L’ascolto dei
Canti
Sergio Campailla
Il velo della poesia
Poeti si nasce o si diventa? La domanda potrebbe suonare
provocatoria e persino pleonastica in riferimento a chi, come
Leopardi, vanta un riconoscimento indiscusso e si pone come un
simbolo e un garante della poesia; ma può essere utile a dare e a
restituire verità e dinamismo a un testo classico che rischia di
essere accostato come un prodotto finito e intoccabile, una forma a
priori, invece che come il risultato di una ricerca creativa, dentro
la storia. La posizione del lettore ne viene sensibilmente
modificata: nel primo caso, rimane estraneo o almeno esterno, e si
limita a una fruizione per così dire estetica di riflesso; nel
secondo caso, entra nell’opera, ne ripercorre il movimento vitale,
in un contributo aperto e complementare.
Questa precisazione di preambolo perché la stessa dimensione dei Canti
sigilla l’opera unificando sezioni diverse, nate da un progetto
via via orientato e corretto, che porta anche lontano dagli intenti
d’origine e che addirittura lascia un margine d’irrisolto e di
provvisorio. La costellazione dei Canti assembla infatti le
giovanili Canzoni, la svolta degli Idilli, la stagione
mista dei Versi innestata dai volgarizzamenti, quindi l’invenzione
di uno standard lirico, quello appunto del titolo definitivo, in un
itinerario a tappe, sino all’incremento postumo del Tramonto
della luna e della Ginestra, che tuttavia non concludono
strutturalmente il libro. Il quale, dunque, si offre a noi così, in
un ordinamento tradizionale che prende avvio dalla canzone All’Italia
e finisce con i Frammenti e le rielaborazioni da Simonide,
che piuttosto dovrebbero essere relegate in un’appendice.
Questo significa che I Canti non sono un libro, ma il libro
di una vita: una raccolta di sintesi, che si compone di più
raccolte, appartenenti a stagioni successive. Se si guarda al
complesso della produzione leopardiana, si misura lo spazio che
compete a questa silloge: poche decine di pagine nel mare magnum
di un’edizione dell’opera omnia, che ne conta a migliaia, fitta
di imprese erudite e filologiche, scritti in versi, prose
letterarie, ivi compresa la miniera aperta dello Zibaldone e
l’ epistolario. Poche decine di pagine, sì, ma il cuore pulsante
di quel corpo.
Un’enorme quantità di materiali, di riflessioni e suggestioni
concorre alla genesi di una forma poetica: la quale, rovesciando la
prospettiva, è stata quindi resa possibile da un processo
formidabile di selezione e condensazione. Un dato ricco di rilevanti
implicazioni, tra cui questa: che l’impegno studioso e la massa
dottrinaria soffocano di norma la poesia, a meno che non la
liberino, come nel caso di Leopardi. Il quale è un artista
assolutamente genuino, ma non ingenuo, secondo una leggenda dell’ispirazione
romantica; ed anzi è profondamente intellettuale, ma con un dono di
denudamento e di oblio.
Di qui gli equivoci, ritornanti nell’interpretazione di questo
scrittore, sul rapporto tra poesia e filosofia, tra poesia e
ideologia, tra poesia e storia, con la tendenza troppo spesso a
salvare la prima svuotando la seconda, invece di valorizzare le
cariche interne a una condizione di fertile scambio; sino al limite
della lettura crociana, largamente egemone nella prima metà del
Novecento, che accompagnando quel processo selettivo avviato dall’autore
stesso, procede a un’ulteriore riselezione, operando scelte e
tagli strutturali, in un’alternativa coraggiosa e inaccettabile
tra poesia e non poesia.

Il processo estrattivo è tanto più evidente in quanto faticoso
nella fase giovanile, in cui Leopardi meno conosce se stesso e più
subisce i condizionamenti d’ambiente. Al momento della canzone All’Italia,
che nell’architettura dei futuri Canti è il testo
approvato che fa da soglia, il suo bagaglio di cultura è
eccezionale e sovraccarico, con pesi che lo sospingono in avanti e
insieme lo frenano. Leopardi si affaccia al pubblico della poesia
avendo alle spalle le frequentazioni in biblioteca che lo
qualificano come ipercolto e che giustificano in qualche modo il suo
intervento su quella tematica storico-civile nel nuovo versante
linguistico.
La documentazione segreta dello Zibaldone, le lettere coeve,
le molteplici prove del suo laboratorio letterario stanno a
testimoniare le articolazioni di un itinerario e la vastità dell’orizzonte.
Tra queste prove una, concepita per essere pubblicata e che invece
rimase inedita, il Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica, per il suo carattere di manifesto, per la latitudine
delle questioni affrontate, per il suo uscire allo scoperto e in
maniera compromettente nel territorio della contemporaneità, merita
a mio giudizio una sottolineatura di ingresso.
In breve, il Discorso è tecnicamente una risposta alle Osservazioni
del Cavaliere Lodovico di Breme sulla poesia moderna. E’
costruito su alcune antinomie fondamentali, quali immaginazione -
intelletto, natura-ragione, infanzia-età adulta, con una
rivendicazione radicale in nome dell’immaginazione, della natura,
dell’infanzia. E siccome alla sua formazione classica non sembra
dubbio che gli antichi abbiano goduto di un privilegio di posizione
sull’intero fronte problematico, il Discorso si propone
come un capitolo dell’ annosa querelle des anciens et des
modernes aggiornata all’anno 1818, con una deposizione a
favore degli antichi contro i moderni. Per dotarci di un solido
appoggio di partenza, rileggiamo il seguente passo:
“Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti,
e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per
qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di
quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella
sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e
il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri
alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra,
indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che
vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di
volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le
immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e
abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi
beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio;
quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo
di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci
possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le
stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto
degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o
disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né
sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento
nostro e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano
giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si
reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in
quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava,
come libera e senza freno, impetuosa e instancabile spaziava, come
ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le
oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che
vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che
trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza
quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto”.
