Tutto diventa "schifano”
Monica De Bei Schifano
Quando mi presentarono Mario avevo vent'anni e lui era completamente
diverso da quanto avessi mai conosciuto prima. Rimasi completamente
disorientata, indissolubilmente attratta. Questo “disagio",
un po' come quando una cosa contemporaneamente ti fa bene ma anche
un po' male, l'ho sempre provato. Le prime cose di lui che mi
tornano in mente sono la sua voce, che percepii subito fragile, un
po' consumata , un timbro né maschile, né femminile, ed il suo
profumo di fiori, inglese, che si mischiava all'odore inebriante
della nitro che impregnava lo studio e i vestiti. E naturalmente
Mario che dipinge, Incontenibile, tutto ciò che gli capita tra le
mani o sotto gli occhi, dipinge tutto.
Me lo ricordo lavorare in tutte le case dove
abbiamo abitato, la prima ad Ansedonia, per me che venivo dal liceo
artistico era come Dio, tutto il contrario di quello che avevo
imparato, possedeva un controllo della tecnica inimitabile, solo
apparentemente emotivo, era molto veloce e senza ripensamenti. Era
meraviglioso quando già dalla prima stesura del colore di base
sulla tela vedevi con chiarezza che sarebbe uscito un quadro pulito.
Era pericolosa quella felicità di esecuzione, ti dava l'illusione
che anche tu avresti potuto esprimerti così semplicemente. Tutto
era sporco di colore, i pavimenti, le sedie, i tavoli, le foglie
degli alberi, i vestiti e le mani, sulle mani di Mario rimaneva
permanente un po' di colore, l'ultima immagine che ho di lui sono le
sue mani strette tra loro con le unghie sporche di smalto blu,
arancio, verde.
Mario non leggeva mai quello che i critici scrivevano sulla sua
pittura, diceva: "spero sempre di fare quadri senza inutili
volontà di spiegazioni", ma spesso mi chiedeva di leggere
degli articoli e dirgli cosa ne pensavo. Vivere con il suo lavoro
era assolutamente diverso che osservarlo poi oggettivamente in una
galleria o in un museo, e Mario era la sua pittura. Il lavoro ci
seguiva anche in vacanza, centinaia di tele bianche come lenzuola
rimanevano per giorni sotto i patii delle case al mare, e non era
raro che ritornassero nello studio di Roma ancora immacolate. Mario
rimandava per giorni, con la mia ansia che cresceva per le date da
rispettare, e le telefonate allarmate dei mercanti d'arte che
volevano consegnato il lavoro. Continuava apparentemente tranquillo
a guardare la televisione, a dormire, ogni tanto scendeva alla
spiaggia a farsi un bagno, oppure lo trovavi in cucina a trafficare,
mi chiamava mille volte al giorno, non facevo in tempo ad
allontanarmi dalla stanza che già mi rivoleva lì per una
sciocchezza.
Poi ad un certo punto decideva: Moni stasera si lavora, e il giorno
dopo il lavoro era fatto. Mi ha regalato da subito bellissime
macchine fotografiche e polaroid, telecamere sempre più piccole e
sofisticate, scattava foto in continuazione, a me, alla televisione,
agli amici. Per me è stato conoscere e imparare un nuovo modo di
guardare. Quanti ragazzi, che a studio gli passavano i colori,
frastornati dalle sue urla irritate per la lentezza che riscontrava
sempre negli altri, e dal suo imbarazzo per provarne disagio, sono
rimasti folgorati dalla sua facilità di fare le cose, dal suo
rapporto col denaro, così disinvolto, e quanti ne sono stati
sottomessi e annientati, perché per gli altri non era reale.
Sua madre raccontava che a Homs in Libia dove era
nato, tutti lo adoravano. Certo Mario dell'Africa aveva ricordi
infantili, ma Leptis Magna bianca sì, quella se la ricordava, la
luce, la sabbia e le palme, il sole, e quella prima grande
separazione della sua vita, gli apparteneva come nostalgia di un
eden perduto. Il “demone” che ci accompagna ancor prima della
nascita e dà il senso e l'unicità alla nostra esistenza, ha
convissuto con Mario come squilibrio d'una alchimia cerebrale, un
dolore lenito da cattive abitudini. Una zona d'ombra da dove
nascevano le intuizioni, diceva la coscienza di quello che ero l'ho
avuta tardi, quando la mia immaturità aveva innalzato dei muri
intorno a me, aveva piantato radici profonde. E aver capito quanto a
fondo dovevo andare per capire la mia immaturità, la mia pseudo
vitalità era doloroso, ho capito le cose che mi mancavano.
Dal nostro incontro è nato nostro figlio, adorato da entrambi, che
sino alla fine ha incarnato l'amore che provavamo uno per l'altro, e
anche lui è entrato immediatamente nella sua pittura, e per lui è
stata fatta della pittura. L'attenzione di Mario per tutto rendeva
compatibili tra loro le immagini più distanti, fotografava
incessantemente quella che faceva sua di televisione, memoria futura
inesauribile che entrava nel suo studio: scene di film, ragazze,
pittura, città, grattacieli, paesi lontani, fotogrammi di
telegiornali, pubblicità, musica, la natura, animali selvaggi per
farli vedere a nostro figlio, Moni dobbiamo portare Marco in Africa,
tu non sai la bellezza.
“Tutto” intitolò una sua mostra del 1963 e sino all'ultimo
giorno della sua vita dipinse tutto come un quadro mai finito e
continuato nel successivo. "La mia vita è basata sul presente
e sul futuro, come la mia pittura, il passato è una dinamica è
come i ricatti". Non ha mai smesso di affascinarmi quel suo
rispetto quasi infantile, ma non ingenuo, per le immagini. E molto
semplicemente definì il suo lavoro: ho coscienza di quanto siano
limitate le immagini create dall'uomo-solamente-pittore, la fantasia
rischia di essere uno spazio indefinito in cui ci si smarrisce, non
c'è mai in me il desiderio di ricreare la realtà, le cose sono
tutte diverse tra loro ed io voglio rappresentarle nella loro
diversità la mia maniera è guardare.
Roma, 22 ottobre 2001
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