| Omaggio a Nam June Paik 
 
 
 Riceviamo e pubblichiamo:
 
 Il 14 settembre ha aperto a Palazzo Cavour, in Via Cavour 8 a
            Torino, ha aperto al pubblico la mostra “Il giocoliere
            elettronico. Nam June Paik e l’invenzione della videoarte”
            ideata da Marisa Vescovo e curata da Lucio Cabutti per il video,
            Denis Curti per la fotografia e Marisa Vescovo per l’installazione
            e la pittura, con la collaborazione della Fondazione Italiana per la
            Fotografia e dell’Accademia Internazionale Arti e Media.
 
 Oltre cento opere fra installazioni, laser paintings, fotografie e
            video documenteranno la produzione artistica di Nam June Paik,
            considerato dalla critica internazionale l’iniziatore della
            ricerca espressiva con il video, anche dal punto di vista tecnico.
            Grande sperimentatore mediatico, l'artista coreano è stato uno dei
            fondatori e protagonisti di spicco del movimento Fluxus, con Joseph
            Beuys e John Cage.
 
 La rassegna organizzata dall’Assessorato alla
            Cultura della Regione Piemonte nell’ambito del progetto “Torino
            Contemporanea Luce e Arte”, è di fatto la prima personale di
            così grande rilievo nel nostro paese ad indagare un periodo
            particolarmente felice della produzione artistica di Nam June Paik
            all'epoca del sodalizio con la violoncellista americana Charlotte
            Moorman. Negli anni compresi fra il 1964 e il 1968, prima che Yoko
            Ono e John Lennon trasmettessero al mondo l'intensa luna di miele,
            Paik, coinvolto non solo “artisticamente” dalla Moorman, si
            esibiva nelle proprie opere come fantasioso performer a fianco della
            compagna.
 Il percorso espositivo della mostra di Palazzo Cavour si articola in
            più sezioni. In una sono esposte video-sculture di Paik e della
            Moorman, anche eseguite a quattro mani, relative al periodo Fluxus
            (1960-1974), momento in cui l’artista coreano, ossessionato
            felicemente dall’oggetto-televisore, inventa una grande quantità
            di modi per renderlo inoffensivo, demistificando il linguaggio delle
            immagini con il suo irriverente senso dell’umorismo. Una seconda
            sezione raccoglie invece le opere tridimensionali di Charlotte
            Moorman, opere in bronzo, neon, marmo, legno e terracotta sul tema
            del violoncello.
 
 Si passa quindi alla trentennale ricerca artistica di Paik,
            rappresentata a Palazzo Cavour da installazioni di grandi dimensioni
            come Robot, Sfera e Il Cavallo direttore d’orchestra.
 
 Un’altra sezione della mostra presenta le 80 opere del “port-folio”,
            76 immagini fotografiche (formato 50x70), tre grafiche e un disegno
            che raccolgono, oltre allo sguardo di Paik, anche l’interpretazione
            visiva del fotografo Peter Moore. Soggetto degli scatti è Charlotte
            Moorman nelle diverse performances provocatorie fra il 1964 e il
            1974, in cui la si vede sospesa per aria, sdraiata, per strada,
            nascosta in un lenzuolo, vestita da soldato, celata tra i monitor.
  Nam June Paik "Sfera.
 Punto elettronico", 1990-92
 Un’ulteriore sezione presenta una rassegna di video di Paik, della
            durata di sette ore e mezza, da Beatles Electroniques a Good
            Morning Mr Orwell. Attraverso una postazione interattiva sarà
            possibile accedere ad un archivio della produzione video di Paik e
            selezionare fra gli oltre 450 minuti - video disponibili, che
            saranno visibili inoltre in altre postazioni fisse lungo il
            percorso.
 
 Ci sarà infine la possibilità di assistere a proiezioni video su
            Paik con riprese per la maggior parte inedite sull’artista coreano
            e sulle sue performances, dall’Omaggio a Paik del VideoArt
            Festival di Locarno a Play Mozart’s Requiem, la gigantesca
            installazione di Münster con 32 auto d’epoca:
 
 La mostra rimarrà aperta al pubblico fino al 17 novembre con
            orario 10.00 - 19.30 tutti i giorni compresi i festivi a eccezione
            del giovedì, giorno in cui il Palazzo resterà aperto fra le 10.00
            e le 22.00. Giorno di chiusura il lunedì. Catalogo Hopefulmonster
            con testi dei curatori in italiano e in inglese.
 Informazioni per il pubblico: 011 53 06 90 www.palazzocavour.it
 
 
 
 
 
 
 
 SOMMARIO DOCUMENTAZIONE SULLA MOSTRA
 “Il giocoliere elettronico. Nam June Paik e l’invenzione della
            Videoarte”
 Palazzo Cavour, Torino 14 settembre - 17 novembre 2002
 