La tesi è ben leopardiana, ma non può sfuggire il suo effetto di
sbilanciamento. Il tempo della poesia è l’infanzia: questa la
testimonianza appassionata di Leopardi, per esperienza interna,
quindi, dal punto di vista di chi argomenta, incontestabile. Il
fanciullo, e l’uomo antico che è il fanciullo nella storia umana,
immaginano il mondo, che non conoscono ancora. Lo fingono,
secondo illusione e piacere, indipendentemente dalla verità; la
quale più tardi interviene a dissipare quel velo, a focalizzare le
immagini, consegnando il reale alla scienza e all’impoeticità.
Se questa impostazione ha un fondamento, ne consegue tuttavia che
Leopardi ha fatto esattamente l’opposto di quello che avrebbe
dovuto, accelerando nelle sue vertiginose esplorazioni in biblioteca
le fasi del processo di conoscenza e uscendo anticipatamente dall’eldorado
dell’infanzia: in ciò rappresentante di punta della modernità,
con cui invece polemizza risentitamente, ergo in discordia
lacerante con se stesso. Dopo tanto affanno, Leopardi scopre di
essere stato poeta quando era ignaro e ignorante, non adesso, che ha
capito e che sa. Il movimento sarebbe di tornare indietro, con un’inversione
di marcia in tutta fretta, se fosse possibile. Ma non lo è: il
danno è irreversibile. Di qui a poco, la mappa delle Operette
morali elabora situazioni di prova, in cui il recupero dell’innocenza,
impraticabile per sé, seduce a un elogio pragmatico dell’ignoranza
per gli altri.
Nel Discorso il presupposto della dimostrazione è dato dal
concetto di una natura inviolata e benigna, patrimonio del mondo
antico. Questo il parametro di confronto per stabilire le unità di
misura, il diritto e la quota di eredità. Ne deriva uno schema
storico su base ideologica quanto mai ambizioso: i greci e i latini
godevano di un legame originario con la natura parlante, di un
privilegio di primogenitura. E in epoca moderna sono gli italiani
gli eredi diretti dei greci e dei latini, a loro “i fondamenti del
buon gusto” sono stati “conceduti da Dio”, e questo primato li
differenzia dai tedeschi e dagli inglesi, massimi responsabili della
corruzione del gusto, e dai francesi, che da quella corruzione non
sono affatto esenti.
Il Discorso diventa a questo punto un trattato di letteratura
comparata, sviluppato come un albero genealogico, per categorie
oppositive. Quali le differenze tra gli antichi, cui vanno
assimilati gli italiani, e i moderni? “Nella fantasia di costoro
fa molto più caso qualche lampada mezzo morta fra i colonnati d’un
chieson gotico dipinta dal poeta, che non la luna su di un lago o in
un bosco; più l’eco e il rimbombo di un appartamento vasto e
solitario, che non il muggito de’ buoi per le valli; più qualche
processione o spettacolo o festa o altra opera di città, che non
messe o battitura o vendemmia o potagione o tagliatura di legne, o
pastura di greggi o d’armenti, o cura d’api o di fratte o di
fossi o di rivi o d’orti, o uccellagione o altra faccenda di
agricoltori o di pastori o di cacciatori; più lo stile corrotto e
cittadinesco e moderno, che non il semplice e primitivo”.
Nonostante il tono della polemica, sarà bene classificare, uno per
uno, gli esempi portati da Leopardi: la campagna come paesaggio
della natura e non la città, nata dalla civiltà e dalla storia. E
dentro quella cornice detemporalizzata, gli attori e i testimoni e
gli elementi: i contadini, i pastori, i cacciatori, la luna e le
greggi e il ruscello e il bosco. Esempi stilizzati di repertorio che
documentano la sua estrazione classica, ma così consustanziali alla
sua personalità e alla sua vocazione che, anche anni dopo, nella
verifica e nel filtro di una profonda trasformazione intellettuale e
sentimentale, daranno ancora l’impronta alla sua poesia, lungo il
filone idillico, sino al Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia e al Tramonto della luna.
Il paradosso è che Leopardi, che noi oggi consideriamo un simbolo
della sensibilità romantica, si sovraespone in questa disputa sui
massimi sistemi letterari con un’opzione antimoderna. I moderni
non dispongono di scorciatoie, non sono più vicini alla meta,
semmai ne sono più lontani. Se bastassero i capricci della
modernità fine a se stessa, i marinisti con le loro “pazzie”
sarebbero da anteporre a Omero e a Virgilio; e Leopardi cita a
questo proposito i versi cervellotici di un Achillini e di un
Menzini, come prototipi di un cattivo gusto dentro un’illustre
tradizione da restaurare.
Ma è un paradosso più che altro apparente, in una crisi culturale
di vasta portata, che pone gravi problemi in una società i cui
punti di riferimento politici e sociali drammaticamente cambiano.
Leopardi da una parte scrive col Discorso una difesa della
poesia, contro quelli che gli sembrano i pericoli e l’imbarbarimento
delle coscienze, lungo la strada che gli si prospetta, e che gli
appare come la motivazione della sua vita; dall’altra, in questo
pronunciamento antimoderno, al di là delle schermaglie
argomentative anche datate, già collauda senza rendersene conto la
sua resistenza anticontemporanea, che è come dire la sua vocazione
inattuale, quella vocazione che lo porterà al Dialogo di
Tristano e di un amico e ai Paralipomeni.
