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 Encounters - New Art from Old


Daniela Mecozzi



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La quantità di riproduzioni di antichi e moderni capolavori su magliette e borse ha contribuito alla divulgazione dell’arte o almeno alla sua fruizione su larga scala; il museo invece mantiene il suo ruolo di contenitore dell’arte originale e, in quanto tale, è divenuto luogo di culto e meta di itinerari turistici che evocano i pellegrinaggi medievali. Al volgere del nuovo secolo, il museo si pone ancora come contenitore di una memoria collettiva rassicurante ma anche come luogo di confronto fra passato e presente.

Museo e dialogo con la storia sono i soggetti affrontati dalla mostra Encounters - New Art from Old in corso alla National Gallery (14 giugno-17 settembre 2000). Fondata nel 1824, sull’onda del successo dell’istituzione del primo museo nazionale, l’attuale Louvre (1793), la National Gallery ha permesso a successive generazioni di visitatori l’accesso a capolavori fino ad allora conservati in collezioni private e soprattutto ha consentito agli artisti inglesi di confrontarsi con grandi capolavori europei. 

Curata da Richard Morphet, Encounters ospita ventiquattro artisti europei e nordamericani nati tra il 1908 (Balthus) ed il 1952 (Francesco Clemente). Tra questi, vi sono scultori come Anthony Caro e Louise Bourgeois, pittori realisti come Lucien Freud e Paula Rego, astratti come Jasper Johns e Cy Twombly, fotografi come Jeff Wall e video artisti come Bill Viola. Ognuno di loro ha scelto di confrontarsi con un’opera appartenente alla collezione della National Gallery. Così si va da Duccio di Boninsegna a Monet, in una selezione che presenta almeno un’opera appartenente ai sei secoli d’arte conservati nel museo.

Encounters si snoda in un itinerario frammentato, costituito da cinque spazi espositivi su diversi livelli e in diverse ali del museo, il che obbliga il visitatore a percorrere interamente il museo e a confrontarsi con la sua collezione permanente.  Il risultato è quello di provocare un’iniziale irritazione per l’improvvisa interruzione della concentrazione. Tuttavia il risentimento che si prova dovendo distogliere lo sguardo dalle opere d’arte per consultare la pianta è di breve durata. Attraversando le sale, è impossibile non fermarsi, almeno per un attimo, a contemplare i capolavori di Mantegna, Caravaggio, Raffaello e Giorgione, che pensiamo di conoscere a fondo. In questo modo il visitatore è costretto non solo a rivalutare quello che considera il suo patrimonio culturale acquisito, ma anche a sperimentare la sorpresa sempre nuova suscitata dal confronto con le grandi opere d’arte. L’effetto di tale itinerario è quello dunque di creare una crescente intesa tra lo stato d’animo del visitatore e quello degli artisti moderni che si confrontano con le grandi opere del passato.

Una delle opere che riflette questo effetto è la serie di dodici ritratti di custodi della National Gallery eseguiti con tecnica mista dal pittore inglese David Hockney. Hockney prende come fonte d’ispirazione il ritratto di “ Jacques Marquet, Barone di Montbreton de Norvins” (1811) di Ingres, e come lui usa la camera lucida, uno strumento che proietta l’ombra del soggetto su carta e permette una definizione precisa dei contorni. Come il maestro francese, Hockney identifica i tratti psicologici nello sguardo e nelle mani, mentre la postura diviene semplicemente massa cromatica. La serialità dei ritratti dei sorveglianti, amplificata da una ripetizione di visi e mani ingranditi, contrasta con la monumentalità del ritratto di Ingres. Il privilegio di pochi è divenuto diritto di tutti nell’epoca moderna. Non solo. Ogni individuo è un potenziale soggetto, e la figura del custode di museo, presenza così scontata da divenire parte dell’arredo, riacquista una dimensione umana. Così, terminando la visione dei ritratti di Hockney, il visitatore istintivamente guarderà verso il custode per controllare se è uno di quelli ritratti.

Se l’opera di Hockney riassume così efficacemente le finalità di Encounters, il confronto fra altri artisti, quali Anthony Caro, Antoni Tàpies, Louise Bourgeois, Bill Viola e Stephen Cox, con l’arte dei maestri del passato, produce risultati non meno interessanti. Collocate, insieme con il trittico di Cy Twombly ispirato da Turner, nella Sunley Room, le opere di Caro e Tapies si confrontano rispettivamente con “L’Annunciazione” (1311) di Duccio da Boninsegna  e con “La Bagnante” ( 1654) di Rembrandt. Nelle sue tre sculture, “ Duccio Variation 1,2 and 3”, Caro isola gli elementi architettonici che mettono a fuoco gli elementi dinamici e la natura spirituale dell’incontro tra l’angelo e la Madonna nell’opera di Duccio.

