenziale e il non essere in grado di perseguirlo. Come
i protagonisti adulti delle altre opere di questo scrittore non
sanno scegliere, faticano a chiudersi alle spalle un’esperienza
dolorosa o sono incapaci di elaborare i propri lutti, così questi
adolescenti solo in apparenza ribelli, non sanno o non vogliono
crescere. Forse perché, sia per gli uni che per gli altri, il
problema è alla fin fine solo uno: misurarsi con la realtà,
smettendola con rimozioni, proiezioni e finzioni. In mancanza di
ciò, non rimane che una recita vacua e avvilente. Come quella che
allestiscono i ragazzi con l’attore, mettendo in scena
inconfessabili attrazioni, ambivalenze e conflitti laceranti.
Sempre il teatro: qui cifra dell’inautenticità, della maschera
perturbante, dell’artificiosa costruzione d’un io posticcio e
rigido, destinato a non reggere al faccia a faccia col reale. Specie
quando esso coincida col ritorno a casa dei padri, con la fine della
guerra, dell’infanzia e delle illusioni. Così è destinata a
fallire miseramente l’iniziazione all’età adulta da parte dei ribelli,
ed il romanzo ha una chiusa amarissima, tragica, senza speranza. Il mondo
di ieri è definitivamente tramontato e, all’orizzonte, il
domani si profila all’insegna del lutto.
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