Il Discorso è, o dovrebbe essere, un biglietto da visita per
presentare un curriculum. Leopardi cerca un punto di ingresso e si
posiziona nel solco di una eletta tradizione, facendo eco a una
degnità vichiana sugli stadi dell’evoluzione-involuzione dalla
fantasia primitiva alla mente pura nella storia umana e precorrendo
quella formula del “primato morale e civile degli italiani” che
Vincenzo Gioberti renderà famosa a livello internazionale e a
precisi fini risorgimentali un quarto di secolo dopo. Quel primato
nella gloriosa epoca antica è stato di un’intera civiltà, nella
pienezza delle sue manifestazioni, in primo luogo la sfera politica
e militare, mentre oggi non può che limitarsi al regno delle
lettere e delle arti.
Questa residua superiorità spirituale va perciò salvaguardata con
tutte le energie; e a questo fine Leopardi esorta la nuova
generazione: “Soccorrete, o Giovani italiani, alla patria vostra,
date una mano a questa afflitta e giacente, che ha sciagure molto
più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i
nemici. Fu padrona del mondo, e formidabile in terra e in mare, e
giudice dei popoli, e arbitra delle guerre e delle paci, magnifica
ricca lodata riverita adorata; non conosceva gente che non la
ubbidisse, non ebbe offesa che non vendicasse, non guerra che non
vincesse; non c’è stato imperio né fortuna né gloria simile
alla sua né prima né dopo.
Tutto è caduto: inferma spossata combattuta pesta lacera e alla
fine vinta e doma la patria nostra, perduta la signoria del mondo e
la signoria di se stessa, perduta la gloria militare, fatta in
brani, disprezzata oltraggiata schernita da quelle genti che distese
e calpestò, non serba altro che l’imperio delle lettere e arti
belle, per le quali come fu grande nella prosperità, non altrimenti
è grande e regina nella miseria”. Chi fa questo appello si offre
come portabandiera. E di bandiera vera e propria si tratta. Come è
esibito nel titolo, e come non bisogna perdere di vista, questo
infatti non è un “discorso intorno alla poesia romantica”, ma
un “discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”.
L’Infinito e dintorni
Il mondo delle canzoni era storico-mitologico, a ispirazione
patriottica. L’Italia, il suo passato glorioso e il suo presente
indegno, destava una passione civile, offriva il teatro di un’azione
possibile, sia pure nelle forme di un risarcimento letterario. Un
temperamento generoso pagava un pedaggio alle richieste assolute
della morale e anche dell’astrazione con una sovradose di
eloquenza, che era il sonoro di una cultura. Ma nel quotidiano e
negli anni, lo specchio suggeriva una diversa e sconveniente
lezione, guidava nei meandri dell’interiorità, conquistava un
centro a partire dal quale si modificavano le unità di misura e il
sistema acquisito di relazioni.
Le canzoni erano ipercolte, a struttura incatenata, di respiro
protratto. L’Infinito, che inaugura la stagione degli
Idilli, composto nel 1819, all’età fantastica di ventun anni, è
la più breve delle poesie raccolte nei Canti, conta infatti
soltanto quindici versi, è un prodigio di semplicità apparente,
sino alla trasparenza, nell’immaginario collettivo identifica la
voce poetica di Leopardi, e forse - per quanto questo può essere
legittimo - della purezza della poesia in quanto tale.
E’, innanzi tutto, un problema di visione. Anche il lettore deve
posizionarsi: su un osservatorio, quindi eminente e panoramico, un
colle. Dinanzi si frappone un ostacolo. Leopardi, nel travaglio
delle stesure intermedie, aveva prima individuato un “roveto”,
forse di reminiscenza biblica, poi un “verde lauro”, di
tradizione letteraria e petrarchesca. Alla fine, una “siepe”.
Per valutare la situazione leopardiana, porto a confronto un passo
della Vita dell’ Alfieri, un maestro: il quale racconta di
trovarsi a sedere “con le spalle addossate ad uno scoglio ben
altetto”, che gli toglie “ogni vista della terra da tergo”,
per cui di faccia non gli si offre “altro che mare e cielo”. Il
risultato di quel privilegio di stazione è che “fra quelle
immensità” gli succede di passare “un’ora di delizie
fantasticando”.
Non propongo una fonte, voglio al contrario evidenziare una
differenza: Alfieri per aprirsi al senso di infinito ha bisogno di
contemplare mare e cielo congiunti, spalancati alla vista. Dov’è
la limitazione? Uno scoglio, che chiude, ma a tergo. Leopardi lo
pone davanti agli occhi. E’ una vera e propria scelta di campo. Ci
si potrebbe chiedere perché invece non ponga se stesso oltre la
siepe. Siamo, com’è facile intuire, nel cuore del sistema
leopardiano. E allora ci si deve ricordare che le gocce di miele di
questi versi sono il distillato di un lavoro da alveare, che l’essenzialità
di questo prodotto finito e perfetto, sin quasi al quintessenziale,
nasce dall’inesausta esplorazione documentata passo passo nello Zibaldone.
Di qui il paradosso che da un lato l’ Infinito non ha
bisogno di commento, è chiaro nel suo dettato presunto di
spontaneità e semplicità. Questo risulta vero ormai per tutti gli
Idilli e per il fiore dei Canti, ma è una verità che sembra
stabilita e dimostrata proprio nell’ exemplum dell’ Infinito.
