Il potere della marca
Pietro Farro
Vanni Codeluppi, Il potere della marca (Bollati Boringhieri,
pp. 160, Euro 9,30).
La pubblicità è l’anima del commercio, si sa. Qualunque cosa
facciamo, in qualunque luogo ci troviamo, non possiamo fare a meno
di essere bombardati da ogni tipo di messaggi pubblicitari. Eppure,
qualcosa è cambiato. Infatti, sempre più spesso oggi ciò che ci
viene proposto non è l’acquisto di un prodotto, ma la “adesione”
ad una marca.
Ma cos’è che fa di un prodotto una marca e rende quella marca
diffusa e riconoscibile su scala planetaria? A questo interrogativo
prova a rispondere Vanni Codeluppi, docente di sociologia dei
consumi presso lo Iulm di Milano, nel suo ultimo libro intitolato Il
potere della marca (Bollati Boringhieri, pp. 160 Euro 9,30).

Attraverso l’analisi delle strategie di
marketing di tre multinazionali come Disney, McDonald’s e Nike, l’autore
arriva alla conclusione che oggi l’obiettivo di un’impresa non
è più solo quello di vendere i propri prodotti a quanti più
consumatori è possibile, ma quello di “trasformare le merci che
produce, o meglio fa produrre, in simboli che circolano
costantemente in tutti gli ambiti culturali e su tutta la superficie
terrestre”. Per ottenere questo scopo si è passati dalla buona
vecchia pubblicità, che informava dell’esistenza di un prodotto e
ne illustrava le caratteristiche, ad una forma di pubblicità
autoreferenziale che mira a “proporre dei valori, uno stile di
vita, un’estetica e, addirittura, un’etica e una visione del
mondo”.
Così, la Disney ha sempre cercato di raggiungere un pubblico
bonariamente conformista di estrazione medio-borghese e per
riuscirci ha costruito un mondo “assolutamente irreale dove la
natura è addomesticata e la storia e i suoi sanguinosi conflitti
sono addolciti”. Tuttavia, di pari passo con l’evoluzione della
società e del costume anche la Disney ha dovuto modificare in parte
il proprio immaginario riservando, nei celebri parchi a tema (ma
anche nei fumetti), un ruolo via via più importante alle donne, ai
neri e agli immigrati. Insomma, ha adeguato il proprio immaginario
al linguaggio politically correct, mano a mano che questo
andava diffondendosi. Tuttavia il paradosso è in agguato e resta da
chiedersi se non sia anche questa una variante del conformismo.
Nel caso di McDonald’s la comunicazione è orientata soprattutto
verso i bambini, che offrono il vantaggio di essere facilmente
influenzabili e di avere un’elevata incidenza sulle scelte d’acquisto
delle famiglie (oltre al fatto che così facendo si avvia un
rapporto di lunga fidelizzazione grazie al quale i bambini-clienti
di oggi saranno i genitori-clienti di domani). Pertanto l’immaginario
proposto è di tipo ludico, grazie ai colori vivaci delle insegne,
alla presenza di “aree gioco” all’interno dei locali, alla
frequente offerta di regalini ai piccoli clienti e all’invenzione
di Ronald McDonald, il “pupazzo colorato di plastica a dimensioni
naturali presente in ogni ristorante dell’azienda”.
Molto vi sarebbe poi da dire sull’idea di società sottesa dal fast-food,
ma sarebbe un discorso che esula dai limiti di una recensione. Mi
limiterò a citare le parole che Roberto Vecchioni mette in bocca al
protagonista del suo romanzo Le parole non le portano le cicogne:
“I McDonald’s sono la morte della coscienza, dello sviluppo,
della libertà di scelta. Sono la fine della lentezza, che per me
vuol dire civiltà. Sono il freddo spacciato per calore, la regola
venduta per fantasia”.
“Just do it” è lo slogan che ha reso celebre il marchio della
Nike, celebre produttrice di scarpe da ginnastica ed articoli
sportivi in genere. Anche qui è il caso di mettere in luce un
paradosso. Knight e Bowerman, fondatori dell’azienda, erano stati
dei giovani ribelli a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Essi
ammiravano gli atleti anticonformisti e dalla spiccata personalità
ed a questa visione ispirarono il marketing della Nike.
Ma col tempo questa immagine finì ben presto per capovolgersi nel
suo contrario: “in una conformistica visione della vita basata
sulla competizione per il raggiungimento del successo”.
Sintetizzando, si può dire che oggi Nike è il simbolo di una
concezione dello sport in cui ciò che conta è solo il risultato,
con buona pace del barone De Coubertin.
Come si vede, è una concezione facilmente estendibile ad altri
campi del vivere sociale con tutte le conseguenze che questo
comporta. Nel caso della Nike è anche importante sottolineare come
si tratti di una marca che, pur avendo sponsorizzato numerosi altri
campioni, ha scelto di identificarsi totalmente con uno dei suoi
testimonial, il cestista Michael Jordan, assumendo tutti i vantaggi
e i rischi che una simile scelta comporta.
Come si vede, in tutti questi casi si è sempre passati dalla
vendita di un prodotto a quella di un’idea della vita e di un modo
di essere. Così, durante la lettura il pensiero non poteva fare a
meno di applicare le analisi proposte alla situazione politica
italiana. Nel volume non se ne parla, ma quando leggiamo che “i
consumatori, in molti casi, si riconoscono a tal punto nei valori
proposti dalla marca che quest’ultima diventa molto più che una
marca”, è difficile non pensare all’influenza che la marca
Fininvest-Mediaset ha avuto sull’immaginario nazionale negli
ultimi vent’anni, allargandosi fino al punto di trasformare il
proprio mondo virtuale in vera e propria ideologia politica. Ci
sarebbe materia per scrivere un altro libro.
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