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Il silenzio e le parole



Francesco Roat



Franco Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, pp.218 L.15.000

"Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" scriveva il primo Wittgenstein in chiusura del suo Tractatus logico-philosophicus, alludendo alle questioni etico-religiose, ai valori, agli interrogativi esistenziali intorno al senso o al non senso del vivere e a tutto quanto non concerne i meri stati di fatto: il mondo fenomenico.

Era un ribadire la crisi già annunciata da Nietzsche con la sua metafora della morte di Dio ossia con la presa d’atto del declino irreversibile dei discorsi metafisici e delle pretese ontologiche; con la consapevolezza, insomma, che i pilastri della ragione classica non erano più in grado di costituire fondamenta stabili su cui erigere paradigmi filosofici di oggettività e certezze incontrovertibili.

E giusto partendo da Wittgenstein e dalla sfiducia nei fondamentalismi assolutistici, Franco Rella si interroga sulla possibilità (anzi sulla necessità, onde evitare nichilismo e afasia) di "costruire altri linguaggi, che se non possono più comprendere ed esprimere la pluralità contraddittoria del reale in un unico quadro organico" sono comunque in grado di "rappresentarla, agirla, trasformarla". Il problema è, allora, come andare oltre l’impasse del silenzio nel cui segno terminava il Tractatus.

Del resto lo stesso filosofo austriaco, nella fase ulteriore della sua speculazione, ha cercato proprio di superare quello stallo paralizzante, quantomeno nella misura in cui l’inammissibilità delle grandi parole esplicative comporta la descrizione di tale impossibilità e il misurarsi con questo "vuoto" da attraversare ed interpretare.

Ma la morte di Dio, dice bene Rella, è pure quella dell’ego cogito di cartesiana memoria, rappresentando tale fine la scomparsa del soggetto come struttura monistica, la cui unitarietà a partire da Freud va in crisi allorché entrano in scena l’inconscio e "la grande ragione del corpo". Un soggetto che, con la nascita della psicoanalisi, è espressione di inquietanti ambivalenze e conflitti.

Ma è giusto facendo i conti con la contraddittorietà, con l’Ombra - per dirla con Jung - che l’uomo può trovare nuove parole per dire la dimensione della caducità, il tempo della crisi, l’altrimenti irrappresentabilità della morte. Così Rella tesse senza mezzi termini un elogio di Freud, in quanto - a suo avviso - proprio con il fondatore della psicoanalisi il "nuovo sapere critico e costruttivo" emergerebbe "con maggior determinazione e radicalità, che in qualsiasi opera del Novecento".

Peraltro l’autore de Il silenzio e le parole è ben consapevole di come nel secolo appena trascorso, con il dilagare della contaminazione psicoanalitica in ogni campo del sapere, sia stata vagheggiata l’illusione di un ritorno alla parola piena, e molti abbiano tentato di trasformare l’ermeneutica del "linguaggio plurale dell’inconscio" in un sistema onniesplicativo in grado di tutto comprendere, all’interno di una visione ancora una volta pericolosamente metafisica (si pensi solo ai misticheggianti archetipi iunghiani).

Non a caso, dopo Freud è soprattutto Benjamin il pensatore che Rella ci invita a rileggere, per cogliere dalla sua opera la sfida a sostenere la precarietà e la provvisorietà dei saperi senza farsi annichilire dal lutto per la perdita delle certezze. In quest’ottica si tratta quindi non già di tentare impossibili nostalgici recuperi della ragione classica, ma di articolare un linguaggio inedito che sappia "parlare la molteplicità contraddittoria del reale all’interno di un nuovo e diverso orizzonte di senso".

Perciò, rifacendoci ancora una volta al silenzio di Wittgenstein e ribaltando la proposizione n°7 del Tractatus, potremmo convenire con Rella sul fatto che oggi non possiamo esimerci dal trattare di tutto ciò che sta oltre ed è altro rispetto al linguaggio fattuale della scienza e della tecnica; anche perché altrimenti rinunceremmo non solo a ricomporre "i frammenti che la crisi ci ha messo di fronte spezzando i grandi nomi della lingua della verità", ma altresì a capire (sia pur sapendo che ogni comprensione, ogni sistemazione teorica è atto interpretativo storicamente datato) come tali linguaggi scientifici possano mutare.

Torna dunque la questione del resto - come lo chiama Rella con felice espressione -, il problema di quel vasto ambito residuale di cui la ragione (mi si conceda il gioco di parole) non sa darsi ragione. E di come sia necessario essere sempre vigilmente consapevoli dell’incompletezza, della parzialità, della provvisorietà di ogni sapere critico.






Ufficio Stampa: Novella Mirri, tel. 06/3297708; fax. 06/3297703; cell.335/6077971;
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Roma, ottobre 2001

 

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