La lettura più idonea sembra allora essere quella alla Ungaretti,
che è propriamente una recitazione del testo, compiuta attraverso
la scansione lenta delle singole frasi e delle singole parole, nel
tentativo di restituire il massimo di risonanza e di intensità
musicale ed espressiva.
La lettura come un fatto di dizione, un ritrovare timbri e
inflessioni, pieghe e sfumature, presenti e vive al momento dell’invenzione
da parte dell’artista, e che il lettore deve in qualche modo
reinventare, facendosi anch’egli poeta. E L’Infinito di
queste parole poetiche racchiude un inventario selezionato. Dall’altro
lato, come ogni componimento dei Canti, sia pure con un
debito diverso, anche il capolavoro lirico dell’Infinito presuppone
il sottosuolo leopardiano, senza il quale non sarebbe quello che è,
e senza il quale è difficile evitare l’impressionismo estetico,
la decantazione in orizzontale invece che lo scavo in verticale
nelle profondità degli strati. Nel merito e nel metodo, il
rapporto, da impostare e da capire, è tra una straordinaria cultura
ed erudizione, e una poesia che ne viene estratta, ma più per
eccezione e per miracolo, perché la norma sarebbe all’opposto
quella di venirne soffocata.
Ritengo che il paradosso si superi nel senso che quell’autonomia e
quel rapporto devono essere entrambi salvaguardati, - è il caso di
ribadirlo a proposito dell’ Infinito quale prova del nove -
lontano da una tradizione esegetica di lungo corso, di marca
idealistica e crociana, che ha accreditato una lettura
esclusivamente idillica , con le distinzioni chirurgiche di poesia e
non poesia. Per quanta resistenza si opponga, il problema della
poesia leopardiana sarà sempre quello che si configura per l’apporto
e la confluenza della sua filosofia, viva fluida e contraddittoria,
quale è la filosofia di un artista.
La forma dell’Infinito dà una rivelazione, che è anche un
fatto conoscitivo. Il suo autore ha già sperimentato le posizioni
ulteriori e anteriori, dello sconfinamento e dell’arretramento. Ha
un’antica consuetudine di osservazione. Nell’idillio quasi
gemello di Alla luna ritorna sul medesimo colle, nella
ricorrenza di un anno. Nell’Infinito avviene una
dilatazione temporale e affettiva: “Sempre caro mi fu quest’ermo
colle…”; e gli è cara la siepe, che non gli apre l’orizzonte,
ma invece lo esclude. Si potrebbe aggiungere che gli è cara perché
lo esclude. L’effetto infinito è determinato da questo
accorgimento tecnico di copertura: è infatti un infinito vuoto, per
assenza. Il motore in questo mare tranquillo è una finzione: “Io
nel pensier mi fingo”: una finzione intellettuale e poetica, che
crea ciò che altrimenti non ci sarebbe. Leopardi dapprima aveva
scritto: “interminato spazio”. Poi corregge: “interminati
spazi”, al plurale, un infinito spaziale e anche numerico. E dopo
quello spaziale, l’infinito temporale:
“… io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno…”
Nell’ordine della finzione intellettuale, c’è il cardine di un
confronto: tra “questo” e “quello”, tra ciò che è vicino e
ciò che è lontano, tra ciò che si vede e ciò che non si vede,
tra la “voce” del vento e il silenzio delle “morte”
stagioni, con un duplice antropomorfismo che umanizza la natura,
mentre su un altro piano si naturalizza la storia: “il suon” del
presente.
La finzione è un itinerario mentale: in mancanza di un infinito
religioso, e forse in sua sostituzione. Il clima infatti è di una
religiosità laica, alle alte vette. Leopardi si incontra così con
la famiglia di altri grandi spiriti romantici europei, Novalis,
Hölderlin, Keats, Shelley, Schiller, lungo un percorso di
alchimista solitario dell’oro poetico che gli ha permesso di
raccogliere sino in fondo la sua eredità classica piegandola all’esito
avanzato della modernità. E se mi è lecito rimandare al mio volume
La vocazione di Tristano, che è una storia continua delle Operette
morali, a me pare che egli con L’Infinito egli sia
arrivato a scrivere in sintesi e in versi un manifesto di “inattualità”,
quale inseguiva nella tramatura fantasmatica del suo laboratorio in
prosa.
Se ci volgiamo per un istante indietro alle canzoni, apprezziamo
meglio quale sia l’evoluzione e quasi il salto. Nell’Infinito
manca non solo la vena polemica, ma persino qualsiasi nota privata,
pur nei nuovi territori dell’intimità. Il colle è il cosiddetto
monte Tabor, un’altura nei pressi del palazzo Leopardi, ma questa
informazione è un fuori testo, perché potrebbe essere qualsiasi
luogo soprelevato della terrestrità. L’oggetto della poesia è la
sua visione; e il suo simbolismo tende agli universali.
Appena percepibile la vibrazione affettiva, intonata dal “caro”
iniziale e culminante nel “dolce” finale: che è la sua quota di
partecipazione idillica. La macchina di metro e rime, di fattura
petrarchesca con varie rielaborazioni letterarie, propria delle
canzoni, si alleggerisce nella liquidità luminosa degli
endecasillabi sciolti in quello che, come è stato notato da Mario
Fubini, è una sorta di equivalente del sonetto, per un Leopardi che
sin dagli inizi della sua carriera ha mostrato di non amare questa
forma chiusa prediletta dai classici.
