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La nostalgia dello spazio



Antonio Gnoli con Tina Cosmai



La nostalgia dello spazio (Bompiani), il saggio-intervista di Antonio Gnoli con Bruce Chatwin, nasce da un'esperienza personale dell'autore: "Ho conosciuto Chatwin nel 1982. Lo intervistai contemporaneamente all’uscita del suo libro In Patagonia. Allora non era molto conosciuto qui in Italia e il direttore del giornale presso cui lavoravo mi chiese soltanto trenta righe; preferii non farne nulla e ho conservato l’intervista tra le mie cose.

Ora però, con questo suo denso libriccino, Gnoli dà voce al grande "nomade", entra nella tessitura del suo mito di scrittore per accentuarne i caratteri lucenti, per descrivere l’intensità di una vita in cui l’azione si fonde con la prosa, in cui viaggiare, conoscere, aprirsi ad un luogo e accoglierlo nella sua forza simbolica e vitale, significa anche scriverne.


Lo spazio è una dimensione predisposta al movimento, al cammino, che per Chatwin significa ricercare la propria origine, la propria essenza. Non il passaggio da un luogo all’altro quindi, un viaggiare non per descrivere i luoghi visitati, ma per ritrovare una dimensione umana più autentica.

Parliamone con l’autore, Antonio Gnoli. "Questo libro esile, piccolo, non vuole essere l’ennesima biografia di Chatwin: ne esistono già tre, di cui una che considero definitiva, quella di Nicholas Shakespeare, e che conta circa ottocento pagine. Questo perché la vita di Chatwin, che è stata una vita leggendaria, si presta al racconto. Ma si è tralasciato secondo me, tutto l’aspetto letterario, aspetto che può emergere soltanto quando si riesce ad entrare dentro il culto del personaggio. Questo mio libro ne è un tentativo. Ho cercato di guardare Chatwin da dentro, attraverso una sorta di agenda fatta per frammenti. La sua vita è stata un continuo mutamento e la sua essenzialità non si può esprimere facendone un affresco, ma soltanto aggredendola per frammenti."

Quella di Chatwin è un prosa del movimento. La passione dell'autore era viaggiare per conoscere. In che modo le due cose si completano?

Sono inestricabili. Chatwin non si riteneva assolutamente uno scrittore di viaggi, un travel writer, figura molto radicata nella cultura anglosassone: colui che parte, visita un luogo, poi lo descrive. Chatwin rifiutava questa categoria, si sentiva uno scrittore a tutti gli effetti. Il suo rapporto con il viaggio era di empatia con la scrittura. Scrivere e viaggiare sono due modi diversi di dare forma al movimento: ciò significa tornare a un’idea originaria che in qualche misura la società ha perduto. E’ un’idea vagamente antropologica: all’origine l’uomo è movimento, è cammino, è transumanza, è nomadismo, dimensioni che progressivamente si perdono a vantaggio di un’idea di staticità. Quindi viaggio e scrittura sono due forme diverse ma complementari, di una maniera dell'autore di rapportarsi con il mondo.

Chatwin accoglie i luoghi senza preconcetti, in tutta la loro forza simbolica. Nei suoi scritti c’è sempre un’attesa di ciò che un luogo può comunicarci…

Infatti, Chatwin non ha una relazione di dominio con il luogo, relazione che è invece tipica del viaggiatore occidentale: trasferirsi in un luogo per impossessarsene - un legame perverso, perché toglie il gusto di andare, di scoprire. Chatwin ribalta questa relazione; non è più il viaggiatore che domina il luogo, ma il luogo che domina, o meglio, si dà al viaggiatore, creando una curiosa osmosi fra i due. Ed è proprio questo il senso dello spazio di Chatwin, che è soprattutto un senso d’origine.

L’interesse, e la passione anche, di Chatwin per il nomadismo, è ciò che lei definisce “la scienza dell’aria”, cioè il conoscere, lo scoprire/si per giungere al significato essenziale di se stessi e della vita?

