Detti e fatti dei Padri del deserto
Francesco Roat
Frastornati come siamo da un’incessante profluvio di messaggi,
informazioni e chiacchiere, bombardati da una miriade di stimoli
visivi ed auditivi, fatichiamo non poco anche solo ad immaginare una
dimensione esistenziale all’insegna dell’assoluto silenzio e del
distacco dal frastuono del mondo, come quella compendiata nei Detti
e fatti dei Padri del deserto: opera di altissima spiritualità
- un vero e proprio trattato di mistica cristiana - recentemente
riproposta ai lettori italiani da Bompiani in un’edizione a cura
di Cristina Campo e Piero Draghi.
Ma chi erano questi Padri, anzi questi monaci, fossero essi cenobiti
(intenti a trascorrere quasi tutto il loro tempo nella cella di un
qualche monastero) o anacoreti (ritiratisi nel deserto da soli o con
un discepolo), sempre e comunque votati all’eremìa: alla vita di
meditazione e preghiera nella solitudine? Una nutrita serie di
antichi maestri contemplativi cristiani, i quali testimoniarono una
singolare esperienza religiosa, portata avanti - come ricorda
Cristina Campo nella dottissima introduzione al volume - dal II
secolo al VI dopo Cristo in romitaggi o eremi dei deserti d’Egitto,
Siria, Palestina.

Laggiù si erano dunque ritirati i Padri, in una sorta di volontario
esilio (xenìteia) per tentare di raggiungere la perfetta apàtheia,
la santa impassibilità, praticando l’orazione ininterrotta e il
silenzio: quel vuoto soprattutto interiore - peraltro
irraggiungibile senza quello esteriore - che consentirebbe al divino
di fare irruzione nell’anima e di colmarla.
Paradossali appaiono in questa prospettiva i “detti” di tali
padri; in quanto essi poco o nulla dicevano. E il poco che
confratelli, discepoli o supplici riuscivano a strappare loro erano
parole sommamente allusive, criptiche, provocatorie, o semmai moniti
assai difficili da praticare. Spesso le sentenze dei padri erano
ardue da intendere o servivano a loro volta da spunto per la
meditazione; come la celebre frase attribuita all’abate Mosè: “Tutto
quello che può pensare un uomo su quanto è sotto il cielo e su
quanto è sopra il cielo, è inutile”. O come la lapidaria
risposta dell’abate Felix a chi gli aveva chiesto almeno una
parola di saggezza: “Ora non vi sono più parole”. Affermazioni
entrambe antidiscorsive, che ricordano molto da vicino la celebre
frase del Tao Tê Ching: “Colui che sa non parla. Colui che parla
non sa”.
Ed è proprio la presa di distanza dalla parola - cui i Padri
ricorrono con parsimonia estrema, utilizzandola quale mero
espediente o strumento per stimolare al silenzio, alla preghiera
incessante o meditativa i confratelli - la sfiducia nel lógos che
avvicina questi maestri della spiritualità cristiana ai mistici d’oriente;
a tutt’altri monaci, vedi quelli Zen, che in modo analogo agli
eremiti del deserto usavano sconcertare gli adepti con asserzioni
all’apparenza contraddittorie o assurde, per stimolarli ad andare
oltre la mente e la ragione.
Come nel caso di quel Padre, il quale, richiesto d’un parere
rispetto alla convenienza o meno di andare a trovare gli anziani
piuttosto che rimanersene in cella, così rispose: “Regola dei
padri antichi era visitare gli anziani, i quali giustamente
ordinavano di rimanere in cella”. Solo contemplazione e quiete,
allora? Limitare a questo l’esperienza dei monaci del deserto
sarebbe riduttivo, in quanto nei cenobi si praticava comunque la
regola dell’ora et labora, della preghiera coniugata ad una
attività manuale che predisponeva all’umiltà e al servizio
caritatevole.
Certo, a tutt’oggi le più datate prescrizioni dei Padri non
appaiono più condivisibili. Prima fra tutte una irriducibile
misoginia - qui la donna, rappresentando per l’uomo la tentazione
della carne, va sempre tenuta lontana - e l’ossessione per tutto
ciò che concerne la sfera sessuale. Del resto, come l’abate
Agheras aveva previsto fin d’allora, per le generazioni future:
“Non c’è più deserto, ormai”.
Che fare quindi? Il suggerimento dell’eremita è, al solito,
paradossale e straniante. “Va’ dunque in un luogo popoloso, nel
mezzo della folla, restaci e conduci te stesso come un uomo che non
esiste. Avrai così il sovrano riposo”. Nel superamento dell’individualismo
e nella condivisione c’è, forse, una speranza di salute anche per
noi.
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