Mussolini, un dittatore per le masse
Alessandro Campi con Antonio Carioti
Quando citava “Quelli che... "Mussolini è dentro di
noi!"” nella sua canzone Quelli che..., Enzo Jannacci
voleva probabilmente riferirsi a certi inguaribili nostalgici del
ventennio fascista. Ma basta fare un salto in edicola o in libreria
per accorgersi che la figura del duce colpisce ancora la fantasia di
un pubblico ben più vasto. Dai saggi impegnativi agli articoli
pettegoli, dalle videocassette ai Cd Rom: a mezzo secolo dalla
morte, il focoso romagnolo resta il personaggio storico più
gettonato in tutte le salse.
Proprio al rapporto tra il fondatore del fascismo e l'identità
italiana è dedicato il libro Mussolini (il Mulino), appena
pubblicato da Alessandro Campi, ricercatore dell'Università di
Perugia e direttore editoriale della casa editrice Ideazione, al
quale ci siamo rivolti per approfondire la questione.

“Nel corso del Novecento - osserva Campi -
Mussolini è stato l’uomo politico italiano che più di altri si
è radicato nell’immaginario, privato e pubblico, degli italiani.
Ma ciò non è avvenuto, come spesso si sospettava, solo grazie alla
propaganda martellante del regime, che ha imposto per un ventennio
una sorta di culto religioso del duce. In realtà, tale radicamento
ha avuto cause e motivazioni più profonde, d’ordine storico,
culturale e sociale. Mussolini ha intercettato la sensibilità e gli
umori profondi del Paese in una fase delicatissima della storia di
quest’ultimo, coincisa con l’inizio di un profondo processo di
trasformazione socio-culturale. Con il fascismo egli ha incanalato
politicamente gli umori di molti italiani, interpretandone le
ambizioni e le aspirazioni sulla base di un intreccio, rivelatosi
politicamente e culturalmente vincente, di tradizione e modernità,
di culto del passato e di spinte innovative e persino
ultramodernizzanti”.
Ha avuto un peso, in questo fenomeno, anche la personalità
straripante del duce?
Non c'è dubbio. Basta pensare alla sua particolarissima vicenda
umana e politica. La sua provenienza popolare, la sua smania di
protagonismo e la sua voglia di ascendere socialmente, le sue
esperienze da emigrante: indubbiamente sono tutti fattori che lo
hanno reso particolarmente vicino al modo d’essere e di sentire
della maggioranza degli italiani dell’epoca, alla ricerca anch’essi,
nel marasma del dopoguerra, di uno status più avanzato, di una
diversa collocazione sociale, simbolica e materiale.
Però Mussolini fa audience anche oggi, richiama l'attenzione di
un pubblico molto lontano dalla cultura della prima metà del
Novecento.
Infatti quello che ho detto finora spiega solo in parte ciò che nel
libro ho definito, sulla scia di De Felice, il "romanzo di
Benito", fiorito soprattutto nel secondo dopoguerra. Questa
continua attenzione, per certi versi finanche morbosa, alla sua
figura a distanza di oltre cinquant’anni dalla morte è in effetti
curiosa, anche perché ha poco a che vedere con il nostalgismo
politico o con il rischio di un ritorno di fiamma del fascismo.
Ciò che nel dopoguerra ha più attirato l’attenzione degli
italiani è stato infatti il Mussolini privato, divenuto quasi il
protagonista di un interminabile romanzo popolare. Probabilmente
ciò è dipeso dai ritardi con cui la storiografia ha fatto i conti
con Mussolini e con la sua creatura politica. Il posto della storia
è stato inevitabilmente occupato dagli scoop sulle sue amanti e sui
figliastri, dalle biografie più o meno romanzate, dalle
rievocazioni di chi lo ha conosciuto più o meno direttamente, dalle
inchieste sulla sua morte e sulla sua conversione, dal commercio di
souvenir e paccottiglia varia.
Avrà mai termine il "romanzo"?
Personalmente, credo che ci sia un solo modo per porre fine a questa
vera e propria banalizzazione della figura mussoliniana e consiste
nell’affrontare quest’ultima su un piano rigorosamente
storico-politico, evitando cioè di perpetuare letture come quelle
che in Mussolini hanno visto ora un interprete sublime del carattere
nazionale ora una vera e propria fatalità della storia italiana.
Mussolini è stato, innanzitutto, un politico rivoluzionario, l’inventore
del fascismo e un dittatore carismatico. L’enigma mussoliniano va
sciolto sul piano della storia politica e della storia delle
ideologie non sul piano del costume e delle sensibilità popolari.
Mussolini arcitaliano, Mussolini antitaliano: due immagini
contrapposte e speculari. Perché lo giudica un falso dilemma?