 
 Informazioni essenziali sulla mostra 2
 
 Nam June Paik, Charlotte Moormann e la scatola parlante 3
 Dal testo critico di Marisa Vescovo
 
 Nam June Paik e la videoarte 6
 Dal testo critico di Lucio Cabutti
 
 Nam June Paik 7
 Dal testo critico di Denis Curti
 
 Biografia di Nam June Paik 9
 
 Elenco delle opere 10
 
 
 
 
 Immagini e testi scaricabili anche via Internet dal sito www.threesixty.it
 
 
 
 
 INFORMAZIONI ESSENZIALI SULLA MOSTRA
 
 
 
 Sede: Palazzo Cavour, Via Cavour 8 - Torino
 
 Titolo: “Il giocoliere elettronico. Nam June Paik e l’invenzione
            della Videoarte”
 
 Ideazione: Marisa Vescovo
 
 Curatori: Lucio Cabutti per il video, Denis Curti per la fotografia
            e Marisa Vescovo per l’installazione e la pittura.
 
 Organizzazione: Regione Piemonte Assessorato alla Cultura, Direzione
            Promozione Attività Culturali, Istruzione e Spettacolo - Settore
            Promozione Attività Culturali
 
 Progetto allestimento: Massimo Venegoni, Studio Dedalo
 
 Catalogo: Hopefulmonster
 
 Apertura: 14 settembre - 17 novembre 2002
 
 Orari: martedì - domenica 10.00 - 19.30. Giovedì 10.00 - 22.00
            Chiuso lunedì
 
 Ingresso: Euro 6.20 Ridotto Euro 4.13 Ridotto speciale Euro 2.58
 Ingresso gratuito: Torino Card, Abbonamento Musei, Pass 15,
            disabili, bambini fino ai 5 anni
 Ingresso gratuito scuole: allievi delle scuole dell’obbligo fino
            ai 16 anni di età
 Speciale ingresso gratuito: bambini dai 6 ai 12 anni accompagnati da
            due adulti.
 
 Informazioni: 011-530690 Fax 011-531117 Indirizzo: V. Cavour 8,
            10123 Torino
 Sito Internet: www.palazzocavour.it
 Numero Verde: 800329329
 Visite guidate: Itineraria 011-4347954
 
 Ufficio Stampa: 011-547471 fax 011-534311 threesixty@infinito.it
            www.threesixty.it
 
 
 
 
 
 Nam June Paik, Charlotte Moorman e la scatola parlante
 Dal testo critico di Marisa Vescovo
 
 [....]
 Nam June Paik - che aveva studiato composizione musicale e storia
            dell’arte all’università di Tokyo- nel 1956 si reca in
            Germania, dove, due anni dopo, incontra John Cage, l’artista che
            lo convince a diventare con lui l’apostolo del “caso”.,
            messaggero dell’anti-musica
 La prima esposizione di Paik, Music-Electronic Television, avvenuta
            nel 1963, alla Galleria Parnass, a Wuppertal, consisteva in un’installazione
            con 13 video-monitor, messi a caso, che riempivano lo spazio con l’emissione
            di immagini ferme interagenti con gli spettatori. Da questo primo
            passo nascono una miriade di idee e invenzioni, che per ben 40 anni
            hanno avuto un ruolo fondamentale nell’introduzione - accettata
            quasi subito - delle immagini elettroniche in movimento nel mondo
            dell’arte. In breve Paik diventa un “genio” dei media per la
            sua straordinaria capacità di proporre forme-immagini, ottenute con
            mezzi tecnologici, capaci però di coinvolgere tutti i sensi, di
            mettere in scena un movimento proteiforme di un’apertura infinita,
            un gioco complesso che coinvolge inevitabilmente anche l’interprete.
            In Germania Paik, oltre a Joseph Beuys e Cage, incontra anche
            George Maciunas, il fondatore di Fluxus, il quale, nel 1964,
            lo introduce nel mondo artistico newyorkese, che viveva il momento
            magico degli “happenings” e della nascita dei film d’artista,
            come quelli di Jonas Mekas. Paik entra a far parte del mondo Fluxus,
            un gruppo ondeggiante di artisti - Allan Kaprov, Wolf Vostell, Yoko
            Ono, Dick Higgins, George Brecht, Joe Jones, Geoffrey Hendricks,
            Philip Corner, Robert Filliou, Alison Knowles, Ben Vautier, gli
            italiani: Giuseppe Chiari, Sylvano Bussotti, Gian Emilio Simonetti,
            e poi La Monte Young, Henry Flynt, ed altri - che avevano
            individuato nei mass media la parte più negativa della cultura del
            tempo. Questi artefici cercavano l’interdisciplinarità totale dei
            mezzi da usare, e privilegiavano il processo creativo piuttosto che
            l’oggetto finale, e l’assolutà precarietà dell’opera. Ma
            più che opere vere e proprie gli artisti Fluxus preferivano dare
            vita ad “azioni” - che rifuggivano ogni dogmatismo, o l’adesione
            a un “bello” stereotipo - documentate da riprese in video, foto,
            dischi, partiture musicali, e documenti di vario genere. [....]
 
