Orme del sacro
Francesco Roat
Sulle tracce, anzi sulle Orme del sacro (Feltrinelli) è
incentrata l’indagine di Umberto Galimberti, allo scopo di
decifrarne la presenza che, nonostante l’enfasi del Giubileo, il
proliferare di sempre nuove sette religiose o le variegate
manifestazioni della spiritualità New Age, a detta dell’autore
sembra assai più apparente che reale in questo nostro mondo laico,
dove l’ultima dea rimasta è la tecnologia. Ma Galimberti non
stenta solo a scorgere le tracce del sacro all’avvio del terzo
millennio dalla nascita del fondatore della religione maggiormente
diffusa in Occidente; egli ritiene altresì che lo stesso
cristianesimo sia una credenza la quale “ha dato avvio a quella
progressiva desacralizzazione del sacro” destinata a sfociare nel
disincanto che ormai caratterizzerebbe l’uomo contemporaneo.
Già l’incarnazione da parte di Dio attraverso Cristo rappresenta,
secondo Galimberti, una prima forma di congedo dal sacro - termine
indoeuropeo che significa “separato”, del tutto altro
rispetto all’umanità e al mondo - ossia da “quella
indecifrabilità da cui gli uomini, dopo essersene separati, hanno
avvertito come loro sfondo di provenienza e tenuto lontano, fuori
dalla loro comunità, nel mondo degli dèi, che per questo vengono
prima degli uomini”. Invece, con la venuta di Cristo - è la
provocatoria tesi sostenuta nel testo - verrebbe meno l’ambito
indistinto, mitologico, prelogico e simbolico proprio della
dimensione sacrale, sorta di fondo abissale non culturalizzabile o mysterium
tremendum (per dirla con una felice espressione di Rudolf Otto)
che insieme attrae e atterrisce.

Così col farsi uomo da parte del Figlio, al tradizionale tempo
ciclico ed eterno, scandito dal sempre uguale ripetersi di
nascite-vite-morti, si sostituirebbe il tempo lineare ed
escatologico (dal greco eschaton: ultimo, finale) cioè
destinato e mirante a concludersi nell’ultimo giorno con la
resurrezione dei morti e la salvezza dei probi. Ma la fede nell’incarnazione,
che inaugura un’etica secondo la quale l’amore per il prossimo
è la cifra di quello per Dio, secondo Galimberti era fatalmente
destinata a tramutarsi in umanesimo dove Dio è ormai metafora dell’uomo.
Da qui alla morte di Dio proclamata da Nietzsche, ovvero a un mondo
di creature che del creatore possono fare a meno, il passo è breve.
Infine, con l’escatologia cristiana che inaugura un senso: una
finalità precisa al tempo, nasce la storia come l’ha intesa l’Occidente
a partire da duemila anni fa. Quindi, abolito il cosmo greco al cui
interno l’uomo era mortale come gli altri animali, s’inaugura l’hominis
aevum: l’età dell’uomo destinata a concludersi
ottimisticamente nella redenzione. Ed anche quando nell’età
moderna e contemporanea la “salvezza” ha via via smarrito l’antico
significato religioso che la sosteneva, resta pur sempre la fiducia
nel progresso, la fede nel miglioramento crescente e inarrestabile
dell’umanità, ovunque sia essa riposta: ieri nella ragione
illuministica o nel socialismo marxista, oggi nella scienza e nella
tecnica.
Così, per Galimberti la proliferazione delle sette religiose e
della New Age, pur costituendo una specie di contraltare della
secolarizzazione, non indica un ritorno alla religione bensì “una
sfida al cristianesimo” come religione “storica”, in quanto
essa assume storia e tempo profano come “fattori di salvezza”.
Sfida e concorrenza riguardo alla gestione del sacro che le varie
Chiese - in primis quella cattolica - con le gabbie di tutti i loro
culti, precetti e comandamenti non sarebbero più in grado di
sostenere, limitandosi invece a interessarsi di morale, di “contraccezione,
di aborto, divorzio, di scuola pubblica e privata”. Ancora una
volta, dunque, più che di risveglio spirituale si potrebbe forse
meglio parlare della ricerca di senso rispetto alla propria vita ed
all’esistere in generale, portata avanti attraverso un
atteggiamento tra il mistico, l’ecologico e il sincretistico, dove
spesso una ripulsa antitecnologica si sposa alla pratica delle più
svariate tecniche psicosomatiche e ad una diffusa sensibilità/esteticità
dai tratti orientaleggianti.
Resta che quanto maggiormente colpisce nel testo di Galimberti è la
reiterata polemica nei confronti del cristianesimo. Critica, a mio
avviso, in gran parte ripresa da Nietzsche e da Karl Löwith,
soprattutto nella sottolineatura di come la fede nell’immortalità
ci faccia dimenticare la nostra comune condizione di mortali, ben
diversamente da come accadeva in antico; ad esempio presso i greci,
per i quali il peccato più grave era la hybris, la
tracotanza di voler superare il proprio limite imposto dalla natura.
Confine che sia il cristiano sia l’uomo secolarizzato aborrono
nella fiduciosa speranza in un’immortalità ultramondana, il
primo, terrena e tecnologica, il secondo, lusingato dal sogno (dall’incubo)
di fermare o prolungare indeterminatamente la vecchiaia. Sogno o
sonno della ragione che rischia di generare mostri, però, e da cui
si può svegliare giusto attraverso la coscienza del limite.
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