Più che un falso dilemma lo giudico un curioso gioco di specchi,
peraltro fuorviante ai fini di una corretta e articolata
comprensione della parabola politica mussoliniana. Coloro che in
Mussolini hanno visto chi un arcitaliano (cioè una perfetta
incarnazione del modo di essere e di sentire degli italiani) chi un
antitaliano (vale a dire la negazione dell’italianità) hanno
avuto in comune molto spesso un’idea moralistica elitaria e
pedagogica della politica e della storia, soprattutto hanno sovente
condiviso una valutazione negativa e critica nei confronti della
tradizione storica del Paese e nei confronti degli italiani,
giudicati come culturalmente arretrati, poco amanti della libertà e
delle leggi, sostanzialmente incapaci di autogovernarsi.
A chi si riferisce?
Nel libro ho messo a confronto le posizioni di autori come Gobetti,
Prezzolini, Malaparte e Rosselli, mostrando come, pur nella
diversità del loro giudizio etico-politico su Mussolini, fossero
tutti convinti che quest’ultimo potesse essere compreso solo nel
contesto della secolare tradizione storico-culturale italiana. In
realtà, la lettura in chiave di "italianità" mi pare
riduttiva rispetto a un personaggio e a un fenomeno che sono nati in
Italia, ma hanno avuto una straordinaria capacità di irradiazione e
di suggestione su scala perlomeno europea.
Nel suo libro definisce Mussolini “il vero "democratizzatore"
della società italiana”. Malgrado le virgolette, può sembrare un
giudizio scandaloso o paradossale. Vuole spiegarcene il senso?
Sono partito, senza alcun desiderio di apparire provocatorio o
scandaloso, dalla distinzione, familiare ai sociologi della
politica, tra "democrazia" e
"democratizzazione". L’Italia pre-fascista,
politicamente parlando, era un regime liberale-oligarchico. La gran
massa degli italiani sentiva lo Stato come lontano ed estraneo,
percepiva la classe politica al potere come composta da notabili del
tutto staccati dal sentire comune di un popolo in larga parte
contadino, povero e analfabeta, che sentiva le proprie appartenenze
locali e regionali, ma non quella a un’unica comunità nazionale
La "grande guerra" ha rappresentato, come si sa, una prima
occasione di "nazionalizzazione delle masse". Mussolini -
che è stato un tipico dittatore populista - ha continuato e
completato quest’opera di nazionalizzazione, naturalmente con le
forme proprie di un regime illiberale e autocratico. Gli italiani
hanno conosciuto la politica di massa (come tale tendenzialmente
egualitaria e livellatrice), lo Stato e i suoi apparati, la
partecipazione alla dimensione pubblico-statuale proprio attraverso
la partecipazione forzata alle istituzioni del regime: da quelle di
tipo ricreativo a quelle sportive, da quelle scolastiche a quelle
sindacali.
Tutto ciò non può suonare come un giudizio di valore
implicitamente positivo, è semplicemente un fatto accaduto in quei
vent’anni circa, che ha appunto significato la democratizzazione
della società italiana, vale a dire la creazione di un sentire
comune, di un costume politico condiviso, di un sentimento di
appartenenza.
In che senso si può dire che il duce fu un rivoluzionario anche
oltre il 1920?
Prima di rispondere, occorre intendersi sul significato del termine
"rivoluzione" e, conseguentemente, sul significato dell’aggettivo
"rivoluzionario". Dopo la crisi del comunismo
internazionale, l’idea di "rivoluzione" ha perso la sua
aura virtuosa, la sua connotazione emancipativa e storicamente
"progressiva".
Si è quindi compreso che essere rivoluzionari non significa
necessariamente stare dalla parte del bene, del progresso e dell’umanità.
La rivoluzione è una tecnica, una dinamica sociale, non un’idea
morale. Mussolini è stato un rivoluzionario in virtù della sua
formazione, dei metodi di lotta che ha utilizzato, degli obiettivi
politici che si è posto e che ha conseguito, del modello politico
che ha realizzato, dell’ideologia che ha professato.
Insomma, in questa definizione non c'è alcun risvolto di
riabilitazione del personaggio.
Assegnare al duce una patente da "rivoluzionario",
considerarlo un’espressione di quella "cultura della
rivoluzione" che per oltre un secolo ha segnato in profondità
la storia europea, non significa, ancora una volta, concedergli
attenuanti storiche o conferirgli un blasone. Significa, molto
semplicemente, prendere atto di come anch’egli - alla stregua di
ogni altro rivoluzionario del Novecento - abbia pensato, attraverso
la politica e l’ideologia, di poter cambiare il mondo e la storia
e di poter forgiare addirittura un’umanità nuova. Come tutti i
rivoluzionari, ha tragicamente fallito.

C'è chi sostiene che il fascismo fu
totalitario e chi lo considera invece un regime semplicemente
autoritario. Come mai lei propende per la prima tesi?
