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Storia, meditare prima dell'uso



Antonio Carioti




Giovanni De Luna, La passione e la ragione - Fonti e metodi dello storico contemporaneo, 292 pp., La Nuova Italia, 2001, lire 39.000.
Paolo Mieli Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo, 383 pp., Rizzoli 2001, Lire 33.000.

Fa sempre impressione confrontare i quotidiani italiani e quelli stranieri. Un'occhiata superficiale basta per accorgersi che, a cominciare dai titoli, la nostra informazione risulta molto più gridata, sensazionalistica, drammatizzata. In particolare la politica è raffigurata come una commedia infinita, fatta di continui colpi di scena, e sembra avere per oggetto quasi esclusivo la sorte personale dei diversi leader, piuttosto che il governo della cosa pubblica.

Si può discutere a lungo sulle ragioni del fenomeno: lo si può addebitare alla disarticolazione del nostro sistema democratico, oppure alla formula ambigua che caratterizza i giornali italiani più diffusi, tutti a metà strada tra il quotidiano colto e quello popolare. Certo è che, partendo dalle pagine dell'attualità, l'informazione spettacolo ha da tempo invaso anche le sezioni culturali, specie articoli e servizi di argomento storico.

Proprio l'uso pubblico, o politico, della storia, è tra gli argomenti principali di due libri appena usciti, entrambi interessanti, pubblicati da due marchi diversi dello stesso gruppo editoriale (Rizzoli e La Nuova Italia, entrambi Rcs), ma contenenti tesi diametralmente opposte.

L'ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli ha raccolto nel volume Storia e politica i suoi lunghi articoli domenicali sulla Stampa, che sono un buon esempio di come si possano affrontare i temi del passato, in sede giornalistica, mantenendo elevato il livello della trattazione: il suo bersaglio polemico principale è la cultura di sinistra, accusata di intolleranza verso ogni interpretazione storiografica eterodossa rispetto ai canoni codificati del progressismo.

Sull'altro lato della barricata si colloca Giovanni De Luna, studioso dell'antifascismo e specialista del Partito d'Azione, che nel saggio La passione e la ragione, dedicato al mestiere dello storico contemporaneo, sferra un duro attacco agli autori che tendono a sminuire il valore dell'antifascismo, visti come fiancheggiatori culturali di un progetto volto a delegittimare le basi solidaristiche della Costituzione repubblicana e a smantellare lo Stato sociale.

Malgrado l'asprezza estrema della polemica, viene da pensare che, almeno su un punto, Mieli e De Luna, abbiano ragione entrambi, nel senso che denunciano vizi assai radicati, da ciascuno dei due attribuiti allo schieramento che si considera più lontano da sé, ma in realtà diffusi quasi universalmente nei mass media.

Questo almeno suggerisce lo spettacolo che purtroppo la stampa, di destra e di sinistra, offre fin troppo spesso, con la storia non solo piegata alle convenienze politiche, ma confezionata secondo la logica dell'effimero giornalistico, come un romanzo d'appendice che ad ogni puntata cerca di tenere il lettore incollato con sempre nuovi artifici. Non è per nulla difficile fare un rapido elenco dei meccanismi che scattano, a questo proposito, con impressionante regolarità.

Si pensi al modo in cui alla storiografia viene applicato il criterio del pregiudizio ideologico, spesso sulla base di stereotipi ormai in gran parte svuotati di contenuto. E' sufficiente richiamare una certa formula perché l'allineamento delle posizioni avvenga in modo automatico, secondo una logica di appartenenza dai caratteri quasi tribali.

Un esempio significativo è la parola "revisionista": basta pronunciarla perché gli uni si levino il cappello in segno di ossequio e gli altri si calino l'elmetto per caricare a baionetta inastata. A destra quel vocabolo è sinonimo di autore coraggioso e originale, che rompe gli schemi dell'ortodossia politicizzata per affermare scomode verità. A sinistra "revisionista" suona all'incirca come un insulto: evoca la figura di uno spregiudicato manipolatore, che adultera la memoria del passato per agevolare oscuri interessi di potere.

Un'altra tipica distorsione è la ricerca ossessiva dello scoop, della rivelazione sconvolgente, spesso più immaginaria che reale. Si pensi al clamore suscitato da Roberto Gualtieri, un giovane studioso dell'Istituto Gramsci, quando ha osservato che la famosa intervista con cui Enrico Berlinguer dichiarava di sentirsi più sicuro dietro lo scudo della Nato, nel giugno del 1976, non costituì un atto di rottura con Mosca, che all'epoca puntava alla distensione con l'Occidente. Subito l'Unità" ha enfatizzato tutto al massimo, scrivendo che la mossa del segretario comunista era stata concordata con il Cremlino. E poi la stampa di destra si è sentita autorizzata a trarne l'arbitraria conclusione che lo strappo tra Botteghe Oscure e l'Urss fu sostanzialmente una finzione, una commedia per i gonzi. Non solo la tesi sostenuta da Gualtieri ne è uscita stravolta, ma un processo storico complesso e laborioso è stato ridotto a materia per titoli strillati, come se si trattasse di un delitto passionale.

Collegata alla mania del colpo a sensazione, troviamo quella del tabù infranto. Per richiamare l'attenzione su un libro o su una testimonianza, l'ideale è conferirgli il crisma della profanazione sacrilega. Ogni volta una coltre di silenzio viene squarciata, un muro di omertà viene abbattuto. E magari inizialmente c'è del vero, ma poi il ritornello si ripete un po' troppo spesso, sempre sullo stesso argomento, fino a sconfinare nel luogo comune.