Più che una scelta di vita il nomadismo fu, per Chatwin, una forma di intelligenza, cioè un modo di percepire le cose. Prima di diventare scrittore, Chatwin pensava di ricostruire il mondo impalpabile del nomadismo e ha scritto sette-ottocento pagine, ricavandone una materia assolutamente indigesta. Per una ragione evidente: Chatwin non era in grado di scrivere qualcosa che non fosse il prolungamento del suo gesto e del suo modo di essere estetico. Tutto ciò che era accademico era destinato al naufragio, al fallimento. Lui, come lo definì una volta Rushdie, col quale fece dei viaggi in Australia, era un gipsy scholar, uno zingaro erudito. E’ una definizione secondo me molto bella e calzante, che indica quanta resistenza ci fosse in Chatwin alla dimensione benpensante dell’accademia e dell’università.

Qual è secondo Chatwin il confine di una terra?

Per Chatwin non c’è un confine vero. Il confine esiste nella misura in cui si può abbattere, attraversare. Perché confine significa mettere delle barriere, creare delle giurisdizioni, elementi verso cui Chatwin ha una vera e propria idiosincrasia: secondo lui, bisogna attraversare i luoghi da volatile. In questo senso il nomadismo è la scienza dell’aria, cioè la capacità di prendere il volo.

Chatwin definisce il camminare come azione primaria di conoscenza, cioè come la possibilità di ritrovare il significato del proprio agire nel mondo…

Il camminare è un atto fisiologico che manifesta il bisogno originario dell’uomo di proiettarsi fuori, di essere all’esterno. Chatwin identifica una condizione ideale in cui l’individuo si trova con se stesso e con il proprio bisogno di fuga. L’uomo non è contenuto dentro uno spazio, ma crea spazio, e lo fa grazie all’azione primaria di camminare, che è la modalità, tra tutte le forme di viaggio, che Chatwin predilige.

Questa filosofia dell’azione si oppone a quello che lei definisce “senso di profonda autostima che l’Occidente ha di se stesso”?

Sì, perché il luogo che l’Occidente predilige è un luogo oppositivo, di contrasti. E il contrasto primario è quello con le civiltà barbariche. Credo che Chatwin, con le sue opere, abbia voluto dimostrare che il mondo non ha bisogno dell’aggressività, cioè di quel gesto fondativo e violento che è alla base di ogni civiltà. Questo lo avvicina al pensiero di Rousseau, perché in entrambi vi è l'idea che in fondo l’uomo non è di per sé un’entità corrotta, ma profondamente positiva. E’ bellissima la teoria che Chatwin ha del fuoco. Egli ribalta l’idea antropologica del fuoco come strumento della tecnica che serve per distruggere e sopravvivere. Il fuoco, secondo Chatwin, è invece un elemento di comunione tra gli uomini: una socievolezza non coatta, né ipocrita, ma innata.


Allora cos’è per Chatwin, la civiltà, e qual è il suo senso morale?

Chatwin non ha una grande opinione delle civiltà così come si sono costituite. Nella sua opera Le Vie Dei Canti, immagina questa terra come un enorme spartito, dove il destino degli uomini è segnato dal destino del canto, che è qualcosa che non si percepisce fisicamente, ma che esiste. E’ questa un’idea assolutamente mitica di una società fondata non sull’atto della vendetta o della violenza, ma sull’atto dell’amore, dell’istintualità sana. Ed è questa l’unica morale possibile per Chatwin.

Credo che in Chatwin ci sia un forte sentimento dell’alterità e quindi un riconoscere attento del diverso. In questo contesto la separazione dai suoi luoghi di provenienza, Londra e l’Occidente, che valore assume?