La scienza politica storico-comparativa - penso ad esempio a
Juan Linz e alla sua scuola - ha spiegato bene quali siano le
differenze di fondo, strutturali e funzionali, tra i regimi
autoritari e quelli totalitari: quali siano, per capirci, le
differenze tra esperienze come quelle portoghese e spagnola
(ascrivibili appunto al tipo autoritario) ed esperienze come quella
tedesca (un totalitarismo da manuale). Il fascismo italiano è stato
spesso considerato una forma ibrida, che, viste alcune
caratteristiche del regime, era comunque più vicina alla forma
autoritaria che a quella totalitaria.
Ma le tipizzazioni peccano talvolta di rigidità e di un eccesso di
formalismo e rischiano di non dare conto della dinamica propria di
ogni singola struttura politica. E’ vero, come spesso si è detto,
che il regime fascista ha dovuto fare i conti con poteri consolidati
come la Chiesa e la Corona, che ne hanno limitato la spinta
assolutizzante. Ma è anche vero che a partire dal 1936 la
fascistizzazione della società italiana in tutti i suoi ambiti è
proceduta egualmente a ritmo incalzante, secondo la natura
intrinsecamente totalitaria e rivoluzionaria propria del fascismo
sin dal suo esordio.
Eppure anche Hannah Arendt, autrice di un'opera fondamentale sul
totalitarismo, colloca il fascismo tra i regimi autoritari,
sottolineando che in Italia non vi furono repressioni di massa né
lager.
Nelle scelte decisive - la partecipazione alla guerra di Spagna, l’avventura
africana, l’alleanza con i nazisti, il varo della legislazione
antisemitica, l’inquadramento militare dell’intera società
italiana, l’entrata in guerra nel giugno del 1940, il controllo
degli apparati culturali e propagandistici - il fascismo ha sempre
obbedito a un disegno politico di tipo totalitario, teso cioè -
come dice giustamente Emilio Gentile, le cui posizioni condivido
largamente - alla politicizzazione e alla sacralizzazione di ogni
ambito della sfera sociale. L’Italia fascista non ha conosciuto le
purghe staliniane o il terrore interno, non ha vissuto le
eliminazioni di massa degli avversari politici e il fanatismo
ideologico (di classe o di razza), ma ciò non basta, secondo me, a
ridurne la portata ideologicamente totalitaria.
Nel suo libro insiste molto sul legame tra il fascismo e la “cultura
della guerra di massa”. Vogliamo approfondire questo punto?
Sul nesso storico-genetico tra prima guerra mondiale e fascismo
nessuno nutre più dubbi. Tra gli studiosi di un certo peso, l’unico
a non giudicare decisivo tale nesso ai fini della nascita del
fascismo è Zeev Sternhell, ma ciò si comprende considerando la sua
particolare prospettiva metodologica e il suo peculiare punto di
vista spostato sul versante della storia delle idee. In realtà,
senza le convulsioni - economiche, sociali, psicologiche - prodotte
dal primo conflitto mondiale il fascismo come movimento politico
organizzato (non dunque come semplice sensibilità
intellettuale) non sarebbe mai nato. Ma limitare il discorso su
guerra e fascismo a un semplice rapporto di causa-effetto mi sembra
limitante.
In che senso?
Se si studiano con attenzione le biografie di tutti i capi e
dirigenti fascisti, se si leggono con attenzione i loro scritti e
proclami, se si osserva da presso il loro stile di vita, il loro
modo di atteggiarsi, di concepire la lotta politica, ci si accorge
di quale presa - sul piano esistenziale e antropologico - abbia
avuto la cultura della guerra di massa.
Metaforicamente, la guerra ha giocato un ruolo decisivo nell’elaborazione
della cultura del fascismo. Dalla guerra ha tratto idee-forza,
slogan, stilemi, suggestioni estetiche, modelli di organizzazione,
strumenti di lotta politica. Il linguaggio del fascismo è stato
dedotto in gran parte dal mondo militare e bellico, che a sua volta
è stato trasformato, agli inizi del Novecento, dalla realtà della
tecnica e dall’avvento delle ideologie di massa.
Era dunque inevitabile che l'Italia mussoliniana intervenisse al
fianco di Hitler?
Dal punto di vista storico-analitico è facile mostrare quanto la
scelta mussoliniana sia maturata in maniera graduale e
contraddittoria. De Felice inorridirebbe a sentire parlare, come io
ho fatto, di necessità o di fatalismo a proposito del crescente
impegno militare voluto da Mussolini.
Ciò non toglie che nel modo d’essere e di sentire di quest’ultimo
e della gran parte dei capi fascisti la guerra rappresentasse una
palestra di vita, uno stile di esistenza, un campo di prova
individuale e collettivo. Se non "l’igiene del mondo",
come volevano i futuristi, sicuramente qualcosa di fisiologico e
normale, con la quale gli individui e i popoli devono cimentarsi
prima o poi.
Per Mussolini, la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla
donna. Probabilmente, l’essenza metapolitica del fascismo sta
proprio in questa visione tragica dell’esistenza, in questa
esaltazione della guerra come ideale di vita. E’ una chiave di
lettura sulla quale mi piacerebbe lavorare.
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