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Sedotto dalla prima luce



Pierre Boncompain con Fabio Lazzari



Pierre Boncompain, Lei è nato a Valence, nel sud della Francia; mi può dire qual è il rapporto con i luoghi della sua giovinezza e come la luce e l’atmosfera di questi luoghi entrano nella sua pittura?


È un rapporto fondamentale; è là che sono nato e quella luce, la prima luce che ho visto mi accompagna ovunque. Anche qui a Parigi io vedo e sento e lavoro ancora con il ricordo della Drôme (la regione provenzale in cui si trova Valence, ndr) e sono capace di dipingere e di restituire in un quadro la luce di un paesaggio di quella regione pur essendo a 600 chilometri di distanza, poiché è una luce che è dentro di me. Di quei luoghi conosco ogni ora del giorno, ogni momento, ogni stagione… È una luce che definirei un po’ italiana.

Di solito la sua è una pittura calda, armoniosa, quasi rassicurante. Quando però nell’opera compare la figura qualcosa si modifica, si avverte una sorta di maggiore complessità. Qual è veramente la ragione di questa differenza tra un paesaggio o una natura morta e le opere in cui compare la figura umana?

Penso che abbia ragione. Quando l’uomo è entrato nella natura tutto si è complicato. Nel quadro c’è un po’ questo. Vedo l’uomo nel paesaggio come il committente in un quadro fiammingo. Per esempio in una Natività il pittore ritrae se stesso o il donatore che guarda la scena; per me il personaggio di un quadro è colui che contempla la creazione, l’equivalente del personaggio del quadro fiammingo.

In ogni caso la presenza umana è fondamentale in un paesaggio; è come se il paesaggio si ordinasse intorno a questa presenza. Sono arrivato alla figura umana abbastanza tardi; quando ero più giovane guardavo agli uomini con una certa distanza, poi, poco a poco, l’interesse per l’umanità si è sviluppato dentro di me; forse lei si riferisce anche ad una specie di inquietudine che caratterizza la presenza umana nei miei quadri?


La presenza dell’uomo e soprattutto della donna; mi pare che questa inquietudine si manifesti con espressioni e atteggiamenti più complessi da interpretare. Può essere talvolta una espressione di attesa. I personaggi sono come fermati in un gesto, in qualcosa che ha un prima e un dopo. E poi c’è il momento del quadro, il momento in cui il personaggio è là e non si sa che cosa c’è stato prima o che cosa ci sarà dopo, ma si ha la sensazione che qualcosa stia per accadere.

Ho detto un giorno ad uno scrittore francese, Felicien Marceau, che invidiavo la scrittura perché la pittura non può esprimere lo scorrere del tempo, cosa che invece un romanzo può fare. E lui mi rispose che non era vero, e che anzi trovava che nella mia pittura vi fosse spesso un clima di attesa per qualche cosa di imminente; trovava insomma che ci fosse il sentimento del tempo. Mi può dire come è nato il suo interesse per l’arte e per la pittura in particolare, e se c’è qualche “paternità” che lei riconosce nei grandi maestri del passato. Credo che il mio interesse per l’arte sia nato dal fatto di avere un padre che scriveva libri, (anche saggi critici su autori come Stendhal), che aveva amici poeti e pittori, che riceveva tutte le edizioni di Skira o i libri di Verve, ecc., e il mio occhio di bambino si è certamente impregnato di tutto questo. Così ho cominciato a disegnare e, poco a poco, l’arte mi ha invaso e mi ha coinvolto completamente.

Insieme a mio padre frequentavo gli atelier degli artisti, rimanendo affascinato dalle tavolozze dei colori, e sentendo il desiderio di toccare, di mettere le dita dovunque; finché un giorno mio padre mi ha regalato la mia prima scatola di colori. Quando dipingo non faccio più caso all’odore della trementina. Ma quando ritorno all’atelier dopo un periodo di assenza questo odore di trementina mi ricorda la mia prima scatola di colori e ritrovo tutta la meraviglia della mia infanzia, la mia prima gioia, un ricordo.

A proposito invece delle paternità artistiche del suo lavoro, molti dei grandi pittori della fine dell’Ottocento o dei primi Novecento hanno legato la loro vicenda alla Provenza, la regione in cui lei è nato. Cosa mi può dire a riguardo?

Credo di essere impregnato di tutta la storia dell’arte, ma è certo che un artista con le sue scelte, appartiene a una certa famiglia di artisti. Le mie scelte sono influenzate dal fatto che mi sento assolutamente mediterraneo. Non potrei fare nulla in Bretagna o nelle Fiandre, ho bisogno della luce del Mediterraneo. Ecco quindi che tutti gli artisti che hanno lavorato intorno al Mediterraneo mi hanno in qualche modo influenzato.

