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L'età dell'argento



Francesco Roat



Ginevra Bompiani, L’età dell’argento, La Tartaruga, Milano, pp.70, L.20.000 - Euro 10,33

Prende l’avvio da tre parole chiave l’ultimo romanzo di Ginevra Bompiani. Tre termini evocativi, gettati come un fortunato colpo di dadi a mo’ di incipit, i quali - a detta dell’autrice - sospingerebbero alla fabulazione e al racconto, che può nascere giusto dall’attrito poetico fra un segno e l'immagine da esso suggerita; in grado di generare un’emozione narrativa. Tre vocaboli dalla marcata allusività: farina, silverage, nostos.

Il primo, farina, rimanda (in questa storia, almeno) alla figura del fornaio delle fiabe; anzi ad un fornaio orco, come è chiamato lo zio del bambino protagonista del libro assieme ad un uomo, una ragazza e una vecchia; anche se L’età dell’argento appare piuttosto sin dalle prime righe un’antifiaba, un postmoderno non-racconto costantemente giocato sul registro della riflessione attraverso una prosa a tratti metanarrativa, aforistica e persino oracolare, incline spesso ad assume gli scaltri toni del racconto giallo o noir, ma solo per catturare l’attenzione del lettore.

Il secondo, silverage, l’età dell’argento o d’argento che rimanda al titolo, da un lato allude con suggestiva ambiguità a “una parola che salva la sera, la stanchezza, la vecchiaia dalle sue zavorre”, dall’altro alla primavera della vita “agitata dal vento e dalle risa, che non va da nessuna parte”. Due, a questo proposito, sono nel testo figure specularmente opposte ma emblematiche della silverage: una donna anziana (Ambra) e una giovane (Cecilia). Riflessiva al limite del disincanto, l’una, “diritta di spirito e di corpo”. Sensuale e un po’ vacua, seppur senza troppi grilli in capo, l’altra: “bambina formosa, di quelle che fanno gola agli uomini”.

Il terzo, nostos, cioè il ritorno: per antonomasia quello in patria, al paese natale. Parola che evoca “rimpianto” e, appunto, nost-algia ovvero dolore legato all’impossibilità di tale ritorno. Impossibilità qui resa ancora più netta poiché nemmeno l’attuazione di esso fa si che il nostos sia percepito, vissuto come tale da uno dei personaggi di spicco della vicenda: un “viaggiatore”, il quale, tornato dopo anni d’assenza a casa, la scopre “il luogo più estraneo di tutti”.

Tre parole, sottolinea Bompiani, a suggerire le “tre forme della sera”: calda e minacciosa come l’antro dell’orco - fresca e leggera come la giovinezza - crepuscolare come si addice ad un nostos romanticamente letterario. Così nelle sapienti riverberazioni/variazioni allusive della triplice chiave semantica che apre il racconto si è già presi nel gioco testuale senza che nulla sia ancora accaduto, senza che nulla debba ancora accadere.

Infatti il prosieguo, ossia la morte tragica (omicidio o suicidio?) di Cecilia, caduta accidentalmente o fatta precipitare in un pozzo, rappresenta forse solo l’esca per depistare il lettore attraverso i meandri stilistico-narrativi di una storia che poliziesca non è affatto, ma che della suspense indossa i panni per fascinare con stupite/stupende agnizioni rispetto alle figure principali di quello che ad una attenta analisi si rivela, a mio avviso, un racconto assai metaforico sull’arte del vivere, soprattutto rispetto all’età avanzata della vita - l’età d’argento - e del ritorno (non ripiegamento) a sé dopo le peripezie/traversie affrontate nel tratto in ascesa della parabola esistenziale.

Poi, attraverso rari accenni, ma pregnanti, vengono delineati i profili dei personaggi di un inedito conte philosophique ben temperato da una tavolozza espressiva che privilegia la metaforicità della parola e sorprende per la maestria di saper suscitare in chi legge risonanze empatiche: echi d’una prosa poetica davvero esemplare.

Morta la ragazza - l’exitus della quale rappresenta una sorta di prologo de L’età dell’argento -, non tenendo conto delle comparse, restano in scena il bambino, l’uomo (il viaggiatore forestiero) e l’anziana signora; figure sin troppo esplicite delle tre fasi in cui è possibile suddividere la vita: puerizia, maturità, vecchiaia. Non mettendosi quindi fretta per raggiungere il nocciolo di questa storia pacata e meditativa; non soffrendo l’urgenza di tesser trame, la scrittrice si concede uno sguardo autoreferenziale sulla propria narrazione che “tarda a formarsi, a partire, indugia nell’attesa dell’attesa della fine”. E ancora viene ripresa la cifra circolare del racconto: “Silverage: una sera cilestrina in un’isola calma dove sbarca un uomo che torna”. Ma qui il crepuscolo “grigioperla” è soglia, limen, interregno fra mondo onirico e reale, sonno e veglia, inconscio e conscio, essere e non essere. La sera è ambito sommamente evocativo raffigurando la possibilità stessa del narrare, il suo dipanarsi medesimo.