La dimensione non è più epico-narrativa, ma lirica, e più avanti
semmai lirico-drammatica, del canto, del Lied romantico. E
difatti la musica si sposa alla poesia, in una nuova alleanza che è
quasi una genesi comune. Si intende che la caratura idillica si
adatta ancor meglio ai testi successivi, a cominciare da Alla
luna. Leopardi già nel 1815 aveva tradotto gli Idilli di Mosco
e gli era ben nota la produzione latina di Teocrito e Virgilio, e
quella pastorale italiana, dal Sannazaro all’Aminta
tassesca all’Arcadia. E di sua mano negli appunti aveva spiegato
gli Idilli come “esprimenti situazioni, affezioni, avventure
storiche del mio animo”. Ma abbiamo visto dal Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica quanto in lui fosse
radicata la convinzione di una natura originaria come teatro di
eventi, abitato da quei sacri custodi che sono pastori e contadini,
nell’eterno ritorno dei fenomeni astrali.
Alla luna è, da questo punto di vista, una specie di saggio al
pianoforte. Vi appare la luna come interlocutrice e testimone,
corteggiata come una divina compagna: è “graziosa”, “diletta”.
Nel suo ciclo, essa è anche la misura ideale delle età della vita:
quindi le è collegato il ricordo, anzi la ricordanza, che è il
titolo prescelto in un primo momento e accantonato per riutilizzarlo
con maggiore profitto successivamente. Ma la parola preziosa viene
pronunciata qui per la prima volta, tra quelle decisive a
rappresentare la poetica leopardiana del vago, come “ermo” nel
primo verso dell’ Infinito, e appunto “vago”, che
definisce una forma della bellezza, e il rapporto misterioso tra l’Amata
e l’Amante. Alla luna introduce anche in termini espliciti
una scansione di tempi come tappe della favola umana:
“ Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose”.
Leopardi viene a teorizzare l’impoeticità del presente, che è un
altro modo per sancirne l’ invivibilità, e il potenziale riscatto
con una fuga in avanti, la speranza, che tuttavia in lui ormai sarà
una freccia di corta traiettoria, e soprattutto con un recupero all’indietro,
nel giacimento della memoria. Alle risorse, spirituali e artistiche,
di questa uscita di sicurezza nessuno si dimostra predisposto più
di Leopardi, il quale ha un immenso retroterra storico e che nelle
canzoni ha collaudato un impossibile ruolo di poeta vate della
storia e della memoria nazionale e che adesso scopre le dolcezze
sentimentali della propria sconfitta.
A partire dalle mosse fondamentali dell’Infinito e di Alla
luna, la scala melodica va dal pathos al patetico, lungo l’intera
produzione idillica. La sera del dì di festa è una delle
più toccanti espressioni del carisma poetico leopardiano. Si apre
con versi meravigliosi:
“Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E questa sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna…”
Il plenilunio inonda di luce un mondo silenzioso immerso nel sonno,
è l’aureola della donna che dorme voluttuosa, filtra col suo
argento raro ad attizzare l’inquietudine del poeta insonne, ad
esasperare il suo bisogno d’amore. Nel buio, il linguaggio
essenziale è quello del piacere, che ha la donna come fonte e come
destinazione, ma che al poeta, nonostante i diritti della sua
giovinezza e della sua sensibilità, è negato. La luna, che scova i
licantropi, ma che in Leopardi resta sempre così decorosa e saggia,
gli strappa una nota di angoscia elementare e appassionata, quale
non risuona altrove:
“ … e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo”.
E non è difficile immaginare come al pudore di quell’urlo in
solitudine abbiano fatto eco e consentito tanti lettori leopardiani,
nell’avvertimento di un segnale, che è il distintivo dolente ma
civile di una famiglia e di una comunità.
La festa, che il titolo porta in esponente, è il rito che ha un
calendario bianco, dove gli esclusi segnano la data. Leopardi ne ha
sentito il richiamo, con tipica oscillazione dialettica si è
situato alla sua vigilia, come canterà nel Sabato del villaggio,
o al suo compimento, come in questa Sera del dì di festa; in
ogni caso, emarginato, mai nel cuore caldo della festa. La quale
passa per tutti, ma per chi non l’ha vissuta è cenere senza
fuoco. Leopardi piange il tempo che fugge, gli basta il canto
solitario di un artigiano che torna a casa nella notte perché il
suo orologio impazzito gli ricordi altri clamori spenti sulla
ribalta della storia, da quell’occasione di paese con fulmineità
emotiva scarta su un altro fondale, alzando il tono al livello più
alto:
“Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi…”
Ubi sunt? Certo, non rimane nulla, o al più, delle rovine.
Ma questa volta forse non è un interrogativo retorico, va letto in
altro modo; è rivolto a se stesso, a quel Leopardi infiammato che
abbiamo conosciuto dalle canzoni, per il quale la gloria antica
rappresentava un valore e un rifugio supremo ed ora ha perduto la
sua funzione alternativa e anestetizzante. Il “grido” trionfale
degli avi famosi non riesce più a coprire l’altro grido, del
poeta che si getta a terra, a festa conclusa, disperato per le gioie
che non ha goduto.