Per citare un episodio recente, si è parlato di fine della reticenza sulla vicenda della Rsi a proposito del libro in cui lo storico Roberto Vivarelli, nell'anno di grazia 2000, ha raccontato la sua esperienza di giovanissima recluta di Salò. Eppure era il 1986 quando l'ex repubblichino Carlo Mazzantini pubblicò da Mondadori un bel romanzo autobiografico, A cercar la bella morte. Nel frattempo lo stesso Mazzantini ha sfornato altri due volumi, di cui uno -C'eravamo tanto odiati- insieme all'ex partigiano Rosario Bentivegna; una casa editrice certo non nostalgica, il Saggiatore, ha dato alle stampe le memorie sulla Rsi del fascista incallito Giorgio Pisanò; un reduce delle Brigate nere, Piero Sebastiani, ha fatto uscire presso Mursia due libri di ricordi, il secondo dei quali corredato da una presentazione di Giampaolo Pansa; Luciano Violante ha reso apertamente omaggio ai "ragazzi di Salò"; la radio pubblica ha mandato in onda varie puntate di una trasmissione, Le voci dei vinti, dedicata a quegli stessi ragazzi. Tutto ciò senza contare le numerose opere di studiosi dedicate alla repubblica di Mussolini. Gridare ancora oggi al tabù caduto appare quanto meno una forzatura.

Il caso Vivarelli offre peraltro il destro per evidenziare un'altra cattiva abitudine, consistente nel fare il processo alle intenzioni di chi si occupa di storia contemporanea, imputandogli secondi fini politici.

Lascia stupefatti a tal proposito l'attacco rivolto a Paolo Mieli da un commentatore solitamente equilibrato come Mario Pirani, che l'ha accusato di aver dato rilievo alle memorie di Vivarelli (in un articolo riprodotto nel volume citato all'inizio) per favorire l'ascesa di Gianfranco Fini alla vicepresidenza del Consiglio. A parte il fatto che già un esponente di An, Pinuccio Tatarella, aveva ricoperto quella carica nel 1994, giova ricordare che nello stesso anno era stato proprio il fondatore del quotidiano su cui scrive Pirani, Eugenio Scalfari, a giudicare lo "sdoganamento" dei postfascisti "un merito storico" di Silvio Berlusconi.

Anche quando non sfocia in eccessi di faziosità, l'adattamento del discorso sulla storia alle convenienze contingenti produce spesso confusione, soprattutto quando si basa su un uso disinvolto dei paragoni. Un caso eloquente è l'equiparazione tra foibe e sterminio degli ebrei, riproposta di continuo da destra per parificare gli orrori.

Eppure dovrebbe essere chiara la differenza tra un genocidio razziale perpetrato a freddo e massacri riconducibili a un conflitto tra due nazionalismi, italiano e slavo, che a un certo punto assunsero i volti totalitari del fascismo e del comunismo. Alle stragi compiute dai partigiani di Tito in Venezia Giulia, sloveni e croati possono legittimamente contrapporre le atrocità commesse dalle truppe italiane nelle loro terre, rimaste impunite quanto i crimini delle foibe. Nulla del genere possono obiettare i tedeschi nei riguardi degli ebrei.

Naturalmente la tendenza a fare della storia uno strumento di polemica spicciola raggiunge il culmine in periodo elettorale, quando la vittoria degli uni o degli altri assume le sembianze di un evento salvifico o di una catastrofe nazionale, a seconda dei punti di vista. E' davvero sconsolante constatare come lo spirito di parte, in circostanze del genere, induca anche persone di grande intelligenza a dare il peggio di sé.

Rattrista vedere Giorgio Bocca, che circa vent'anni fa scrisse Mussolini socialfascista, un libro alieno da qualsiasi demonizzazione, contenente giudizi spregiudicati sulla comune radice antiborghese di socialismo e fascismo, abbandonarsi a invettive scomposte contro i "pidocchi revisionisti", accusati di voler azzerare la memoria della lotta partigiana per instaurare "la dittatura morbida del mercato".

Sul versante opposto la musica è identica. Non stupisce troppo l'ansia di espungere la "resistenza" (con l'iniziale rigorosamente minuscola) dalla storia d'Italia manifestata da Gianni Baget Bozzo, uomo di fervida fede. Ma lascia interdetti che anche l'arguto e disincantato Sergio Ricossa sia caduto nella tentazione di presentare il successo della Casa delle libertà come la prima vittoria moderata "dopo 125 anni di prevalenza sinistroide", iniziati a partire "dal 1876, l'anno in cui cadde la destra storica".

Nessuno comunque batte Berlusconi, secondo cui il voto del 13 maggio 2001 sarebbe stato un evento unico nel suo genere, in quanto non era mai accaduto che i comunisti perdessero il potere in seguito a libere elezioni: un'affermazione che, tralasciando ogni altro commento, suona offensiva verso i popoli che hanno davvero sofferto sotto i regimi totalitari del blocco sovietico.

Con questi chiari di luna da una parte e dall'altra, non sarà facile instaurare un rapporto meno nevrotico con il nostro passato. Ma recuperare il senso della misura, meditando prima di avventarsi nell'uso pubblico della storia, potrebbe già essere un primo passo nella giusta direzione.

 

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