 Nel 1964 entra a far parte di Fluxus, soprattutto per volere di Paik,
            l’americana Charlotte Moorman, diplomata in violoncello
            classico alla Julliard, solista dell’American Symphony Orchestra,
            diretta da Leopold Stokowski. Essa diventa fulmineamente una delle
            protagoniste più originali della scena sperimentale newyorkese
            degli anni Sessanta e Settanta. Donna di aspetto affascinante, occhi
            blu screziati di verde, una grande massa di capelli castano dorati,
            il sorriso radioso, è stata definita da Edgar Varèse “la
            Giovanna d’Arco della nuova musica”, infatti, nel 1963, ha
            fondato il New York Avant Garde Festival, che si è svolto
            annualmente fino al 1982.
 La collaborazione con Paik ha avuto momenti molto emotivi e intensi
            per alcuni anni, ma in verità la loro collaborazione è durata ben
            30 anni; con lui la Moorman partecipa a una serie di importanti “happenings”,
            tra cui Opera Sextronique (1967) in cui Paik, il quale
            pensava che la sessualità fosse una componente importante dei
            media, ha convinto la musicista a mettere due piccoli televisori sul
            seno nudo, mentre suonava un “violoncello” composto da tre
            monitor, che disegnavano un corpo femminile.
 Si è creato così un clima erotico e dissacrante, che ha
            scandalizzato il pubblico, e alla Moorman è costato un arresto, e
            il soprannome di “la violoncellista in topless”. Un altro evento
            sorprendente, assurdo, è stato quello di voler costruire un duetto
            con il robot K-456 di Paik, insieme al quale ha suonato PLUS-MINUS
            di Stockhausen.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 I due artisti insieme hanno formato un dinamico “duo” del
            multimediale, che ha viaggiato per tutto il mondo. In Italia,
            nel 1966, alla Biennale di Venezia, essi hanno presentato il Venice
            Gondola Happening, portando una piccola orchestra su una
            gondola, che inquadrata da una luce intensa e teatrale passava
            romanticamente tra i canali della città lagunare col suo carico di
            giocosi turisti-performer. Molte comunque sono le opere - in mostra
            quelle della Moorman sono rappresentate soprattutto da una serie di
            violoncelli di varie tipologie - talora a quattro mani - che sono
            nate dalla loro collaborazione (di un importante gruppo di foto di
            Paik, che documentano varie performances della Moorman, viene dato
            conto nel testo, in catalogo, di Denis Curti), poi sono state magari
            trasformate in video, come mostravano i 30 monitor sparsi in un
            groviglio di piante chiuse in una serra, il TV Garden (1974),
            dove tra folte felci comparivano molte immagini della Moorman.
 
 Lo stesso impegno che la Moorman ha messo nel suo gioco infinito di
            interpretazioni musicali e gestuali, è stato messo a segno anche da
            Paik nella sua ossessiva esplorazione della televisione e del
            video, tanto da diventare, alla fine degli anni Sessanta, l’antesignano
            di una nuova generazione di artisti che cercavano di creare un
            discorso estetico fuori - e in antagonismo - dalla televisione e
            dalle immagini in movimento.
 Durante tutti gli anni ’70 e ’80 Paik ha lavorato come
            insegnante e attivista, supportando altri artisti, e studiando
            opportunità per cambiare le potenzialità del mezzo emergente del
            momento, ovvero la TV. In questo periodo troviamo le collaborazioni
            fondamentali con Laurie Anderson, Joseph Beuys, David Bowie, Merce
            Cunningham, e i sempre verdi Cage e Moorman, con i quali ha creato
            una serie di installazioni che hanno cambiato radicalmente l’uso
            del video, ridefinendo in modo drastico questa pratica artistica.
            Paik evidentemente pensava che l’orizzonte percettivo di ogni
            essere vivente, e di ogni specie, fosse molto particolare e potesse
            intervenire sulla sua visione del mondo.
 [...]. Paik è perfettamente consapevole che la televisione tende a
            ridursi a “contenitore di visibilità”, “coscienze delegate”,
            oggetto espositore di capacità comunicative, orientatore del
            giudizio politico, ma soprattutto a grande procacciatore di danaro,
            mediante la pubblicità, danaro che alimenta questo “mezzo”,
            garantendone un’esistenza sempre più “vuota” - cioè sempre
            meno creativa e progettata culturalmente - dal punto di vista dei
            contenuti e dei messaggi, ma sempre più invadente e onnipotente nei
            confronti dell’opinione pubblica, della presenza visiva, della
            formazione del gusto e dei desideri, nonché del controllo dei
            costumi e dei consumi.
 È sullo sfondo di questo scenario che possiamo, credo, capire l’intensa
            concentrazione, lo sforzo di introspezione e di controllo compiuti
            da Paik. Infatti nel suo lavoro egli ha saputo innanzitutto far
            convivere interessi umanistici e musicali, una filtrata e poetica
            cultura Zen, l’eredità delle avanguardie del Novecento, legando
            il tutto con una conoscenza perfetta della tecnologia e dell’intelligenza
            artificiale.
 