Il visionario dell’ Infinito faceva dimenticare la
solitudine che lo circonda. Ma il problema ormai campeggia, diviene
il nucleo ispirativo di ben due composizioni, La vita solitaria
e Il Passero solitario. La lettura dell’uno e dell’altro
come un doppio testo a fronte, al di là delle difficoltà di
datazione e collocazione del secondo, può fornire gettare una luce
sul modo di aderire delle tessere del mosaico, sul loro sovrapporsi,
sul residuo. La vita solitaria celebra in positivo i piaceri
della vita campestre, quella vagheggiata dall’autore nella sua
riflessione teorica e qui assunta nella pratica quotidiana, al
presente. Con insolito puntiglio dimostrativo, quattro sono le parti
del testo, approssimativamente corrispondenti ad altrettante parti
del giorno. Né mancano squarci d’interesse: per esempio, il
quadro sul meriggio, che riproponendo il personaggio del
contemplatore tenta una riscrittura dell’ Infinito, mentre
su un altro piano sembra incredibilmente anticipare l’indifferenza
montaliana nell’orto tra Meriggiare pallido e assorto e Spesso
il male di vivere:
“Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tiene quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda”.
E ancora, mi seduce quell’inno alla luna, regina delle notti, “al
cui tranquillo raggio/ Danzan le lepri nelle selve”. E non posso
non notare l’affiorare di semi linguistici, isolati ma che daranno
il loro frutto di immagini e di situazioni più tardi, come la prima
apparizione del “garzoncello” e della “donzelletta”. Ma lo
schema della dimostrazione leopardiana non mi convince laddove
instaura una polemica sterile, e pur comprensibile dal suo punto di
vista, contro la vita nelle città, abitate da pallidi ladroni e
drudi vili; e non mi convince soprattutto perché in definitiva, al
di là della patina letteraria, è un elogio della turris eburnea
e degli ozi padronali.

E che non sia soddisfacente nemmeno per Leopardi lo si può
verificare nel bellissimo Passero solitario, dove la vita
solitaria non è affatto una scelta, tanto meno positiva, ma una
costrizione e privazione, che genera umano rimpianto e infelicità.
Sulla torre antica, in vetta, come il solitario dell’ Infinito,
sta un passero triste e gentile, in tempo di primavera, mentre in
cielo gli altri uccelli volano a stormi e a gara e sulla terra gli
animali festeggiano ciascuno col suo linguaggio il rifiorire della
natura. La poesia è lineare e ha uno schema ternario, che si
scioglie nella spontaneità del suo dettato. Si basa su una
similitudine: il passero è come il poeta; è solo come lui; e come
lui, canta. Su questa similitudine, Leopardi sfida Catullo, il
rischio di una reminiscenza ironica ed erotica dal Passer,
deliciae meae puellae, ma vince la sfida, e inventa un canto
aristocratico e popolare, memorabile perché da ricantare, in un
registro di casta tristezza che gli attira il consenso di ogni
categoria di lettori. Non si fanno sentire accenni polemici,
Recanati è il “nostro borgo”, con uno straordinaria ammissione,
e la festa è un’onda che si allarga, anche se non arriva a
coinvolgerlo:
“Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra”.
Il finale spezza la simmetria, a vantaggio del passero, il quale
segue natura e non si dorrà nella sera della sua vita, a differenza
del poeta, che sconfessa quanto aveva dichiarato nella Vita
solitaria:
“Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, e volgerommi indietro”.
La bella addormentata della Sera del dì di festa non sa
nulla dello spasimo acceso nel cuore del poeta. L’amore è dunque
unilaterale. Ma l’arte ha sovente il compito di creare una realtà
parallela, di dar vita a un sogno. Leopardi immagina così che il
contatto con la partner si instauri, non tuttavia nella simulazione
di una storia al presente, che la nega e compromette a impegni
adulti, ma nella morte, che riapre il meccanismo dell’illusione e
non teme smentita. Ai due estremi, perciò, nel Sogno è la
donna che è morta e viene a visitare l’autore dormiente, mentre
nel Consalvo è quest’ultimo sul letto di morte che ottiene
dall’amata quel pegno che altrimenti gli sarebbe precluso.
Nel Sogno la finzione letteraria è suffragata dal precedente
petrarchesco dei colloqui con Laura morta. La donna prende l’iniziativa
e si rende alla portata, come non era stata mai da viva. Comincia un
dialogo faticoso di chiarimento, che ha una funzione consolatoria,
sino alla scoperta improbabile di una corrispondenza d’amorosi
sensi e alla richiesta ultima di toccare una mano. Siccome lui se lo
sta dimenticando, e copre quella mano di baci, la donna gli deve
ricordare che è morta: cala il sipario, cioè il sogno si dissolve.
La falsità delle posizioni reciproche sforza i passaggi e genera la
nuvola di un’atmosfera sentimentale. Qualche interprete si è
chiesto chi sia la donna in questione: ma la cosa importante è che
essa, nell’economia della situazione poetica, non ha un nome né
un volto o un tratto fisico e nessun altro requisito che quello di
impedire in ogni caso di superare la distanza, salvo che nell’immaginazione.
Il Consalvo ha sicuramente maggiore energia, ed ebbe uno
strepitoso successo presso il pubblico romantico, tanto che De
Sanctis non esitò a indicarvi una prova indiscutibile della poesia
leopardiana. Ispirata all’amore per Fanny Targioni Tozzetti, come
racconteremo tra breve, Leopardi gli assegnò questo posto nei Canti
per un’esigenza di despistamento, ma forse anche per rivendicare
giuste ragioni ideali e strutturali. I personaggi hanno un nome, si
chiamano Consalvo ed Elvira, con un prestito colto dal Conquisto
di Granata del seicentesco Girolamo Graziani. Consalvo sta
morendo, assistito dalla sua bella, anzi “bellissima”, anzi “per
divina beltà famosa”. Insomma il tono è sostenuto, le
dichiarazioni e le promesse raggiungono il diapason, l’obiettivo
si conferma quello: un bacio, che a un morente non si rifiuta, e che
è fonte di un’estasi indicibile.