Tra i primitivi amo i grandi toscani, ma anche, lontano da noi, le miniature indiane, per la loro magia e la loro dimensione fiabesca. Ricordo alcune miniature indiane o mongole nelle quali era rappresenta credo una specie di arca di Noè con il cielo, gli uccelli, la nave e sul fondo della nave tutti gli animali del creato, e poi il mare e sotto il mare i pesci e una specie di balena.

Ecco in fondo mi piacerebbe ritrovare nella mia pittura questa sensazione di un mondo ideale, rappresentato e raccontato come una grande favola. Tornando alle mie passioni d’artista ho molto amato Cézanne, per come ha rappresentato la Provenza, con la sua epidermide, le sue rocce, la sua durezza. Bonnard o Matisse, che pure amo molto, esprimono invece la magia della luce, la poesia, come una specie di giardino dell’Eden, con una visione di tipo orientale e con la luce che, passando attraverso le palme, diventa oro. Credo comunque che ogni quadro debba essere carico di poesia. Bisogna che il reale ci attraversi, che passi dentro di noi come l’uva spremuta nell’alambicco, cercando di estrarne l’alcool potente della poesia.

Lei ha lavorato molto su uno dei testi più famosi dell’Antico Testamento, il Cantico dei Cantici. Qual è la ragione di questo suo interesse?


Non avrei mai osato avvicinarmi a un testo di così grande importanza se non vi fosse stata, molto tempo fa, una richiesta specifica da parte di un editore per un progetto che poi non si è mai realizzato, ma che è stato il pretesto per far scattare la molla di un interesse che si è progressivamente sviluppato fino a coinvolgermi in modo molto intenso.

Mi pare che il Cantico, questo testo immenso, mi permetta di staccarmi dal reale e di raggiungere un grande lirismo, ciò che continua a sembrarmi meraviglioso. Quello che le dicevo sulla favola del mondo, per esempio, c’è tutto nel Cantico dei Cantici, che è anche e prima di tutto una straordinaria storia d’amore, al punto che non riesco a immaginare un tema più bello. E poi è una fonte di ispirazione immensa, anche se estremamente difficile, perché quando ci si trova di fronte un linguaggio poetico così bello e vasto occorre trovare delle equivalenze plastiche e occorre avvicinarlo con ingenuità, senza cercare di fare un discorso preciso o giocare a fare gli esegeti, piuttosto impregnandosi del testo e cercando di rendere le emozioni che si provano. Naturalmente ci sono stati canti che mi hanno suggerito immagini in modo più immediato di altri; ad esempio ho molto faticato a immaginare e a rappresentare Re Salomone. Ma piano piano, a forza di entrare e di farsi penetrare dal testo, si crea una familiarità che produce i suoi effetti perfino durante il sonno.

Cosa pensa della distinzione tra arte astratta o informale e arte figurativa?

Credo che non ci sia arte senza emozione, e per creare emozione io ho bisogno del reale. Quando ero studente mi è capitato di fare pittura astratta, ma trovavo che fosse una frustrazione terribile, perché quando si lavora nell’astrazione c’è un momento in cui si finisce per dipingere sempre le stesse forme, mentre la realtà ti alimenta continuamente, mette continuamente legna nel fuoco della creazione. È il reale che mi consente di rinnovarmi, di non esaurirmi. Semplicemente occorre digerire la realtà, semplificarla, decantarla, dare alla figurazione le qualità compositive dell’astrazione mettendo in relazione tra loro le forme. In questo senso tutto è importante in un quadro, tanto il soggetto che lo sfondo. Lo spazio tra due tazze in una natura morta, ad esempio, è tanto importante quanto le tazze stesse. Insomma, quello tra astratto e figurativo mi pare un dibattito inutile.

Qual è secondo lei il ruolo della tecnica nel lavoro di un autore?


La tecnica è certamente molto importante. Quando si è giovani, e ancora non si ha padronanza della tecnica c’è una grande foga, ma si è come dei cattivi elettricisti che vorrebbero far passare una corrente enorme e che fanno saltare tutti i fusibili. Con la tecnica si impara ad accendere la lampadina utilizzando meno energia. Non deve però mai essere un fine bensì un mezzo per potersi esprimere, per far passare la corrente dell’ispirazione, dell’emozione, del sentimento.