Non a caso Bompiani, presentati i suoi attori, con uno stacco netto esce dal racconto e si interroga sul significato di quanto va scrivendo (“Riuscirò a scrivere questa storia? e quando la staccherò come una pellicola, si reggerà in piedi? è qualcosa di più di un sogno, della pellicola di un sogno? si dissiperà?”). Interrogativi per nulla retorici o consolatori, sebbene indici del bisogno da parte della autrice di esprimere qualcosa oltre la storia, ma pur sempre intorno ad essa quale luogo e modalità privilegiati del dire medesimo. Frattanto, lateralmente alla scarna trama, il flusso fabulatorio scorre fluido e copioso per una miriade di rivoli narrativi: di vicende minori, di dettagli che ora paiono ridondanze ora casuali indizi, seminati per ingannare il lettore e insieme per indirizzarlo all’essenziale.

Al contempo, con la morte di Cecilia, l’inquietudine fa capolino nella fiaba, giacché sembra - va sottolineato che mai si danno certezze, dati incontrovertibili in questo romanzo - trattarsi di un omicidio, di cui forse o in parte il bambino è stato testimone, avendo veduto accanto alla ragazza la sera del delitto qualcuno, che si rivela però soltanto una parvenza (“Ho visto un’ombra su per la collina”). Immediatamente però, a ribadire come ogni dichiarazione sia sempre e solo provvisoria, lo stesso testimone confessa: “Non sono sicuro”, gettando nello sconcerto gli isolani che fan da coro alle tre voci principali.

Così, tra autopsie, fragili castelli accusatori nei confronti del nonno di Cecilia e dello straniero, l’enigma che costituisce la superficie narrativa de L’età dell’argento si accentua via via che le pagine scorrono rimarcando un altro pregio del testo: la sua scioltezza; come la icastica semplicità/intensità dei dialoghi. Vedi quello centrale fra la vecchia e lo straniero, da cui nascono, quasi per caso - ma è solo un’ennesima astuzia stilistica - domande essenziali, dai risvolti metafisici, sul senso e sulle attese della vita e della vecchiaia. (“Non è da ridere, dice Ambra, che alla mia età aspetti ancora qualcosa? Lo straniero scuote la testa: Che altro possiamo fare?).

Così, mentre gli alibi vacillano, il racconto pullula di segreti accennati, di reticenze e parole non dette, arricchendosi il testo di chiaroscuri, vuoti e silenzi. Ancora una volta qui tutto è allusività, sogno, immaginazione. Come quando lo straniero afferma a sua difesa di non aver nemmeno veduto in faccia la ragazza: “No, veramente l’ho vista solo di spalle, ma l’ho immaginata”. E quale il contrasto, a effetto di straniamento, tra la asciuttezza e il nitore che caratterizzano i dialoghi fra i tre protagonisti e le parole a ruota libera di un assordante bla bla all’insegna del pettegolezzo che inonda l’isola dopo l’uccisone di Cecilia (“l’isola traboccava di parole, senza misura, senza pudore”).

Quindi il romanzo è anche una partitura musicale di assoli e cori, di voci ed echi che si alternano e rispondono. Ma, sotto la superficie/superficialità delle ciance, ecco emergere espressioni che alludono al profondo, all’abissalità di pulsioni e rancori; come nel dialogo fra Ambra e la moglie dello straniero, in un duo sostenuto dall’ “affanno, il silenzio e l’impaccio della passione”. Ne emerge il quadro della irrisolta ambivalenza e della complessità dell’animo umano che caratterizza anche le più umili e sprovvedute comparse isolane. (“L’isola che si era creduta semplice, innocente, aprendo le valve rivelava tragedia e commedia avvinte, lubricità e candore, pietà e spietatezza così mischiate da non distinguerle più”).

La morte di Cecilia per un verso fa dunque sì che vengan messe a nudo le inclinazioni più riprovevoli e taciute, per un altro spinge la figura centrale, Ambra, a interrogarsi su se stessa e sull’età dell’argento attraverso una riflessione con la quale l’autrice esce allo scoperto, sostenendo a chiare lettere per bocca della donna che l’età dell’argento alla fin fine è “quel momento in cui l’isola diventa raccontabile”. Importa poco, allora, chi abbia materialmente ucciso Cecilia: se il forestiero, l’orco-zio del bambino o un parente incestuoso della ragazza. La vecchia, fattasi detective, saprà ben risolvere il giallo, ma controvoglia - e non solo perché scarsamente fiduciosa nella umana giustizia, cui Ambra non dimostra di credere troppo, rifiutandosi di affidare alla legge il colpevole - in quanto la soluzione dell’enigma comporta di necessità la conclusione della vicenda, e “Non voleva essere lei a finire la storia”, poiché ogni fine, sia pure quella di un romanzo “è una piccola ghigliottina”.

Ancora, vi è una nota ulteriormente esplicita nella chiusa del libro, quando Ambra dice d’aver compreso in che consista la silverage, avendone varcato il limitare: quel luogo “dove infanzia e senilità s’incontrano e si confondono”; una terra/età d’argento che rammenta quella favoleggiata da Esiodo ne “Le Opere e i giorni”, ma abitata da una stirpe di “bambini incanagliti, vanitosi e storditi” i cui balocchi sono “parole senza peso e senza radice”. Finisce dunque con una sottolineatura tra l’ironia e un dolceamaro disincanto la “favola rovesciata” di Ginevra Bompiani, attraverso tale presa di posizione nei confronti di ogni supponenza della parola, la cui chance (letteraria, quantomeno) per questa scrittrice sembra vada trovata nella ludicità e nell’allusività felice del narrare.


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