Se Il sogno era languoroso, il Consalvo, chiedendo
venia a De Sanctis, è sovraccarico e melodrammatico, nella
direzione di un romanticismo morboso. L’eccitazione rispetto alla
letterarietà fa più trasparire l’urgenza biografica, ma ha un
diaframma che la tiene egualmente discosta dalla linea dell’arte.
Consalvo si autocommisera troppo al fine di attirare l’attenzione
su di sé e sembra insincero anche quando dice delle verità che
invece non vanno sottovalutate. E per esempio questa: che tutto
sarebbe stato diverso, e la terra si sarebbe trasformata in un
paradiso, se la donna avesse appagato, lui vivo, il suo bisogno d’amore.
Il che non è affatto riduttivo, come qualcuno potrebbe ritenere,
perché è proprio l’inconsistenza accertata di quest’ipotesi a
scatenare l’inferno. E poi, siccome anche le controfigure
sbagliate hanno un grado di somiglianza, Consalvo presago una cosa
intuisce, e in quanto morituro bisogna prestargli fede:
“Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte”.
Il ravvicinamento non giova a Leopardi, perché la distanza è
incolmabile, come è chiaro e come è riconosciuto in Alla sua
donna, un testo nel quale si saldano senza residui l’esperienza
delle canzoni e quella idillica. Qui l’interlocutrice non è una
donna inferma, né assente, né morta; non ha nome né volto; è la
bellezza, in quanto tale, invocata in esordio:
“Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso”.
Lungi, quanto? La distanza che garantisce meglio il nascondimento,
la massima. Come il Tasso in prigione, Leopardi accetta di non
togliere il velo, e quest’accettazione gli dà finalmente una
superiorità di amante che non può essere deluso. Le ipotesi non
sono quelle della donna che lo viene a cercare e gli fa rivelazioni
o concessioni da colpo di teatro, riguardano bensì la sua genesi.
Si scopre che non è il poeta escluso dalla donna, ma è la
bellezza, di cui la donna è messaggera, ad essere esclusa dalla
terra:
“Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella”.
Al più, appartiene a un mitico secolo dell’oro, ossia a un’epoca
remota e inverificata della storia del mondo. Ma la stanza del
congedo fa un altro spostamento, con una proiezione nel paesaggio
dell’infinito:
“Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi”.
La lode diventa un inno, senza retorica, senza aggiungere ma semmai
togliendo, in un clima etereo di ascesi, che non disdegna una
consapevolezza autoironica. Come ha commentato lo stesso Leopardi in
una nota al testo, “la donna, cioè l’innamorata, dell’
autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza
e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia
nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e
poi qualche rara volta nel sonno, o in una qualsiasi alienazione
della mente, quando siamo giovani. Infine, è la donna che non si
trova”. Il corsivo è suo e, in un discorso calcolatissimo,
fornisce la spiegazione definitiva:
“… che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago”.
Ecco l’appagamento più alto, quello che non chiede nulla e tutto
dà: l’appagamento dell’immagine. La donna è la bellezza, e l’amore
per la donna è l’amore per l’amore. Ed è la rivincita della
letteratura, la sua dignità sovrana. Nei versi eletti di Alla
sua donna si raccoglie e culmina in una poesia originale l’eredità
di un’illustre tradizione di cultura e di lingua, che va dalla
scuola siciliana allo Stilnovo, da Dante e da Petrarca alle epifanie
angeliche derivate, nell’alveo di una spiritualità che risente
dell’egemonia cattolica ma ripercorsa sino al punto di confluenza
con la matrice platonica.
Leopardi oggi
Tra i Disegni letterari concepiti da Leopardi si incontra
questo titolo: Lettera a un giovane del 20° secolo. E' un
peccato che non sia mai arrivato a scrivere tale lettera. Sarebbe
stato uno straordinario documento, che avrebbe consentito una
verifica diretta sulla contemporaneità dello scrittore, sulla sua
volontà e capacità di uscire dal suo tempo e di aprirsi a una
diversa condizione culturale e umana. Leopardi non può più far
pervenire questa lettera; un giovane invece potrebbe pur sempre,
dopo un'attenta riflessione sui Canti, sulle Operette,
sui Paralipomeni, rispondere a Leopardi: fare il punto,
distinguendo, come si usa, ciò che è vivo e ciò che è morto,
oggi, nel suo pensiero e nella sua eredità.
Leopardi non ha scritto la Lettera a un giovane del 20° secolo,
e peraltro noi abbiamo già varcato la soglia del ventunesimo
secolo; ma ha scritto altre cose, che permeano la nostra
sensibilità, maestro di stile e d'altro. Se ci si dovesse chiudere
nell'arca, per un imminente diluvio, non pochi - credo -
sceglierebbero di portarsi dietro qualche lirica dei Canti.
Leopardi può non offrire una lettura allegra, ma è un altissimo
poeta: e nei momenti difficili, in cui si percepisce la sottigliezza
del filo dell'esistenza, finiamo per ritrovarlo, senza infingimenti,
autentico. Per limitarmi a un solo esempio, ha scritto un'operetta
morale come la Storia del genere umano; e nella storia del
genere umano ci siamo dentro tutti.
Il principio dinamico di questa Storia è il seguente: gli
uomini non si accontentano di ciò che hanno, immaginano la
felicità in quello che loro manca, e si affannano a procurarselo.
