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L'Iran di Ryszard Kapuscinski



Francesco Moroni




Ryszard Kapuscinski, Shah-in-Shah, Feltrinelli, pp.188, lire 25000

Teheran, 1980. Nel rassicurante caos di una camera d'albergo della capitale iraniana, il grande reporter polacco Ryszard Kapuscinski ripercorre la parabola della dinastia dei Pahlavi e la caduta dell'ultimo scià, Mohammed Reza, asceso al trono nel 1953 grazie ad un colpo di stato organizzato dalla Cia. Poche fotografie e una mole disordinata di appunti sono sufficienti per ricostruire la genesi della rivoluzione khomeinista e il rovesciamento di una delle dittature più brutali e sanguinarie del Novecento.

Nel 1941 gli inglesi costringono il filo-hitleriano Reza Khan ad abdicare in favore del figlio Mohammed Reza Pahlavi. "We brought him, we took him", commenta Churchill; "Noi l'abbiamo fatto, noi l'abbiamo disfatto". Nel 1951 il primo ministro liberale Mossadeq fa approvare dal parlamento il progetto di legge di nazionalizzazione del petrolio, liquidando l'Anglo-Iranian Oil Company, pilastro dell'impero britannico.

Nel 1953 un colpo di stato ordito dalla Cia porta alla destituzione di Mossadeq e al mantenimento sul trono di Mohammed Reza, che instaura un regime violento e repressivo, in cui la miope brutalità della polizia segreta (la Savak) e il culto della personalità del despota precipitano il Paese in un clima politico-sociale regressivo, fatto di arresti arbitrari, di torture disumane e di controlli raffinatissimi di ogni forma di opposizione.

Consolidato il potere, ormai in preda a una febbrile eccitazione, lo scià quadruplica il prezzo del petrolio e lancia il suo folle progetto di modernizzazione del Paese: trasformare l'Iran nella quinta potenza mondiale in una sola generazione. Ordina di raddoppiare gli investimenti, destina all'esercito metà del ricavato delle esportazioni petrolifere, acquista armi sofisticate, dà il via a una massiccia importazione di prodotti tecnologici, costruisce complessi industriali di ogni tipo. Ma l'Iran non possiede porti, né magazzini, né mezzi di trasporto, né quadri di esperti e personale qualificato. L'Iran non possiede tecnici e ingegneri, perché lo scià ha annientato la cultura, ha chiuso le università, ha condannato all'esilio o al silenzio il libero pensiero.

"La Grande Civiltà", il modello di sviluppo selvaggio e indiscriminato, è destinato a naufragare in un mare di sprechi, di inefficienza, di corruzione. Racconta Kapuscinski: "A cielo scoperto, nel deserto, sotto l'implacabile sole tropicale, giacciono milioni di tonnellate di merci di ogni genere, metà delle quali (derrate alimentari e prodotti chimici deteriorabili) è da buttare".

Perso il treno di un'impossibile modernità, oppresso da decenni di violenta repressione, il popolo iraniano cerca un modo per mantenere la propria identità. "Non potendo emigrare nello spazio, il popolo intraprende una migrazione nel tempo e fa ritorno ad un passato che, paragonato ai dolori e ai pericoli della realtà circostante, gli appare come un paradiso perduto", spiega l'autore. Si assiste così al recupero di simboli, costumi e credenze del passato e alla riappropriazione provocatoria di riferimenti religiosi di un mondo ancestrale, quasi medievale, da parte di un popolo fiero della propria indipendenza culturale. Un popolo che, fiaccato dalle ingiustizie sociali ed economiche e dalle violenze cieche della Savak, trova riparo nelle moschee, tra le braccia dei mullah. Torna protagonista della propria storia e reagisce al falso progresso dello scià, al tentativo di imporre un modello di vita sociale legato a valori completamente estranei.

E mentre Khomeini si trova in Francia, il quotidiano governativo Etalat dell'8 gennaio 1978 pubblica un articolo che scatena la condanna popolare dello scià. Khomeini incarna le speranze degli umiliati e degli offesi. E' stato il primo a dire che lo scià se ne deve andare. In lui il popolo iraniano identifica il tredicesimo imam, quello che avrebbe instaurato il Regno di Dio. Il tentativo di screditare l'ayatollah scatena la protesta della folla. Un fiume di persone invade le strade, la protesta dilaga in tutte le città. L'esercito spara sulla folla, ma il meccanismo del terrore comincia a funzionare alla rovescia, perché il terrore, invece di paralizzare, spinge i manifestanti a proseguire la lotta, con la fede religiosa come unica arma per rovesciare il tiranno.

In un crescendo di lutti e di sanguinose repressioni, si sviluppa così la rivoluzione iraniana, che è la storia di tutte le rivoluzioni. Kapuscinski rievoca i fatti con una prosa asciutta e incalzante, capace di restituire i colori e le drammatiche emozioni di un evento destinato a cambiare la storia di un Paese e i rapporti tra Islam e Occidente.

 

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