 Attraverso un umorismo leggero e insieme irriverente, di sapore Neo-Dada,
            egli decostruisce il linguaggio del mezzo televisivo,
            indagando parallelamente i legami tra arte e cultura popolare,
            combinando una tradizione sciamanica e razionale con una magica
            capacità di sintesi, di astrazione, che lo hanno condotto verso la
            conoscenza profonda e consapevole dei mezzi informatici. Una
            conoscenza facilitata dalla sua pazienza orientale mai venuta meno.
 
 [...] Per mettere in crisi le immagini televisive [...] Paik [...]
            usa le immagini in modo astratto - in questo aiutato dalle sue
            conoscenze musicali - su schemi dove troviamo forme ritmiche,
            geometrie quantistiche particolari di natura, potenziati da
            esplosioni di luci e di colori, contenuti in tempi molto brevi, che
            ci costringono a ritrovare l’intensità dello sguardo, e talora ci
            fanno balenare innanzi la luminosa immediatezza di squarci di storia
            di questo nostro tormentato XX secolo. [...]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Se osserviamo le installazioni video - “Cavallo antico e 6
            direttori d’orchestra” - ci rendiamo conto che Paik,
            collezionando tanti oggetti ormai fuori del contesto storico
            (vecchie radio, carcasse di televisori, e opere di un antiquariato
            minore) crea ibridazioni che complicano la nostra “tradizione”
            visiva, e salvano qualcosa dalla tirannide dell’utilità e dal
            consumo, creando infine un’enorme, infinita, collezione che ormai
            vive, frammentata, per il mondo. [...]
 L’immagine - video - in un’opera come “Colosseum” in cui
            coesistono frammenti di sculture romane, immagini frattali, la foto
            di Beuys, di architetture e neon - intrattiene un rapporto stretto,
            certo “costitutivo”, con quanto è scarto, maceria, residuo,
            legato alla wunderkammern del nostro sempre più carnevalesco
            presente. L’unione di reale e virtuale - la realtà che ospita in
            sé il suo opposto, l’altro da sé, violando antiche leggi, ma
            creando anche distinzioni fondamentali come quella tra verità e
            immaginazione, presenza e assenza, interno e esterno - vengono messi
            in questione (basta pensare anche a “TV Clock”). Queste opere
            spettacolari, ma anche tutti gli altri “robot” - “Robot
            giocatori di baseball” - mettono in scena la metamorfosi del “reale”,
            e attraverso l’incrinatura delle barriere concettuali che questo
            comporta, l’attenzione di chi guarda viene attratta con simpatia
            dalla fluidità, dall’apertura, dalla differenza, e ciò nondimeno
            l’affiorare del paradosso, e dell’ambiguità, non sono tanto l’indice
            di un ostacolo da superare, ma l’evidenziarsi di luoghi in cui è
            importante sostare. [....] Le creature di Paik costruite con vecchie
            radio, orologi, televisori, telefoni, (per lui la vera grande
            scoperta del secolo), macchine fotografiche, antenne, vecchi mobili,
            sculture, biciclette, pezzi di macchine, sommati ad immagini, magari
            arricchiti di una concreta memoria pittorica che non vuole essere
            cancellata, non sono frutto di feticismi tecnologici, o idolatria
            della macchina, ma semplicemente l’artista, con grande ironia,
            ridisegna i “giocattoli” della sua infanzia, mette in
            discussione il valore del video o del televisore dicendo che
            annoiano e creano troppe immagini, ma contesta anche il
            neopaganesimo dei Terminator, proposti col volto ebete di
            Schwarzenegger.
 [...]
 Paik cerca un “fare” poetico che si offra nell’istantaneità
            della visione. Pensa l’arte in un’ottica che è quella della sua
            genesi e del suo essere costantemente in “fieri”, e non appunto
            un prodotto finito. In questo modo l’artista si approssima alla
            filosofia: la visione libera le forme del mondo dalla necessità
            della realtà, e prefigura così un mondo diverso da quello
            esistente. E questo spiega anche, in parte, la presenza costante
            della figura del Buddha nelle video-sculture di Paik - pensiamo a
            “Yung Buddha on Duratrans bed”, “Buddha TV” - in cui l’autore
            ci dice che al culmine della meditazione ZEN “il mondo si da in
            quanto metafora di se stesso” e sul viso del Buddha compare un
            lieve sorriso, ma questo vuol essere allora il “sorriso del mondo”.
            L’illuminazione Zen è lasciar cadere ogni differenza sino a “percepire”
            la permanenza di un piacere, nonostante, o al di là, di ogni
            sofferenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 NAM JUNE PAIK E LA VIDEOARTE
 Testo a cura di Lucio Cabutti
 