Le sculture, cubi di acciaio e legno, ottone e metallo fuso, conservano la struttura spaziale dell’Annunciazione, con volte, aperture, livelli e volumi, invitando l’osservatore a interagire con uno spazio che, benché privato della presenza umana, rimane significante. A contrastare le geometrie di Caro è il grande “This is the Body” ispirato da Rembrandt. La corporeità del torso acefalo, genuflesso e presentato dal di dietro, è ottenuta grazie all’uso di polvere di marmo, vernice a spruzzo e olio. Il corpo è qui percepito come campo materico per la sperimentazione dell’uso di luce e ombra, di cui Rembrandt è maestro.

La monumentalità delle opere dei maestri moderni raggiunge ironicamente il culmine nelle gallerie sotterranee della National Gallery, dove si trovano contrapposte le opere di artisti appartenenti a generazioni diverse e  stilisticamente contrastanti. In queste tre sale, la monumentalità delle opere è l’unico elemento comune, il resto è puro contrasto: luce e ombra, dinamismo e staticità, geometria e fluidità di forme. Gli artisti sono l’americano Bill Viola maestro di video art, che si confronta con “ La Derisione di Cristo” (1490-1500) di Bosch; Louse Bourgeois, esponente e contemporanea del primo surrealismo, che ha scelto “ Alba attraverso il Vapore: Pescatori che Puliscono e Vendono il Pesce” (1807c.) di Turner; infine per Stephen Cox  c’è “La Natività”(1470-5) di Piero della Francesca.

“Quintet of the Astonished” di Viola occupa l’intera parete di una sala e presenta cinque attori affiancati, i cui movimenti ed espressioni sono ripresi in un tempo così rallentato da creare, almeno inizialmente, un disagio fisico nell’osservatore. Ripresi dal busto in su, i movimenti e le espressioni facciali dei cinque attori suggeriscono a volte un’interazione tra loro, una consequenzialità e quindi una dinamica simile, almeno in parte, a quella che ha luogo nell’opera di Bosh. Invece, a dispetto della composizione e dell’uso della luce, volti a costruire un’immagine arcaica, la storia è costantemente negata. La disperazione diventa gioia, il dolore serenità, l’odio amore, senza che vi siano una consequenzialità e una logica. Sono queste per Viola le dinamiche della vita reale. Eppure quest’immagine, che è realtà, viene abbandonata nella speranza che, come al cinema, ci venga proposto un felice epilogo per questo dramma umano.

Il passaggio al monolitico e statico tempio in marmo Bardiglio e porfido di Cox è, a confronto, almeno all’inizio, rassicurante. Esso riassume, come tempio e sarcofago, la vita di Cristo e, per estensione, dell’umanità. Su un lato, una fessura si apre fra due lastre di marmo lasciando intravedere il suo interno simbolizzante il mistero di nascita e morte.  Nascita e decadenza sono temi cari a Louise Bourgeois, che in quest’occasione si confronta, tra l’altro, con l’aspetto fenomenologico della luce. La sua installazione, “Cell XV (for Turner)” in ferro, alluminio, specchi, acqua e luce elettrica, propone una composizione familiare: l’uso di una gabbia, che in questo caso racchiude una fontana costituita da sezioni coniche connesse tra loro. Posta in una stanza buia, l’installazione vive di una vita autonoma data dalle variazioni di luci, dal rosso al blu, dalla loro moltiplicazione ad opera degli specchi che riflettono angoli inaspettati. Da gabbia che esclude lo spettatore, l’opera di Bourgeois diviene come una delle sue tele di ragno, un catalizzatore. Da statica e chiusa in sé, si apre inaspettatamente e acquista una vita autonoma.

A dispetto della scelta conservatrice degli artisti invitati e dell’intento dichiarato, almeno nel catalogo che l’accompagna, di definire il Ventesimo secolo, Encounters è una mostra che affascina e sorprende. Nel presentare non solo nuove opere ma anche nell’incoraggiare una rilettura della collezione permanente, riflette in maniera esemplare il ruolo del museo nell’epoca contemporanea.




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