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L'Harem e l'Occidente



Francesco Roat




L’harem - l’alloggio dove tradizionalmente erano confinate le donne, nei palazzi islamici - per l’immaginario maschile occidentale ha sempre rappresentato una sorta di mitico luogo orgiastico: teatro di lussuria e mollezze dove inscenare le fantasie sessuali più sfrenate. Quando ci raffiguriamo un harem, infatti, è difficile non pensare ai quadri erotizzanti di Ingres, Delacroix o Matisse, coi loro ritratti di odalische o concubine offerte in pose lascive all’occhio voyeuristico dell’osservatore.

Eppure “il paradiso pornografico appare un’aspettativa totalmente insensata in un harem musulmano”, sostiene la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, che in un harem è nata e quell’ambito culturale conosce assi bene, non solo per esperienza: la Mernissi è nota a livello internazionale per i suoi studi di sociologa, impegnata da anni in una pacifica battaglia quotidiana contro ogni estremismo integralista e a sostegno di una visione pluralistica della società e del mondo islamico, taluni aspetti del quale risultano purtroppo ancora oggi misconosciuti da gran parte della gente in Europa.

Perciò L’Harem e l’Occidente - l’ultimo libro della Mernissi proposto da Giunti ai lettori italiani - non solo è stato scritto con l’intento di contrastare lo stereotipo "harem uguale covo di libidine e facili piaceri", ma soprattutto per analizzare come tale cliché sia nato. Come da noi si sia venuta a creare un’immagine tanto soft e sexy di questi ginecei “sempre densamente popolati, dove tutti controllano tutti”, in una convivenza coatta all’insegna dell’assoluta mancanza di privacy, e in cui “perfino le coppie sposate hanno difficoltà a trovare un posto dove accarezzarsi vicendevolmente”. Luoghi costantemente saturi di gelosie, frustrazioni e intrighi. Persino macabri, anzi, se al loro interno vennero avvelenati alcuni califfi, strozzati o affogati dalle loro favorite.

Così, per capire come mai la fantasia d’Occidente abbia potuto trasformare in bordelli i serragli musulmani, queste assai poco allettanti prigioni nemmen troppo dorate entro cui le mogli venivano costrette da mariti/padroni alla fin fine timorosi delle loro donne, la Mernissi analizza specialmente l’arte figurativa europea intorno all’harem. In primis quella di Ingres, forse il pittore maggiormente ossessionato dall’immagine fantasmatica e irreale di alcove orientali abitate da schiave e odalische “disperatamente passive”, in tutta la loro vulnerabile nudità. Ed è in questo logoro archetipo del desiderio maschile occidentale - tutto giocato sul binomio passività/vulnerabilità, il quale vorrebbe la femmina reificata a docile oggetto inerte ed afasico da manipolare a piacere - che, per la Mernissi, sta la chiave di lettura della distorsione/trasfigurazione di cui è stato fatto oggetto l’harem.

Ma l’aspetto più interessante su come si declinino difformemente, a seconda delle culture, le opzioni del desiderio erotico da parte degli uomini, sta nel fatto che secondo la studiosa marocchina questa bramosia sessuale nei confronti di donne passive e oziose non esiste né è mai esistita in Oriente. Le amanti più agognate sono piuttosto “le potenti Altre, dotate di volontà propria, portatrici di una serie di bisogni e obiettivi diversi”, poiché nell’immaginario collettivo dei signori dell’harem amare è “imparare a superare la linea di confine, per raccogliere la sfida della differenza”.

Pertanto non è una statica bambola discinta quella che desidererebbe un Sultano, ma una Shàhràzàd in grado di eccitare, prima ancora dei sensi, la mente del proprio signore con la sua intelligenza e la sua arguzia. O una Nur Giahan, la mitica regina che non solo gareggiava coi suoi cavalieri nella caccia alle tigri, ma era al contempo scaltra diplomatica e figura di spicco sulla scena culturale del suo tempo (sec. XVII). Insomma, questi padroni dell’harem prediligevano partner colte, argute, amanti delle arti e delle lettere, in quanto venire “intellettualmente sfidati dalle donne dava agli uomini un brivido sensuale”.

Un aspetto però ha da sempre accomunato desideri e propositi maschili, sia ad Est che ad Ovest: ottenere comunque la soggezione delle femmine, vuoi attraverso il serraglio d’Oriente o il velo caro agli Ayatollah, vuoi grazie all’impalpabile ma ferrea legge occidentale del dovere apparir belle. Imperativo categorico che ancora oggi costringe quanto e più di un harem le donne ad un’alienazione simbolica - per dirla con Bourdieu - che le fa esistere solo per e attraverso lo sguardo altrui. Ancora e sempre quello dell’uomo, ovviamente, satrapo o meno che sia.

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