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Un pittore di grido

 

Consolato Paolo Latella

 

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Tutti ricordiamo le matite colorate e gli album da disegno GIOTTO, con l’immagine di un giovane vestito da pastore "greco" mentre disegna e un signore nelle sembianze di un Dante con pizzetto che lo osserva compiaciuto; sul retro la breve ma veridica storia: «Angiolo di Bodone detto GIOTTO nacque nel 1267 presso Firenze da umili contadini. Un giorno, mentre tracciava sopra una pietra il disegno di una pecora, fu veduto dal famoso pittore Cimabue che, osservando la perfezione del disegno, intuì in quel fanciullo un artista. Lo portò seco a Firenze e gli fu maestro; in breve l’allievo superò il maestro e divenne un grande pittore, uno dei più grandi di tutti i tempi. L’arte sua ebbe una profonda forza innovatrice perché abbandonando le fredde forme tradizionali (bizantine - n.d.r. -), si ispirò alla realtà della vita e delle cose ed assunse una nuova e mirabile potenza di espressione».

Raramente un artista fu tanto celebrato già nella letteratura a lui contemporanea. Dante attorno al 1310 scrisse: "Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / si che la fama di colui è Scura" (Purgatorio XI, 94-96), tanto che le fonti dell’epoca sostengono una improbabile collaborazione tra i due per un affresco eseguito a Napoli. Boccaccio gli dedicò una novella nel Decameron, poi ripresa da Pier Paolo Pasolini - allievo dello storico d’arte Roberto Longhi - nel suo film Decameron (1971), arrivando a interpretare personalmente il personaggio di Giotto. Così continuando, nei più importanti scritti sull’arte dei secoli successivi - tutti rigorosamente di autori toscani, come Cennino Cennini, Ghiberti, Vasari - gli è sempre stato dedicato ampio spazio ed onore.

Ma perché Giotto è così famoso? Su questo sono quasi tutti d’accordo: fu lui a sganciare definitivamente l’arte dalle rigide regole della pittura bizantina, ieratica e bidimensionale, riconquistando la concretezza spaziale grazie a una tridimensionalità fondata sulla regola della prospettiva e reintroducendo l’uomo e la vita quotidiana, inventando in questo modo il nostro linguaggio figurativo. Ad essere onesti però, bisogna ricordare che già alcuni anni prima dell'esordio del pittore fiorentino anche gli scultori Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio avevano iniziato il recupero dell’arte antica riproponendone i modelli migliori, come pure livelli e soluzioni innovative furono raggiunte dal pittore romano Pietro Cavallini.

E’ proprio attorno al primato del rinnovamento dell'arte, quindi, che si concentrano i problemi della "questione giottesca". Di recente il compianto Federico Zeri con il restauratore Bruno Zanardi aveva risollevato la querelle, in realtà mai sopita, su chi fosse il vero autore degli affreschi nella Basilica di Assisi, dipinti negli ultimi anni del ‘200 con le Storie di S. Francesco, primo esempio compiuto della pittura moderna italiana. La questione è complicata perché certamente non fu un'opera eseguita da un solo pittore, ma da una bottega dove sotto la direzione di un maestro operarono diverse maestranze. Tutti riconoscono la disomogeneità di questi affreschi ma non riescono a mettersi d’accordo su chi sia stato il maestro, nonostante la fama di "capitano d’impresa" che Giotto dimostrò nei successivi interventi.

Probabilmente neanche la mostra "Giotto" aperta fino al 30 settembre alla Galleria dell’Accademia a Firenze risolverà la questione, anzi probabilmente la riattizzerà. Curata da Angelo Tartuferi, con il catalogo edito da Giunti, organizzata dalla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Firenze assieme all’Accademia e in collaborazione con Firenze Musei, la mostra ha ricevuto l’apporto di un comitato scientifico di alto livello (Luciano Bellosi, Giorgio Bonsanti, Miklòs Boskovist ed Everett Fahy). L’esposizione ha lo scopo ambizioso di riassumere gli ultimi cinquant’anni di studi su Giotto, a partire dalla mitica mostra di Firenze del 1937 dove vennero raccolte oltre duecento opere di ambito giottesco.

I tempi sono cambiati e la facilità di un tempo nel far muovere le opere ha lasciato posto ad un maggiore rigore nel conservarle. Ora sono presentate solo quaranta opere, di cui però alcune fondamentali come la Madonna col Bambino del museo di Santa Verdiana, che secondo Bellosi è la prova della formazione di Giotto nella bottega di Cimabue, oppure la Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa, la quale può essere la conferma che gli affreschi di Assisi furono eseguiti da Giotto, nonché l’unico disegno a lui attribuito, proveniente dal Louvre, e i pochissimi pezzi autografi che, curiosità, sono i più discussi. Guardando le altre opere in esposizione - frammenti di affreschi di Assisi caduti dopo il terremoto del 1997, affreschi mutili e tavolette non sempre in buono stato - non sembra un’esposizione rivolta al grande pubblico, ma agli addetti ai lavori, i quali potranno disquisire per ore sul ruolo dei pittori chiamati "Parente di Giotto" o "Maestro delle storie di Isacco", oppure stabilire se il primato è da assegnare alla pittura fiorentina o a quella romana. Certo è che l’incontro non è stato organizzato su un campo neutrale, ed è celebre il secolare orgoglio dei fiorentini!







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