Dall'origine dell'avventura su questa terra, sono protesi al
superamento progressivo dello stadio dell'infanzia, dell'ignoranza,
dell'immaginazione, e si aprono a spazi sempre più avanzati di
verità. Ma il non sapere è maggiore felicità, il sapere è
maggiore infelicità. La conquista dell'arduo vero coincide con il
massimo di disaffezione vitale. E' la dialettica della siepe nell'Infinito,
la dialettica contraddittoria del Dialogo di Torquato Tasso e del
suo Genio familiare, di tante pagine dello Zibaldone: è
la poetica leopardiana nelle sue ragioni letterarie più profonde.
Oggi noi contemporanei possiamo utilmente interrogarci su queste
frontiere: quali saranno i futuri capitoli della storia del genere
umano? Siamo forse già all'ultimo, come vorrebbe qualcuno? Siamo al
penultimo? La terra si è fatta terribilmente piccola rispetto ai
tempi di Leopardi; la scienza sembra non avere più limiti, l'uomo
talora presume di essere diventato onnipotente. E ciò nonostante,
non è più felice di una volta, sempre più soffre di una carenza
di illusioni, di motivazioni, di valori. Gli ambitissimi risultati
della conoscenza potrebbero essere proprio quelli che lo condurranno
alla distruzione, ossia all'autodistruzione, in un ciclo perfetto e
perverso. O forse non siamo all’inizio di un nuovo, imprevedibile
e affascinante ciclo?
Sull’ultima spiaggia, Leopardi invoca il mito di Amore, figliolo
di Venere Celeste. Nella Ginestra auspica la nascita di una
nuova confederazione dell'esistente, che si organizzi “negli
alterni perigli e nelle angosce/ Della guerra comune”. Si potranno
tarare variamente queste formule, secondo le mobili esigenze del
problematismo postmoderno. Ma il suo vero messaggio, deserto o no,
è il fiore stesso della poesia che ci ha dato, quel valore creativo
che è entrato in una cultura e in una civiltà, sino a diventarne
un simbolo. Questa musicale Cassandra non è un personaggio della
guerra di Troia, con le sue domande e il suo canto ci può aiutare a
dare meglio le nostre risposte negli itinerari che dobbiamo
percorrere.
Sergio Campailla
NOTE BIOGRAFICHE
Sergio Campailla, nato a Genova da famiglia siciliana il 24 novembre
1945, è uno degli studiosi, saggisti e scrittori più prestigiosi
della cultura italiana contemporanea.
E’ professore ordinario di Letteratura Italiana nell’Università
di Roma Tre (dal 1980 ordinario all’Università di Genova; dal
1985 all’Università La Sapienza di Roma); è inoltre professore a
contratto presso il prestigioso Istituto Universitario Suor Orsola
Benincasa di Napoli.
E’ stato per un triennio il rappresentante dell’Italia nel
Premio Letterario Europeo Aristeion della Comunità Europea a
Bruxelles, nominato dal Ministero per i Beni Culturali d’intesa
con il Ministero degli Esteri.
E’ uno degli Amici della Domenica, votante al Premio Strega e
presiede la Giuria del Premio Internazionale Città di Ostia, che si
tiene nel Teatro Romano di Ostia Antica.
Come critico e saggista, ha pubblicato, tra gli altri volumi: A
ferri corti con la vita. Biografia di Carlo Michelstaedter (1974),
La vocazione di Tristano (1977), Anatomie verghiane
(1978), Scrittori giuliani (1980), Mal di luna e d’altro
(1986).
Per l’editore Garzanti ha pubblicato L’Illusione (1987)
di Federico De Roberto.
Per l’editore Mondadori ha firmato l’Introduzione alla Fontana
di Lorena (1993) di Carlo Sgorlon. Per l’editore Newton
Compton ha introdotto e curato i 16 volumi di Emilio Salgari del Ciclo
di Sandokan (1994-1995) e del Ciclo dei Corsari (1996); e
inoltre i grandi romanzi: L’Illusione; I Viceré; L’Imperio
di Federico De Roberto (1994); Le avventure di Tom Sawyer di
Mark Twain (1995); le edizioni di Giovanni Verga, La Lupa e altre
novelle di sesso e di sangue (1996), I Malavoglia (1997),
Mastro Don Gesualdo (1999).
Con la sua attività saggistica ha vinto i Premi Svevo, Giovanni
Verga, Città di Messina, Latina.
Dopo la scoperta assoluta e la pubblicazione dell’Opera Grafica
e pittorica di Carlo Michelstaedter (Istituto per gli Incontri
Culturali Mitteleuropei, 1975), ha curato le seguenti Mostre: “Testimonianza
per Carlo Michelstaedter”, a Palazzo Attems di Gorizia (1975) e
“Il grande postumo” al PAC di Milano (1982).
Come scrittore, è salito alla ribalta con Il paradiso terrestre (Milano,
Rusconi, 1988).
Nel 1990 Campailla ha dato alle stampe la raccolta di novelle Voglia
di volare (editore Rusconi). Recensendo il libro sul Sole 24
Ore, Ermanno Paccagnini ha scritto che Campailla “si è subito
segnalato come voce non solo nuova ma di certo peso nel quadro di
una narrativa che pare aver rinunciato al grande affresco” (4
febbraio 1990); e su Il Mattino del 27 febbraio Michele Prisco lo ha
definito “una delle poche certezze della nostra attuale narrativa”.
Nel 1992 è uscito Domani domani, sempre presso l’editore
Rusconi, un romanzo che ritorna alle proporzioni generose e ai ritmi
de Il paradiso terrestre.
Nell’aprile 1994 è uscito il Romanzo americano (Rusconi
editore) e la plaquette Il carnevale della luna e altri racconti,
Roma, Edizioni Nuova Cultura.
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