A proposito di tecniche cosa pensa della possibilità di utilizzare la grafica o la scultura per moltiplicare l’intuizione creativa di un autore?

Credo che sia meraviglioso, basta pensare alle incisioni di Rembrandt o di Dürer, o alle grafiche di Picasso, che sono opere d’arte straordinarie e che oltretutto consentono a persone che hanno la sensibilità e la voglia di avvicinarsi all’arte di farlo senza impiegare cifre enormi. Semplicemente credo che queste tecniche si debbano utilizzare in modo molto controllato e competente, con grande onestà.

Come è stata la sua collaborazione con l’Imprimerie Nationale per la realizzazione della litografia eseguita per Art’è?

L’Imprimerie Nationale è il top nel campo della stampa d’arte, dunque è un piacere lavorarci utilizzando le tradizionali pietre litografiche e la competenza dei migliori tecnici artigiani. È una sorta di conservatorio della stampa, dove si possono far cose che nessuna impresa privata potrebbe permettersi. E poi c’è un sapere che si trasmette dal maestro all’allievo e che viene messo a disposizione degli artisti. Insomma per un pittore lavorare all’Imprimerie è un vero e proprio sogno.

Qual è il suo atteggiamento come osservatore di fronte a un opera d’arte di altri autori? Come si comporta, che cosa la colpisce, che cosa cerca?


Cerco prima di tutto di essere aperto, di lasciare che il quadro mi venga incontro e poi di entrarci e di scoprirlo poco a poco. Solo dopo cerco di capire i processi creativi, di studiare e di comprendere la composizione. Non posso certo negare che il pittore e il tecnico che sono in me abbiano la loro parte nella osservazione e nello studio, ma cerco, per quanto possibile, di essere vergine, come quando ascolto la musica, di lasciarmi penetrare e coinvolgere da ciò che ha voluto fare l’artista; e poi reagisco con la mia emozione o la mia disapprovazione. In generale non do giudizi, conosco bene le esigenze, le difficoltà e i problemi che incontra un artista e anche se talvolta ci sono cose che non capisco rispetto il percorso dell’autore a patto però che si senta l’autenticità delle intenzioni.

Se dovesse dare un consiglio al pubblico dei collezionisti Art’è che si apprestano a incontrare il suo lavoro: quali consigli darebbe loro, per avvicinare correttamente l’opera di Pierre Boncompain?

Dio mio, credo sia molto difficile dare consigli. Penso si debba cercare di essere naturali, freschi, di non avere un approccio troppo intellettuale, di avvicinarsi con semplicità, direi con cuore di bambino.

Mi pare un ottimo consiglio.

Credo proprio di sì. Mi pare che si sia troppo teorizzato, e che si debba tornare a una sorta di innocenza. In fondo credo che la prima qualità da preservare, per un’artista, sia soprattutto il dono del meravigliarsi, che anche colui che guarda l’opera dell’artista debba tentare di meravigliarsi, come un bambino che scopre una cosa per la prima volta.

So che per un artista è sempre difficile parlare del proprio lavoro, ma mi piacerebbe tentare di capire un po’ meglio lo spirito e le motivazioni che la spingono a scegliere alcuni soggetti. In particolare, avendo già accennato alle figure umane, e ai paesaggi, vorrei chiederle di dirmi qualcosa sul soggetto che più di altri mi ha colpito per la straordinaria vivacità e varietà di soluzioni con cui lei lo ha trattato nelle sue opere: quelle splendide tavole, talvolta con fiori o frutta, più spesso con tovaglie decorate, che sono certamente metafora e simbolo di qualcosa che lei ritiene particolarmente importante. Cosa mi può dire a questo proposito e più in generale quale ritiene debba essere la funzione dell’arte?


L’idea delle tavole è una sorta di celebrazione della natura. Quando eseguo una tovaglia con sopra dei piatti di frutta ho in mente una specie di altare sacrificale e quando dipingo una tovaglia decorata con un albero e dei vassoi cerco di fare in modo che non si distinguano più i frutti dell’arte da quelli della natura morta. Mi piacciono molto queste ambiguità, queste mescolanze. In fondo che si tratti di un paesaggio, di una figura, o di una natura morta, alla fine tutto si confonde, il nudo diventa un paesaggio così come i frutti devono avere la polpa e la pelle di un nudo.

Questa celebrazione della bellezza, qualunque sia il soggetto, è una specie di ricerca di armonia: d'altronde cerco sempre di trovare, nel paesaggio o nell’immagine della natura, l’armonia, e di trasferirla a colui che guarda. Per me dipingere è anche cercare di mettere ordine dentro di me e nel mio rapporto con le cose e vorrei che chi osserva il quadro potesse avere lo stesso sentimento di pace.