C’è stata una certa inclinazione a considerare Chatwin un viaggiatore esotico. Si viaggia per tornare, e il ritorno si carica di un’importanza e di una forza anche simbolica e culturale. Chatwin torna a Londra, nella sua casa, dove tutto è essenziale, e i suoi punti di riferimento sono pochissimi, in particolare la London Library della quale è socio, e dove torna ogni volta dopo i suoi viaggi per completare la sua vita errabonda con le letture più incredibili e disordinate, e i suoi taccuini. Anche quelli sono un prolungamento della mano e del pensiero. Sono queste le cose che per Chatwin contano e attraverso le quali arricchisce se stesso e gli altri.

Come nasce Chatwin scrittore? Nel tuo libro hai parlato di alcune condizioni che gli furono necessarie per diventarlo.

Tra i valori dell’Occidente non v’è certo l’inoperosità. Chatwin invece la concepisce come condizione indispensabile, per poter cominciare a pensare e dunque a scrivere. Per questo terminò il suo rapporto con la Sotheby’s, la famosa casa d’aste dove aveva avuto una brillantissima carriera. Lo fece seguendo un disagio interiore; capiva che doveva viaggiare e proiettarsi verso qualcosa che non aveva niente a che vedere con l’universo che fino a quel momento aveva conosciuto e frequentato. Ripeto, Chatwin non viaggiava con lo scopo di esotizzare un luogo o un’esperienza. Il senso del viaggio per lui dondolava tra l’andare e il ritornare.

Il sentimento della nostalgia è vitale in Chatwin. Sembrerebbe un paradosso ma non lo è, perché?

Perché in Chatwin anche la nostalgia è un sentimento scarsamente occidentale. Non gli interessa il rimpianto della cosa perduta, perché nulla si perde, tutto è sempre nel presente e questo è un altro elemento scarsamente visibile nella cultura occidentale. Chatwin vuol vivere nel presente, lo si capisce dal suo stile immediato, senza ombre. Egli lavora sulla luce, il che conferma che in lui non v’è un passato e un futuro, ma soltanto un presente. Chatwin è uno di quei pochi esempi in cui l’idea di eterno ritorno assume un senso narrativo.

Chatwin si definisce uno scrittore irrequieto, ma non inquieto. Qual è la differenza?

E' un concetto che trovo molto acuto. L’inquietudine è uno stato psicologico che non ha nulla a che vedere con il tempo, ma con la trasformazione interiore dell’individuo. Per questo Chatwin afferma che l’inquietudine appartiene ai poeti. Mentre l’irrequietezza è un bisogno, il bisogno di muoversi, che “colpisce” i bambini e i viaggiatori.

Chatwin nascose di avere l’aids, affermando invece di aver contratto una malattia rara. Lei lo ha definito un gesto estetico, perché?

La sua fu una vicenda drammatica, arrivò al punto di non poter più camminare. Vorrei dire, citando Elias Canetti, che l’aids impone l’idea che non sia l’individuo ad ammalarsi, ma la società. Per Chatwin, ammettere di aver contratto l’aids significava non soltanto rendere pubblica la propria omosessualità, rispetto alla quale ha sempre avuto un rapporto fortemente conflittuale, ma soprattutto perdere la propria individualità. Essere oggetto del contagio, secondo lui, equivaleva a diventare un’entità anonima; dire di aver contratto una malattia rara significava invece costruire una narrazione, una dimensione estetica.

Chatwin l'ha emozionata?

Sì, e alcuni suoi scritti lasciano intravedere l’autenticità di cui quest’uomo era portatore. Trovo che il suo ultimo romanzo, Utz, sia una delle sue opere più belle, perché breve e compiuta. E’ lì che si avverte esattamente il senso della sua leggerezza. Mi hanno emozionato i suoi scritti sulla Russia, ad esempio il racconto della sua gita in battello sul Volga, che sono di una bellezza incredibile. Chatwin aveva il dono di apprendere dagli scrittori e, in questo caso, dalla letteratura russa: Gogol, Cechov. Era dotato di una forte capacità di assimilazione. Le Vie Dei Canti invece è il libro della malattia, intriso di sofferenza, quello cui fino all’ultimo Chatwin non sa che forma dare.



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