 La storia della videoarte inizia nel 1965 con i primi video di Paik,
            musicista, creativo elettronico, regista ed artista. Il video è per
            lui il mezzo espressivo più rispondente alla rivoluzione culturale
            libertaria di Fluxus, il movimento di avanguardia multimediale a cui
            partecipa dopo una formazione estetica avvenuta nell’estremo
            Oriente e nell’Occidente europeo.
 Nell’avanguardia di Fluxus, l’artista coreano non è
            esclusivamente un videoartista, bensì un artista “ipermediale”
            che adopera una molteplicità di comportamenti vitali e di tecniche
            artistiche. Spazia così fluidamente dal corpo dei performers,
            danzatori compresi, ai personaggi dello spettacolo e dell’avanguardia
            internazionale, ai più disparati oggetti e strumenti e documenti e
            percorsi, che assumono forme dinamiche nei video e forme statiche
            nelle videosculture, nei videoambienti e nelle fotografie.
 Paik è il più significativo artista elettronico della seconda
            metà del Novecento. Questa sua peculiare forma di creatività non
            punta però sull’elettronica fine a se stessa. Nelle sue opere
            video la telecamera è adoperata come un potenziatore elettronico
            dell’organismo umano, come un modo di vivere meglio vedendo e di
            vedere meglio vivendo. Il suo libero gioco della intelligenza e
            della immaginazione diventa conoscenza e coscienza. Nei suoi video
            interagiscono informalmente, strutturandosi però attraverso precisi
            stilemi, documenti di cronaca, ricerche per un’iconografia
            tecnologicamente potenziata, testimonianze di lavoro, frammenti di
            spettacolo, costruzioni virtuali, contestazioni sessantottesche,
            pratiche zen, documentazioni storiche, echi del radicalismo
            statunitense, citazioni di yoga, sperimentazioni linguistiche,
            ritratti dei protagonisti dell’avanguardia di Fluxus, performances,
            interazioni con la scuola di Locarno del VideoArt Festival,
            congiunture ludiche, realtà tragiche, memorie ataviche, proiezioni
            nel futuribile e molti altri aspetti dell’esistenza, dell’arte e
            della comunicazione mediatica. La sua poetica rappresenta un inno
            planetario alla vita, che include quindi anche la cognizione della
            morte, della violenza e della guerra.
 I video presenti in mostra esemplificano l’opera e la poetica di
            Paik a trecentosessanta gradi, e si articolano in due settori
            rispettivamente dedicati a video di Paik e a video su Paik.
 I video di Paik ripropongono le opere dell’artista disponibili nel
            circuito internazionale fino agli ultimi anni novanta. Ripercorrono
            integralmente un quarto di secolo della sua videoarte, e sono
            conservati a Torino nell’archivio dell’Aiam, Accademia
            Internazionale Arti e Media.
 Costituiscono quindi un’esaustiva rassegna dei video di Paik
            articolata in 18 titoli per una durata complessiva di circa 450
            minuti, sette ore e mezza di proiezione continua. Il pubblico dei
            visitatori della mostra può vederli tutti scegliendoli su uno
            schermo tattile mediante il sistema Diva (Digital Integrated Video
            Archive, il videoarchivio digitale integrato progettato e realizzato
            dall’Aiam stessa).
 I video su Paik sono citazioni di altre opere di Paik attraverso
            riprese e rielaborazioni effettuate da altri. Sono quindi ulteriori
            letture delle opere e del personaggio attraverso altri percorsi che
            spaziano dal documento di cronaca d’arte al “critovideo” di
            critica d’arte e a interazioni espressive e ambientali sempre
            riferibili a Paik.
 
 In sintonia con il metodo critico e creativo di Paik informano
            quindi su altre sue memorabili opere, come per esempio Play
            Mozart’s Requiem, il gigantesco audioambiente con la
            installazione di 32 auto d’epoca realizzato nel 1997 per la
            rassegna Skulptur del Westfälisches Landesmuseum di Münster,
            ora riproposto a Torino attraverso materiale anche inedito.
 Non manca inoltre, l’esemplificazione dei rapporti di Paik con il VideoArt
            Festival di Locarno e con la Scuola di Locarno di video:
            del 1982 è infatti il Gran Premio Laser d’Oro assegnato a
            Paik dal 3° VideoArt Festival di Locarno e del 1998 è l’Omaggio
            a Nam June Paik voluto dal 19° VideoArt Festival di
            Locarno in collaborazione con il 1° Videoevento dell’Aiam
            di Torino, e articolato in una rassegna di video di Paik, due
            videoambienti e una videoinstallazione.
 