Ho sempre in mente la sensazione di semplicità che si prova guardando una Madonna gotica: sembra che tutto sia meraviglioso, così come mi pare dopo un concerto, l’ovazione con cui tutte le persone in sala, riunite grazie alla musica, condividono uno stesso sentimento; questa condivisione e questa comunicazione sono un miracolo e vorrei che l’arte potesse rinnovare continuamente questo miracolo.

Quindi quella dell’artista è una figura estremamente importante, potremo quasi dire di utilità sociale; forse è per questo che spesso si discute a proposito della libertà dell’artista da vincoli o pressioni che possono in qualche modo condizionarlo. Lei che cosa ne pensa?

Dice Paul Valery: “L’arte mette dei vincoli e muore di libertà”. Alcune delle più grandi opere d’arte della storia sono opere di committenza e questo non ha certo impedito agli artisti di esprimersi pienamente. È curioso come certi registi cinematografici abbiano realizzato le loro opere migliori quando non avevano grandi mezzi a disposizione mentre disponendo di strutture hollywoodiane hanno prodotto opere di qualità scadente. D'altronde credo che ogni artista nella misura in cui non muore di fame, sia libero e che talvolta i limiti posti da una committenza o dalla mancanza di mezzi, obbligandolo a uno sforzo di creatività maggiore, gli consentano di lavorare in modo qualitativamente migliore.

Mi ha già detto il suo parere sulla funzione della tecnica in generale per ciò che riguarda il lavoro di un artista; ora vorrei chiederle che cos’è che la spinge a confrontarsi con tecniche diverse dalla pittura come la grafica, di cui abbiamo fatto cenno, o la ceramica che ho visto da lei trattata con particolare gusto e felicità di risultato.

Credo che cambiare tecnica e materiale rappresenti uno straordinario arricchimento creativo. Quando, per esempio, si ritorna alla pittura dopo avere lavorato in litografia, si scopre di avere imparato una economia cromatica più rigorosa. Nel fare una litografia c’è infatti il vincolo del numero di colori, che possono essere otto o dieci al massimo; trovo questo vincolo assolutamente positivo e credo si trasferisca in modo quasi automatico alla creatività pittorica Se ci fosse la libertà di fare una litografia a cento colori si farebbe un pessima litografia.

Prendiamo poi la ceramica; quando lavoro su un pezzo, il primo vincolo è quello della forma; ma a me piace lavorare in modo rapido e ciò che mi appassiona nella ceramica è che di colpo mi si presenta una forma che mi sembra esattamente quella che volevo fare. Talvolta parto da uno schizzo ma poi sono obbligato a modificarlo perché qui c’è un’ansa, là un piede, là ancora il becco della brocca e alla fine esce qualcosa che non avrei mai immaginato all’inizio e che mi pare assolutamente perfetta. Ecco è questa sorpresa che mi appassiona. C’è sicuramente una tensione, un rapporto tra volume e disegno ed è l’opera che comanda e mi chiede di adattarmi. Questo processo me lo ritrovo nella pittura, dove spesso parto con un’idea e durante il lavoro il quadro si trasforma, rispettando e modificando allo stesso tempo l’idea di partenza. È questo che succede e senza questo non potrebbe esserci la componente dell’avventura, che ritengo fondamentale per il lavoro dell’artista

Pierre Boncompain, lei ama dire che il suo nome deriva da Boncompagni, la nobile famiglia italiana che ha avuto tra i suoi componenti persino un papa, e che le sue origini sono probabilmente italiane. Ipotesi genealogiche a parte, qual è il suo rapporto con l’Italia?

Quando penso all’Italia penso prima di tutto all’arte italiana, e in particolare ai primitivi fiorentini e senesi che considero i più grandi artisti di tutti i tempi.
Mi sento prima di tutto mediterraneo e come ho detto credo che la mia famiglia artistica sia quella solare latina molto più di quella nordica olandese o fiamminga. E poi sento che i miei geni hanno un’origine italiana. Sono nato nella Drôme, non lontano da dove visse Petrarca e dove si parlava italiano; praticamente il Sud della Francia era una parte dell’Italia e io non posso che sentirmi un po’ italiano.

Allora non le dispiacerà, se mi auguro di vederla la prossima volta in Italia.

Ci sono stato molte volte in Italia, ma ci torno ogni volta con entusiasmo e gioia quindi non solo non mi dispiace il suo augurio, ma credo che sia proprio il più bello che lei mi possa fare.


 

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