Lo stesso mare
Francesco Roat
“Lo stesso mare”, del noto romanziere e saggista israeliano Amos
Oz (Feltrinelli), è un libro suggestivo ma difficile. Dico libro
poiché si tratta d’un testo davvero eterogeneo, insieme romanzo (ma
non certo tradizionale, essendo senza vera propria trama o sviluppo),
poema in versi (tuttavia in quest’opera è arduo distinguere la
prosa dalla poesia, risultando ogni frase - ogni strofa - lirica,
metaforica, evocativa), diario a più voci, ballata epica, scrittura
sperimentale stilisticamente innovatrice, infine riflessione su ciò
che nella vita affettiva più ferisce: la lontananza di una persona
amata, il suo disamore o la sua morte, che è lontananza estrema e
invalicabile. Difficile, dunque, ma allettante questo libro di Oz, che
impegna chi voglia attraversarlo a una lettura attenta a sfumature,
atmosfere e dettagli, insomma a quelle tracce che ne “Lo stesso mare”
costituiscono l’essenziale, il cammino, la narrazione stessa, la
meditazione riflessiva.

Vale quindi la pena misurarsi con queste pagine all’apparenza scarne
(quantunque assai pregnanti), con un incipit caratterizzato, a effetto
di straniamento, da una prosa algida e distaccata; talvolta ridotta
all’osso: a un elenco di parole martellanti e allusive. All’inizio,
infatti, non si dà un dipanarsi di storia alcuna: tutto è già
accaduto e insieme tutto ha ancora da accadere giacché la narrazione
non è destinata a procedere linearmente sebbene piuttosto per scarti,
flash back, sogni, visioni ed agnizioni. Nulla deve succedere in
quanto sta succedendo nel momento atemporale della scrittura/lettura.
Siamo quindi di fronte a un racconto senza fretta di dire, d’incalzare
il lettore verso la conclusione, anche perché non c’è vera fine in
questo testo all’insegna della vacuità e dell’attesa in funzione
di apertura nei confronti del qui e ora d’un evento improgrammabile
e imprevedibile come l’esistenza medesima.
C’è molto vuoto in questi capitoletti, anche visivamente. Molti
candidi spazi vuoti, larghi stacchi che inducono alla contemplazione
del singolo periodo, della singola parola. Non a caso uno dei
personaggi se n’è andato nel Tibet. In questo metaromanzo si
respira un’aria di filosofie orientali che aborrono la parola
saccente ed esaustiva preferendole quella simbolico/poetica che però
si fa ardita nel tentativo di dire l’indicibile (la sofferenza, l’amore).
Sebbene qui i simboli, se vi sono, vanno cercati fra le righe. Si
trovano invece molte immagini metaforiche e un lirismo pacato, cifra d’una
sobrietà stilistica che però sa accendere certe frasi, certe
descrizioni, in apparenza marginali, con un’intensità evocativa che
colpisce e commuove.
Ancora, essendo talmente varia la pedaliera espressiva del testo,
questa prosa/poesia assume un registro da salmista agnostico e nella
narrazione compaiono immagini che sembrano rubate dal Cantico dei
cantici (“gocciante mirra, il suo corpo è un flauto intriso di
soffice suono”). Altrove l’autore entra pure lui, di soppiatto,
nella storia mediante begli intarsi in cui Oz iscrive se stesso nella
sua scrittura. E, come presso gli altri protagonisti, “anche da lui
regna sovrana la confusione”. Sì, perché se un aspetto accomuna i
personaggi de “Lo stesso mare”, quello è l’essere sospesi e
attoniti nei confronti di eventi sconcertanti come l’innamoramento,
la perdita, l’abbandono, la morte.
Non intendo però volutamente approfondire i tratti o i casi dei vari
personaggi del libro. Dirò solo che ve ne sono di giovani e vecchi,
di vivi e morti che risorgono nei sogni. Solo che tutti, come ognuno
di noi lettori, devono misurarsi con la vita ed il suo venir meno,
attraverso il cimento narrato da “una storia così (…) in righe
sincopate quando non, a tratti, in strofa”. Quanto alla
dichiarazione d’intenti dello scrittore - giammai onnisciente
rispetto alla narrazione - il proposito è palese: “Chiamar le cose
con il loro nome o con un altro, che dia loro una luce nuova, oppure
getti, qua e là, un tratto d’ombra”. Senza la presunzione di
indicare una via, ma piuttosto nell’umiltà consapevole di come
tutto - dolore e gioia, perdita e acquisto - “sta più o meno appeso
al nulla”.
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