 
 
 Nam June Paik
 Testo a cura di Denis Curti
 
 Interventi, straordinarie presenze, capaci inserimenti - entrare
            e uscire dagli spazi - in un continuo movimento; dentro e fuori l’immagine;
            insieme, soggetto e oggetto, opera e autore. Penso all’action,
            all’azione, come motore e espressione, come materia e prodotto. A
            lui si deve questa nuova visione dell’essere e dell’artista. Un
            significato che comprende l’idea di comunicazione, di interazione,
            di fusione e di flusso. Nomade capace di percorrere strade e storie,
            di leggere tra passato e presente, di trasformare e di trasformarsi,
            di unire ingegno tecnico e invenzione artistica. Uomo di conoscenza,
            sciamano, padrone del metodo scientifico, del sapere informatico e
            audiovisivo, viaggiatore ed esploratore di mondi: ecco Nam June Paik.
            Medium egli stesso, dispositivo e ponte fra comunicazione e tecnica,
            tra agente e interlocutore.
 
 Il suo è un intervento che crea e dispone; irrequieto interprete e
            incessante sperimentatore di mondi, in lui riconosciamo il
            consapevole vagabondo alla ricerca del sé e dell’altrove. Allora
            la mobilità diviene orma, segno di un passaggio nello spazio e nel
            tempo, di un transito nella realtà delle cose, tra le cose. Nam
            June Paik cerca, si sposta, ritorna. Entra ed esce dalla scena e
            dagli eventi. Supera frontiere. Fotografa. Consapevole che l’atto-azione
            conduce a nuovi luoghi del possibile e a nuovi recinti del visibile,
            a nuovi episodi e a nuove esperienze. Fotografia come
            investigazione, in forma di strumento speculativo. Paik se ne serve
            per destrutturare e ristrutturare realtà e ricomporre scenari, per
            operare tagli e sezioni, per agire e applicarsi nella
            contraddizione, sempre mascherato di nuovi stimoli e consapevolezze.
            Fotografia come dichiarazione. L’atto del vedere, nell’obbiettivo,
            attraverso l’apparecchio fotografico, è un’occasione cercata e
            una possibilità creata per raggiungere e ritagliare significati,
            per aggiungere ulteriori note e tratti alla sua meditazione, per
            proseguire nel suo attraversamento. Una strategia: accedere a spazi
            d’esistenza e amplificare sensazioni e sentimenti. La texture, l’immagine,
            testimonianza inedita, risolve e chiarisce la consapevolezza del suo
            essere nel mondo.
 
 E’ la funzione dell’arte e il compito dell’artista: percorrere
            strade e incerti sentieri, cogliere discordanze e dissonanze.
            Sottolineare differenze, dichiarare identità, aggiungere diversità
            e recuperare spazi di confronto. Solo in questo modo potremmo farci
            curiosi indagatori e capaci ricercatori. In noi rimane il desiderio
            di vedere, di scoprire luci e confini: utilizzare gli strumenti
            della comunicazione, la moderna tecnologia e il medium più idoneo
            al contatto, per un ulteriore confronto, per un’ulteriore prova,
            per attivare diversivi e artifici. Prendere ciò che serve al nostro
            progetto e compito, senza timori e imbarazzi. La macchina
            fotografica allora diviene utensile, braccio meccanico, clessidra
            tecnologica. Con essa si dichiara un impegno, quello di scandire il
            tempo, di fissare, immagine dopo immagine, il ritmo di un compito
            trascorso che è anche, e soprattutto, presente. La temporalità
            guarda all’opera e non all’operazione. L’opera fotografica
            vive e si alimenta di luce propria, non riflettendo altro se non se
            stessa. Nello spazio bidimensionale si comprende il tempo estetico,
            essendo luogo d’esperienza e spazio d’animazione. L’icona
            fotografica diviene testo narrativo, appendice, figura che in-forma,
            filo trasparente di un circuito che unisce opera e osservatore, che
            trasforma i corpi in presenze. Dunque, nessuna mania classificatoria,
            nessuna esaltazione fotografica del ricordo. Lo scorrere degli
            eventi non è fermato e assicurato a una superficie, ma è
            abbracciato, indagato, perforato da continue incursioni e da
            incessanti desideri di conoscenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Nelle fotografie proposte, Paik indica e destina all’opera e al
            rapporto con la violoncellista Charlotte Moorman il valore di un
            atto in compimento. Si tratta di 70 immagini fotografiche e di altri
            documenti che raccolgono, oltre allo sguardo di Paik, anche l’interpretazione
            visiva di Peter Moore. L’artista coreano, vicino a Joseph Beuys e
            a John Cage, è l’eclettico regista dell’intera produzione che
            ripercorre in una panoramica tra gli anni 1964 e 1974 l’intenso
            rapporto di collaborazione con la Moorman. Nelle immagini dedicate
            alle performance interpretative e alle esecuzioni della
            violoncellista americana, in particolare dell’opera ‘Opera
            Sextronique’, l’artista è raffigurata in occasioni e situazioni
            varie: sospesa per aria, sdraiata, per strada, nascosta in un
            lenzuolo, vestita da soldato, celata tra i monitor. Nella primavera
            del 1967 la giovane Charlotte fu arrestata dalla polizia di New York
            durante l’esecuzione dell’opera di Nam June Paik ‘Opera
            Sextronique’: davanti a 200 invitati, l’eclettica artista dell’avanguardia
            riuscì a suonare due brani prima di essere interrotta dagli agenti
            con l’accusa di oltraggio alla pubblica decenza. Nell’esecuzione
            del primo pezzo musicale, la Moorman apparve in bikini decorato con
            luci elettriche che si accendevano e si spegnevano al suono di
            determinate note. La scena era scura. Nell’atto successivo,
            presentatasi in topless, la Moorman suonò il violoncello a luci
            accese e indossando la sola gonna (Life, 1967; Voice, 1967).
 
