La fuga in Egitto
Francesco Roat
Mario Claudio, La fuga in Egitto, Sellerio, pp.106, L.12.000
L’epifania è chiamata popolarmente la befana (vocabolo
quest’ultimo che, per corruzione, deriva dal primo), i cui doni
ricordano quelli dei Magi (oro, incenso e mirra) al neonato Messia.
Nel giorno sei gennaio, infatti, per la Chiesa cattolica si
commemorano le manifestazioni (tá epiphàneia) divine del
Cristo, riferibili sì all’adorazione dei Re venuti dall’Oriente
nei confronti di Gesù Bambino, ma anche alla proclamazione dall’alto
dei cieli - durante il suo battesimo da parte di Giovanni Battista -
che egli è Figlio di Dio, ed infine al noto primo miracolo delle
nozze di Cana.
Come una sorta di magico racconto d’epifania si presenta pure il
libretto natalizio del portoghese Mario Claudio, La fuga in
Egitto, ispirato all’omonimo quadro di Giambattista Tiepolo
(custodito al Museo d’Arte Antica di Lisbona) e costituito da sei
monologhi recitati da una serie di personaggi da Presepe: il piccolo
Gesù, la Vergine, San Giuseppe, l’asinello (purtroppo manca il
bue), un Arcangelo Bianco, un Arcangelo Nero e infine il Pittore
stesso.
La scena che raffigura il dipinto e che offre lo spunto narrativo al
testo è all’insegna di un’iconografia extrabiblica: la fuga
della Sacra Famiglia non avviene a dorso di mulo ma su una barca
guidata da un nocchiero angelico. E già questa impostazione, questo
soggetto, tradizionale ma solo in parte, rivela l’intento non
agiografico dello scrittore che, con La fuga in Egitto, ha
voluto piuttosto creare una serie di provocatori soliloqui tra il
surreale e l’evocativo, tutti giocati sullo stream of
consciousness: sul monologo interiore, appunto, e sulle
emozioni.
Chi inizia a parlare è Giuseppe, il quale, nell’additarci il
piccolo Gesù che “fino a pochi istanti prima gattonava ancora per
il patio” ci mostra sin dalle prime righe come Claudio opti senz’altro
per un’immagine domestica e apocrifa del Bambino. E come lo
scrittore prediliga innanzitutto sottolineare l’umanità di questo
padre putativo costretto a fare i conti con un figliolo enigmatico,
le cui piccole mani paiono già rivelare “così palese, la
vocazione al legno e ai chiodi, a quelle dure mansioni di sudore e
di sangue”. Un genitore che, seppur vorrebbe avviare Gesù al
mestiere di falegname, già intuisce un destino diverso per Colui
“che io ignoravo se comprendesse il Mondo o se, nulla
comprendendo, al Mondo si sacrificasse”.

E mentre i sei varcano i confini d’Egitto, colmi “d’angustia e
solitudine”, prende a narrare la fiabesca voce dell’Arcangelo
Nero: un ex angelo caduto, già sedotto da Lucifero e poi redento
per imperscrutabile “misericordia di Dio”. Grato alla Sacra
Famiglia per essere stato accolto nella piccola barca, questo “proscritto
perfino dagli stessi proscritti”, questo non più demone e forse
mai più angelo sottolinea ancora una volta il taglio
compassionevole, la dimensione terrena e umanissima che lo scrittore
ha voluto dare ai suoi personaggi, fra cui primeggia questo oscuro
essere alato, sempre sospeso fra terra e cielo, tra bene e male, tra
i dubbi e la speranza nel Bambino che tende un braccio “come a
indicarci la giusta rotta da seguire”.
Segue il monologo dell’Asino, simbolo “della pazienza e del
coraggio”, il quale, dopo aver ricordato alcuni episodi biblici in
cui il quadrupede è mansueta comparsa, già teme di misurarsi con
ben altri animali della mitologia egizia: lo sciacallo Anubi, il
toro Apis, il gatto Bubasti. Soltanto lo consola il fatto che verrà
immortalato col diminutivo di somarello: la bestiola gentile che il
Messia cavalcò.
Spezza l’ordine delle figure epifaniche il soliloquio del Pittore:
tutto preso dall’impegno di raffigurare i fuggitivi “nella loro
ermetica attraversata”: un Giuseppe debitamente “sconcertato ma
ottimista”; un Bambino la cui “inerzia” è quieto stato di
grazia; una Vergine “quasi tragica” e come “nostalgica della
giovinezza”. E giusto la Madonna prende quindi la parola. Maria:
sedicente giovinetta sin troppo assennata, dedita alla preghiera “dal
mattino presto fino alla terza ora” e alla tessitura dalla “terza
ora alla nona”. Una donna semplice, angustiata non solo per aver
dovuto lasciare Nazaret ma per quel figlio destinato - lei ne ha
precognizione - al dolore (“lo vedo trafitto per cinque volte e
agonizzante”).
Meno riuscito il discorso un po’ enfatico dell’Arcangelo bianco,
da sempre “incatenato al bene imperituro”, che rappresenta l’emblema
della distanza siderale tra l’umano e il divino ed introduce l’ultimo
monologo, quello del Bambino, risolto felicemente da Claudio nel
raffigurare un infante incantato dalla coda dell’asino e dalle
mosche che esso tenta invano d’allontanare. Ed è un Gesù
tratteggiato sulla falsariga dei vangeli apocrifi; sempre intento a
prodigi un po’ futili: modellare con l’argilla passeri a cui un
soffio infonde la vita o restaurare miracolosamente (ma dopo averle
spezzate) brocche di coccio per attingere l’acqua. Quasi un
addestramento preparatorio a ben altro miracolo, compiuto sulle
giare del banchetto nuziale di Cana, nell’apoteosi dell’epifania.
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