La forza del carattere
Francesco Roat
Invecchiare non è un malaugurato accidente da deprecare ma una “necessità
della condizione umana”. Questa la considerazione che apre il
saggio di James Hillman, La forza del carattere (Adelphi),
inteso a riconsiderare in modo anticonformista la senilità. La
nostra vita infatti, volenti o nolenti, per dirsi compiuta deve
attraversare il periodo senile: fase esistenziale oggi talmente
aborrita da venir chiamata con scaltro eufemismo (o esorcismo) terza
età. Solo a nominarla la parola vecchiaia inquieta e deprime,
essendo divenuta “la paura maggiore di tutta una generazione”.
Ma allora, si/ci chiede Hillman, riflettendo sul fatto che la vita
umana dura così a lungo dopo l’età feconda e nonostante il
deterioramento funzionale di vari organi, qual è il senso, lo scopo
dell’invecchiare e soprattutto, dal punto di vista biologico, a
cosa mai serve questo apparentemente improduttivo protrarsi dei
giorni? Non sarà che il nostro carattere ha proprio bisogno di un’età
avanzata per giungere alla sua piena maturazione?

Per capire il significato della senescenza si tratterebbe, insomma,
di psicologizzare la vecchiaia, interrogandosi su come mai gli
ultimi anni dell’esistenza assumono certe caratteristiche
peculiari, le quali non equivalgono solo a una serie sempre maggiore
di acciacchi e handicap - anche perché forse il male peggiore della
terza età è l’idea fuorviante che ne abbiamo. Non va
dimenticato, a tale proposito, come l’aspirazione sottesa a tante
ricerche cliniche sull’invecchiamento sia quella di debellarlo,
quasi fosse in sé un dato patologico o, quanto meno, di rinviarlo a
tempo indeterminato, sulla base dell’assunto: senilità uguale
decadimento ed exitus.
Bisogna piuttosto, sostiene Hillman, rompere una volta per tutte col
legame indissolubile vecchiaia/morte, così radicato nell’immaginario
collettivo di noi postmoderni (come se la vita a tutte le età - e
un tempo soprattutto quella infantile - non fosse sempre minacciata
dal rischio del venir meno) quando, invece, invecchiando “io
rivelo più carattere, non più morte”.
Ma forse la provocazione maggiore del breviario di questo eretico
psicoterapeuta di formazione junghiana sta nella denunzia nei
confronti di una società all’insegna dell’efficienza che relega
l’età senile nell’ambito dell’invalidità, non riuscendo
neppure più ad immaginare un ruolo per essa al di fuori dell’angustia
di un utile quale lo intende il produttivismo esasperato. Questo j’accuse
non sottintende tuttavia alcun rimpianto regressivo verso una
qualche improbabile età dell’oro in cui i vecchi erano tenuti in
gran conto ed elargivano accortamente ai nipoti perle di saggezza.
Anzi, Hillman ha ben presente quali siano gli squilibri e gli
aspetti caratteriali negativi di certi vecchi “scomposti,
intemperanti, capricciosi” e il suo saggio non pecca certo di
buonismo o retorica; semmai stigmatizza l’inautenticità di quelle
donne e quegli uomini attempati che, ripudiando la loro realtà
fisiologica, indossano - aiutati dalla chirurgia estetica - la
maschera patetica dei senza età.
No, la Forza del carattere è un testo che sa essere
impietoso quando, nella seconda parte, parla della necessità di “lasciare”:
di accettare la perdita e abbandonare la presa rispetto all’impossibilità
di mantenere in eterno efficienti quelle facoltà che (come la
memoria a breve termine) col passare dei decenni vanno fatalmente
deteriorandosi. Ancora una volta: non si tratta di “tenere duro”
a oltranza o peggio ancora di illudersi di arrestare l’invecchiamento
ma semmai, paradossalmente, di assecondarlo col non opporsi ai suoi
mutamenti fisiologici. Vien ribadito, quindi, il tema dell’arte di
invecchiare mediante il compimento di sé attraverso l’intelligenza
del proprio carattere che “non può completarsi negli anni
giovanili”, come vorrebbe una pedagogia superficiale.
Un carattere (chiamiamolo, se preferiamo, identità, struttura
integrativa) segnato dall’autenticità, in grado di far risaltare
in noi “ciò che è unico”: lo stile di vita al di là d’ogni
standard o moralismo, in altri termini. Un carattere che, giunto al
suo più maturo compimento, è promessa di un’impronta destinata a
lasciar traccia a testimonianza di noi oltre la morte e la
finitudine - presso chi rimane - in una “immagine” che resta e
dura.
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