 Nello scivolare dello sguardo da un’immagine all’altra, l’impressione
            è quella di assistere a un continuo e dinamico processo di scambio,
            di arricchimento e di ridefinizione della dimensione visuale, quasi
            se, potenziate reciprocamente, le fotografie si condensassero in un’unica
            tensione e risultanza di prova vissuta, in un unico esito
            esperienziale che accumula e trasmette conoscenza, informazione,
            identità. Variazioni. Dilatate presenze dove angolazioni e
            traiettorie visive amplificano il senso dell’intervento e la
            dinamica della ricerca e del dialogo; un’indagine visiva che si
            struttura attraverso la composizione e la partecipazione, che si
            esalta nell’efficacia esplorativa, nel gesto creativo, nel gioco
            espansivo, nella complicità espressiva. L’immagine richiama la
            potenza di un’operazione partecipata e la fotografia ritrova la
            sua reale consistenza. Non possiamo guardare alla figura di Nam June
            Paik se non all’interno della sua complessa personalità
            artistica, del suo impegno che attraversa il canale dell’interdisciplinarietà,
            che formalizza, in nuove parentele visuali, inedite presenze e
            consistenze.
 
 Attivare segni, significati e strategie, creare possibili
            congiunzioni e rimandi, aprire porte e passaggi. Uno spirito libero
            in grado di affrancarsi da rigidi schemi rappresentativi e da
            calcolati movimenti interpretativi; una vitalità tesa alla ricerca
            di una comunicazione estetica che annulla la distanza tra
            interlocutori e abbatte obsoleti modelli di comportamento per una
            libera e nuova poetica espressiva. Abile nel raccontare le mille
            contraddizioni e le infinite gioie della nostra complessa
            contemporaneità. Reporter, relatore dell’animo umano, capace di
            abitare il mondo e di dare un volto all’etica della
            corresponsabilità
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 BIOGRAFIA DI NAM JUNE PAIK
 
 Nam June Paik è nato nel 1932 a Seul in Corea, da una famiglia di
            artigiani. I suoi primi studi si svilupparono in ambito musicale,
            prendendo lezioni di piano e composizione fino a che a causa della
            guerra di Corea del 1949 la famiglia non fu costretta prima a
            trasferirsi a Hong Kong e poi in Giappone.
 Si è laureato presso la Tokyo University nel 1956 spostandosi
            quindi in Germania per approfondire i suoi studi di musica
            contemporanea.
 Nel 1958 incontrò il compositore John Cage che rappresentò il suo
            mentore (?) influenzando la sua produzione.
 Nel periodo tra il 1958 e il 1963 ha lavorato presso gli studi WRD
            di musica elettronica di Colonia, dove fu collega di Karlhenz
            Stockhausen.
 L’incontro di Paik in Europa con Maciunas (1961) motivò la sua
            associazione a Fluxus e diede luogo alla sua partecipazione ai
            movimenti di Fluxus.
 E’ del 1963 la prima autonoma performance di paik che ha avuto
            luogo presso la Galleria Parnass di Wuppertal.
 Nel 1964 Paik iniziò una lunga collaborazione con Charlotte Moorman,
            violoncellista e pioniere della nuova musica.
 Nel 1965 Paik acquista una delle prime video camere portatili. Nello
            stesso giorno Paik presenta il suo primo video e una installazione
            video, la prima di molte che produrrà, sarà da lì a breve
            prodotta per la Galleria Bonino di New York.L’affermazione di Paik
            si consolida con la presentazione del 1974 di una raccolta dei suoi
            lavori in video presso l’Everson Museum of Art in Syracuse, New
            York e nel 1976 di una più ampia retrospettiva presso il Kilnischer
            Kunstverein.
 Nel 1982 seguì un’altra importante retrospettiva presso il
            Whithrey (?) Museum of American Art in New York, che sancì in modo
            definitivo un importante riconoscimento alla sua attività creativa.
 Il 1984 fu salutato da Paik con un programma televisivo realizzato
            con collegamento internazionale via satellite intitolato Good
            Morning Mr Orwell.
 Il programma che ne seguirà nel 1988, in occasione dei Giochi
            Olimpici di Seul fu accompagnato da un notevole successo di pubblico
            e di critica.
 Nel 1992 gli fu affidato lo sviluppo del padiglione Coreano nell’Expo
            Internazionale di Siviglia.
 Nel 1993 Paik vince il primo premio per il miglior padiglione alla
            Biennale d’Arte Internazionale di Venezia nel padiglione tedesco
            con Hans Haacke e con il loro lavoro intitolato “Electronic super
            highway (?) from Venezia to Ulan-Bator”.
 Nel 1995 Paik crea un’importante installazione a Munster
            (Germania) ispirata all’architetto barocco Johann Conrad Schaun.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 ELENCO DELLE OPERE IN MOSTRA
 
