Canti del caos
Francesco Roat
Antonio Moresco, Canti del Caos, Feltrinelli, pagine393, L.33.000
Ha un incipit a tutta prima autoironico l’ultimo romanzo di
Antonio Moresco, presentandoci uno scrittore il quale “si è messo
in testa di scrivere un capolavoro”. Ma poiché è lo stesso
Moresco a celarsi dietro la maschera stralunata di tale pretenzioso
protagonista (soprannominato nel testo “il Matto”), come
chiarisce la confessione da parte di questi d’aver scritto Gli
esordi, detta dichiarazione d’intenti smarrisce subito la sua
valenza ilaro/dissacratoria.

Tutto ciò al di là dell’atmosfera straniante che accompagna ogni
dissertazione sul significato della letteratura tra i personaggi
chiave del libro, ossia il Matto e il Gatto, (emblematica figura di
grande Editore, attento solo al mercato). Insomma in Canti del
Caos, Moresco/il Matto si prende terribilmente sul serio e
anziché cedere alle richieste dell’Editore di confezionare un
romanzo usa e getta “da leggere con il telecomando in mano” e
“la cuffia del walkman sulle orecchie”, egli, rivelandosi assai
più scaltro del Gatto, finge d’assecondare i gusti bassi del suo
committente attraverso una storia solo all’apparenza trash,
ma in realtà, ci narra con una scrittura ustionante e
suggestivamente visionaria i gironi d’un inferno metropolitano all’insegna
di mercificazione, volgarità, cinismo, sfruttamento, ossessioni
sessuali, miserie e violenze d’ogni tipo.
Tuttavia in questi Canti, a seguito d’una precisa
scelta stilistica, molto, anzi troppo del Caos descritto
appare sopra le righe, suona eccessivo, provocatorio quanto si vuole
ma votato ad una trasgressività ostinatamente esibita, sia pure a
fini espressivi, di testimonianza, pedagogici o catartici che siano.
Ne risulta una prosa sovraccarica di esacerbazioni e forzature,
anche lessicali, la cui reiterazione - sebbene voluta per rimarcare
una colloquialità stereotipata - alla fin fine trascolora nel
banale (dopo varie pagine ho smesso di contare quante volte appaiono
le parole fica e cazzo).
Sembra, insomma, prevalga il vezzo di epatér le bourgeois;
vedi i nomi più che allusivi di taluni personaggi femminili, come
Ditalina e Pompina, o vedi l’episodio del prete assatanato che
mette una foto porno nel tabernacolo accanto alle ostie consacrate.
E ancor più spiace l’autoreferenzialità autocompiaciuta di
Moresco, che per bocca del Gatto rimprovera l’autore per la sua
uscita blasfema, perché finisce che poi: “Non ti mettono mica
nelle antologie, nelle enciclopedie!”.
Quindi, più che rappresentare un capolavoro, questo testo variegato
senza una trama vera e propria ma caleidoscopico per mille e una
storia, mi sembra un collage di notevoli esercizi di stile d’uno
sperimentalismo che rischia di essere fine a se stesso, vuoi per l’attenzione
spasmodica alla forma, che tradisce l’ansia di essere orginale ad
ogni costo, vuoi per la coazione a stupire, scioccare colpendo al
basso ventre il lettore, col risultato di stancarlo (è lungo ben
393 pagine il libro, e siamo solo alla prima parte dei Canti,
come avverte il risvolto di copertina) nella prolissa
reiterazione/variazione di scene erotico-demenziali. Così
nonostante lo scialo di immagini truci e l’orgia di masturbazioni,
erezioni, copulazioni, il Caos - o, in altri termini, la
complessità - si riduce al mondo ristretto d’una compulsività
sessuale prevedibile ad onta del teatro surreale sui cui bizzarri
fondali essa viene recitata.
Bisogna dire però che, quando l’insistenza su “quella roba
così distruttiva” viene meno, come nel Canto del ginecologo
spastico (medico curante delle più infime prostitute) e prevale
un controllo - verrebbe da dire un’autenticità - maggiore, la
scrittura di Moresco si fa davvero intensa. Qui la pagina, pur
sempre assai cruda intorno ad un set pornografico, è talmente -
coscientemente - estrema non solo da risultare paradossalmente
pudica, ma (sia detto senza retorica alcuna) commovente, ossia forte
di una pietas che sospinge il lettore all’empatia per la
sofferenza di quella umanità ridotta a merce; per quella “carne
straziata, macellata, che non si sa neanche da dove viene, dove va,
non si deve sapere, scompare senza lasciare traccia”. Perché una
cosa è scontata: Moresco è autore di straordinaria capacità
espressiva; su questo nemmeno si discute. E forse ciò che nuoce ai Canti
del Caos è appena l’ipertrofia, l’insistenza monotematica,
l’eccedenza d’eccesso.
Si accennava, all’inizio, ad un possibile capolavoro, che fino ad
ora (ma siamo solo alla prima parte dell’opera) non mi sembra
tale. Se dovessi suggerire fraternamente a Moresco un consiglio per
il prosieguo dei Canti, gli direi di guardare ad uno dei suoi
primi scritti, La cipolla, testo breve ma pregnante, lucido,
essenziale ed a sicura tenuta di lettore. Quel romanzo - sino ad ora
- è, a mio parere, il suo capolavoro.
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