L’ignoranza
Francesco Roat
Milan Kundera, L’ignoranza, Adelphi, pp.184, L.28.000
E’ una forma di ignorance assai particolare quella di cui
tratta l’ultimo romanzo di Kundera redatto in francese: lingua d’elezione
dello scrittore ceco. I due protagonisti del libro, esuli entrambi
da anni, “ignorano” come sia profondamente mutato il loro Paese
d’origine, ma avvertono anche un vago senso di malinconia per la
loro Praga lontana. Soffrono dunque di añoranza - per dirla
in spagnolo - che viene dal verbo añorar: provare
nostalgia; termine quest’ultimo di derivazione greca.
Una felice accoppiata delle parole nóstos (ritorno) e
álgos (sofferenza). Irena e Josef patiscono quindi il trauma d’un
dolore ineffabile: l’impossibilità di riavere la natìa Itaca
perduta. Per loro, infatti, non ci sarà nóstos, rimpatrio,
ad onta di esso. Non avranno modo di ritrovare la città della loro
giovinezza, affettivamente lontana anni luce dalla Praga in cui i
due ex conoscenti si ritrovano per puro caso dopo anni di lontananza
(l’uno risiede in Danimarca, l’altra in Francia).

Così è la “difficoltà del ritorno” a caratterizzare i due
personaggi chiave di questa anti-odissea. L’unico tratto che li
accomuna è il non provare l’appagamento di Ulisse nella
restaurazione del proprio status e degli antichi affetti. Anzi il
tentativo che essi fanno di far nascere una relazione
sentimental-erotica tra loro (o rinascere: una scintilla che poteva
preludere ad un amore era pur scoccata nei cuori degli adolescenti
Irena e Josef) si rivelerà fallimentare.
Ma non solo: all’interno di questa coppia anomala il travisamento
è massimo sin dall’inizio. Quando si (ri)incontrano, lui in
realtà non ricorda chi sia lei, ma dissimula per non imbarazzarla;
solo la donna lo riconosce per davvero. Comunque il passato - pare
dirci Kundera - non resuscita, essendo difficile persino che i
ricordi corrispondano a ciò che realmente si è vissuto e patito,
poiché la memoria è ingannevole o tende all’entropia, al
disordine, alla rimozione e infine all’oblio.
Per questo, titolo più azzeccato rispetto a tale prosa così
sofferta e profonda sarebbe forse non già l’ignoranza o la
nostalgia bensì l’addio, in quanto tutto il romanzo dell’esule
Kundera è permeato da un’ininterrotta teoria di addii, di congedi
i quali, tuttavia, (come ogni cesura, ogni distacco autentici)
lasciano nell’animo un’impronta indelebile che non è
necessariamente traccia cosciente, ma cifra paradigmatica d’un
comune orizzonte esistenziale all’insegna del venir meno. Quindi l’esilio,
l’impossibile ritorno, i ricordi che sbiadiscono, l’amore che
abortisce, il paesaggio mutato - insieme fisico e antropologico -,
la conta dei cari deceduti durante l’assenza dalla Boemia; scenari
tutti che rimandano alla perdita per eccellenza: la morte.
Non a caso una delle pagine più intense del romanzo ci narra,
attraverso un flash back, la commovente devozione di Josef per le
spoglie della moglie morta, che però rivive in lui non già nei
ricordi (qui, va ribadito, essi si cancellano, risultando sempre
equivoci, mendaci, a falsare la realtà del vissuto) ma nel
reiterarsi quotidiano d’un addio straniante che pare destinato a
non avere mai fine. Come permane nella cifra del congedo l’incontro
amoroso tra i due protagonisti (“questo convegno erotico è l’ultimo”)
e la stessa urgenza del darsi l’uno all’altra “quasi volessero
condensare in un solo pomeriggio tutto ciò che hanno perduto e
perderanno”.
Ma la serie di commiati che scandiscono i brevi capitoli de L’ignoranza
non rappresenta il declinarsi melanconico o regressivo della
nostalgia quindi l’esilio, ma l’incessante memento/monito
che la vita è ogni giorno un esilio da quello precedente e che per
non smarrirsi (o illudersi, come Irena) occorre dimorare nella
consapevolezza del limite. Per questo, nonostante possa apparire
venato di pessimismo o rinuncia, questo romanzo scritto da un autore
giunto alla soglia della vecchiaia, è semmai sostenuto da una pietas
profonda che ben si coniuga al pacato disincanto con cui Kundera
guarda alle passioni dei suoi sempre memorabili personaggi.
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