 
 Installazioni e laser paintings
 
 C. Moormann, Violino, legno
 Nam June Paik, O’clock
 Nam June Paik, Untitled, laser photograph, 91,5x119,5x10
 Nam June Paik, Buddha TV - 1990, legno, cassaTv/candela,
            85x150x75
 Nam June Paik, Colosseum, 1990, installazione monitors, case
            Tv, oggetti in gesso, 420x650x250
 Nam June Paik, Robot. Giocatore di baseball,
 Nam June Paik e C. Moormann, sagome + 3 televisori,
 Nam June Paik e C. Moormann, sagome-sculture di una performance,
            150x80
 Nam June Paik, Cavallo antico indonesiano con 6 televisori con 6
            direttori d'orchestra
 Nam June Paik, Young Buddha on Duratrans Bed
 Nam June Paik, Sfera. Punto elettronico
 Nam June Paik, Robot
 Nam June Paik e C. Moorman, opera a 4 mani (violoncello e strumenti
            musicali), oggetti
 Nam June Paik e C. Moorman, opera a 4 mani (violoncello e strumenti
            musicali), oggetti
 Nam June Paik, Omaggio a C. Moorman, laser painting
 Nam June Paik, Omaggio a C. Moorman, laser painting
 Nam June Paik, litografia
 Nam June Paik, litografia
 Nam June Paik, litografia
 Nam June Paik, disegno
 C. Moormann, Bombocello, tecnica mista, 200x76x27
 Nam June Paik, Fluxus tre media 1974, cassa di legno, radio,
            televisione, amplificatore, grammofono, 26x70x36,5
 Nam June Paik, Travelling Buddha
 C. Moormann, scultura
 Nam June Paik, Omaggio a Beuys, Laser painting
 Nam June Paik, Buddha + televisore, scultura,
 Nam June Paik + C. Moorman, opera a 4 mani
 Nam June Paik, Beuy' voice, Laser painting, pittura a olio,
            oggetti, televisore, 162x196x10
 Nam June Paik, Omaggio a John Cage, Laser painting, pittura a
            olio, oggetti, televisore e radio, 170x270x10
 C. Moormann, Cellos' shadow, serigrafia su tela, 150x90x30
 Nam June Paik, Sine Titulo, Laser painting
 Nam June Paik, David Bowie
 Nam June Paik, Fin de siecle man3
 Nam June Paik, Installazione con video di Laurie Anderson
 
 
 
 
 Fotografie
 
 Nam June Paik - Moormann, Port-folio 76, 75 fotografie in B/N
            e colori
 C. Moormann - Giuseppe Chiari, Omaggio a C. Moormann,
            fotografia B/N, 60x42
 C. Moormann - Giuseppe Chiari, Omaggio a C. Moormann,
            fotografia B/N, 60x42
 C. Moormann, Fotografie - performance Moormann
 
 Video di Nam June Paik
 
 A Conversation, 1974.
 Beatles Electroniques, 1966.
 Videotape Study No. 3, 1967.
 Electronic Moon No. 2, 1969.
 Video Commune, 1970.
 Electronic Fables, 1971.
 Paik / Abe Video Synthesizer with Charlotte Moorman, 1971.
 Electronic Yoga, 1972.
 Waiting for Commercials, 1972.
 A Tribute to John Cage, 1973.
 Global Groove, 1973.
 Nam June Paik: Edited for Television, 1975.
 Guadalcanal Requiem, 1977.
 Merce by Merce by Paik, 1975-78.
 Allan’n’Allen’s Complaint, 1982.
 Good Morning Mr Orwell, 1984.
 Living with the Living Theatre, 1989.
 Majorca-fantasia “Matò George Sand a Federico Chopin?”,
            1989.
 
            
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