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Duane Hanson: More than reality



Sergio Garufi




Dopo Francoforte e Stoccarda, approda anche al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano More than reality, la grande retrospettiva dello scultore americano Duane Hanson, scomparso sei anni fa in Florida a causa di un tumore.

Nel catalogo della mostra si legge una calzante citazione di Michel Houellebecq fatta dal critico d'arte Thomas Buchsteiner, che cita l'epigrafe dell’ultimo romanzo (Lanzarote, edito da Bompiani) del narratore francese, laddove dice "il mondo è medio".

Difatti il soggetto principale di Duane Hanson è la gente comune, sono i tipi ordinari, anonimi, quelli che nessuno nota, colti in pose statiche, durante le pause di lavoro, quando assumono quell’aria trasognata, lo sguardo spento, introspettivo o di banale vacuità. Appartengono preferibilmente a classi medio-basse, quelle che vivono con maggior rassegnazione la loro condizione sociale ed economica, senza più speranze di miglioramento; ed esprimono la malinconia e la vuota disperazione di chi non ha più desideri, di chi ha accettato passivamente nella vita un ruolo di comparsa.

All'interno, disseminate nello spazio neutro ideato dall’architetto Gardella, incontriamo una trentina di sculture che riproducono due turisti con lo sguardo assente rivolto verso un invisibile tabellone delle partenze, un body builder annoiato sulla panca, un paio di bimbi intenti a giocare su un tappeto, una massaia con le borse della spesa, una cameriera, una guardia giurata, due muratori vicini a un ponteggio, un imbianchino imbrattato di vernice, una donna delle pulizie di colore.

Proprio quest’ultima è, a mio avviso, una delle figure più interessanti, con quella targhetta identificativa appuntata sul petto, emblema di un’America talmente spersonalizzata e massificata da aver bisogno del cartellino col nome per assegnare una minima parvenza di identità. Come nel caso della donna delle pulizie, ognuna delle sculture è riprodotta con i suoi attrezzi del mestiere e con gli oggetti di uso quotidiano che gli sono propri, contaminando così di arte ambientale l’iperrealismo di Hanson.


I visitatori le scrutano da vicino, con attenzione, soffermandosi sui minimi dettagli, sorprendendosi ogni volta per la prodigiosa verosimiglianza di queste creature in fibra di vetro. Si capisce che l’artista gioca con lo spettatore, con lo sconcerto che la cruda schiettezza dell’aspetto ordinario delle sue figure provoca, e pure con la sensazione di estraniamento che suscita inserendole in un ambiente che non è il loro. C'è chi le rifiuta, vedendoci solo del trash involontario, robaccia da museo delle cere; e chi ne rimane affascinato, e ne percepisce il fondo morale.

Sui muri bianchi del PAC c'è una scritta interessante, un pensiero dell'artista. Dice: "Io non riproduco la vita, faccio una dichiarazione sui valori umani. La mia opera si occupa di persone che conducono un'esistenza di pacifica disperazione. Mostro il vuoto, la fatica, l'invecchiamento, la frustrazione. Queste persone non sanno reggere la competitività. Sono degli esclusi, degli esseri psicologicamente handicappati."

Gli sguardi dei visitatori mostrano un distaccato interesse. Sono opere che provocano emozioni, e si avverte che proprio questo era l'intento dell'artista; ma allo stesso tempo ci si sente diversi, forse superiori, sicuramente non anonimi come quei modelli. Sarà perché si pensa, in genere, che l'appassionato d'arte possieda una cultura e una consapevolezza sulla propria condizione che a questi (s)oggetti sembra mancare.

A un certo punto del percorso c'è l'inevitabile sosta per seguire il video, che assembla due filmati di epoche diverse. Il primo girato negli anni 70, quando Hanson cominciò a creare i suoi cloni in fibra di vetro; e il secondo verso il '95, cioè poco prima che morisse. In quello più datato, privo di voice over, l'artista spiega le varie fasi della tecnica esecutiva: come sceglie i modelli, le posture, come realizza i calchi, li dipinge e li veste; mentre in quello più recente un Hanson invecchiato e ingrassato, curiosamente simile a molte sue creature, risponde con scarso interesse alle impertinenze di un intervistatore che pare un piazzista televisivo.

Particolare interessante, quanto più Hanson si adopera, con meticoloso scrupolo, per ottenere il massimo di verosimiglianza col modello, non tralasciando neppure il dettaglio più insignificante; tanto più ci restituisce stereotipi, cliché, uomini-massa indistinguibili l'uno dall'altro se non per l'identificazione - avvilente - con il mestiere svolto. Più che persone sembrano dati statistici, fasce di reddito, codici a barre. Le nonpersone di Duane Hanson paiono così figlie dei nonluoghi di Marc Augé; non a caso, come scriveva il francese, “lo spazio del nonluogo non crea né identità singola né relazione, ma solitudine e similitudine”.

L'opera migliore, a mio parere, è quella in cui un giovane biondo sta seduto al tavolo di un bar con una bottiglia di coca-cola in mano, mentre osserva fisso la persona davanti a sé, cioè una donna un po' in là negli anni, sovrappeso, vestita in modo sciatto, che ha appena consumato una coppa di gelato ed è intenta a leggere una rivista popolare. Il giovane è lo stesso artista colto nell'attimo in cui, con un sorriso ineffabile, sceglie il prossimo modello. C'è una curiosità e un’attenzione verso l'altro, in quello sguardo, che pare racchiudere il fondamento stesso della vocazione narrativa. In quest'opera l'iperrealismo diventa concettuale, Hanson ricorda il Velasquez de Las Meninas.

Sarà la suggestione della mostra, ma all’uscita si prova un piccolo brivido di irrealtà: ci si guarda intorno fra i visitatori stanchi e accaldati e ci si scopre in fondo tutti uguali; nell’abbigliamento informale, nelle espressioni infastidite per il caldo e l’umidità, nell’insofferenza per le borse pesanti contenenti il catalogo. Forse il vero, autentico insegnamento di Hanson è che l’omologazione è un processo graduale, irreversibile, che ci riguarda tutti indistintamente, a prescindere dalla cultura, dalla condizione economica, dalle classi sociali di appartenenza. Come nell'utopia di Tlon, la realtà sta cedendo alla finzione.


More than reality, 29 Maggio - 1 Settembre 2002
Padiglione di Arte Contemporanea, via Palestro 14, Milano.
Orario 9.30 - 19 chiuso lunedì. biglietto intero 5,20 euro
Per informazioni : www.pac-milano.org 

 

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