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In clausura



Alberto Boatto




Solo oggi che mi accingo a rendergli testimonianza, comprendo compiutamente come sia entrato nell’immagine artificiale e nella droga, come altri un tempo entravano in clausura . Nella solitudine ci si propone d’incontrare il mondo : è sufficiente disporre di una chiave di apertura , di una sorta di passepartout che dischiude le molte porte di accesso. E della scienza capace di servirsene, sarà bene sottolinearlo .Per i monaci questa chiave era fornita dalla fede e dalla visione contemplativa: per lui saranno le droghe e le immagini, le une intensificanti le altre; l’acido e le erbe assieme a quell’Aleph messo a disposizione di chiunque dalla tecnica, nel modello accessibile ma efficace di uno schermo televisivo. A patto anche in questo caso di mostrarsi esperti nei processi a ritroso, su per le salite e contro le correnti. Voglio dire che se è facile far discendere l’Aleph a livello di schermo televisivo, non è altrettanto facile far percorrere allo schermo televisivo il cammino di ritorno, che lo promuova alla medesima dignità dell’Aleph. Riporto due definizioni che di questa sfera di cristallo ha dato Jorge Luis Borges: “Un punto dello spazio che contiene tutti i punti”. E ancora: “Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della Terra, visti da tutti gli angoli”. Siamo circondati da oggetti magici, ma non sappiamo adoperarli; anzi, non li scorgiamo nemmeno.

Un giorno, ma non improvvisamente, prese la decisione d’installare un televisore in ciascuna stanza del suo appartamento - un ampio attico aperto su un lungofiume che delimitano platani monumentali e, più in là, le acque di un fiume inquinati - , perfino nell’ingresso e nella stanza da bagno, mentre nell’annesso atelier, spazioso come un loft newyorkese, collocò, non uno solo, bensì una serie di televisori tutti eguali. (Alcuni anni dopo, non appena entrarono in circolazione i nuovi apparecchi a colori, sarà tra i primi in città a possederne, e avrà cura di sostituirli uno per uno). Da quel giorno le finestre dell’appartamento rimasero chiuse notte e giorno, con le serrande e con gli scuri sbarrati, mentre i televisori rimanevano accesi ventiquattro ore su ventiquattro ore, sintonizzati ognuno su un diverso canale. Dalla parete dell’atelier l’infilata dei televisori poteva ostentare in permanenza la simultaneità di tutti i programmi. Oppure il vuoto, la luce aggressiva e lo scroscio, a notte inoltrata e al primo mattino, quando tutte le stazioni, una dopo l’altra, avevano cessato di trasmettere.

Così lo spazio della sua abitazione si trovava immerso in un’atmosfera elettrica surriscaldata, sempre sotto pressione, uno scorrimento continuo di fotogrammi, di sganciamenti e di vibrazioni reticolari. Ma non già di suoni, poiché l’audio veniva tenuto sempre spento. Per una diecina di anni, questo laboratorio-casa-stazione ricevente esclusivamente video delimiterà la sa clausura, di cui rispetta perfino la consegna obbligatoria del “silentium”. E lui ne sarà l’unico utente, il solo addetto alla ricezione; mentre la fauna variegata che prenderà a frequentare il suo spazio notturno, lo frequenterà per tutt’altri motivi: snobismo, sesso, noia, droga, passione.

Mentre i migliori della generazione precedente - i padri o i nonni - che è la generazione degli ultimi avventurieri occidentali, sono partiti per incontrare il mondo, riuscendo a rinnovare, seppure con fatica, il mito del viaggio lungo i meridiani e i paralleli, lui intuisce che è possibile ribaltare questa posizione col suo fascino e con la sua antica gloria, che i mezzi per farlo ci sono. Lui prende allora la decisione di attendere che il mondo venga a lui - la montagna alla fine si sposta per andare incontro a Maometto, lo ripaga della lunga attesa - . adesso l’avventura consiste nel ricevere il mondo nel chiuso del proprio soggiorno e del proprio atelier, fin dentro la vasca da bagno o la camera da letto. L’avventura consiste nel far convergere tutto l’universo in unico punto, lo schermo televisivo e, attraverso questo schermo, fin dentro le fessure dei propri occhi.

La droga che inizia a prendere sistematicamente a partire da una sera di estate, gli porge la chiave essenziale, prima di tutto per far saltare fuori dal riquadro televisivo lo specchio magico di cristallo che pure vi si nasconde. Da una parte, l’acido e le erbe lo riparano dal mondo - intendo dal mondo interno -, trasformano in un pieno il proprio vuoto interiore, mettono un freno all’erosione dell’angoscia, anestetizzano, proteggono, isolano. Dall’altra, acuiscono la percezione, sino a rendere fulminea e quasi infallibile la sua presa, come è infallibile la lingua del formichiere.
Così svuotato e ricaricato ad un tempo, può disporsi a ricevere le immagini, a tentare di trasformare la loro apparenza in altrettante apparizioni, affascinanti e casuali, impossibili da decifrare, dopo che il collegamento fra rotondità delle pupille e retroterra intimo, fra iride e conoscenza accumulata, è stato reciso dalla droga. All’interno dei suoi occhi divenuti troppo lucidi, le immagini si aprono, salgono in verticale, esplodono come fuochi d’artificio, oppure sbandano, oppure ancora fluttuano come fiori e vesti gettati nell’acqua, sempre per un brevissimo tempo per poi dileguarsi.

Solo dopo aver consumato migliaia di fotogrammi, arriva ad apprendere la scienza d’intercettare le immagini artificiali esclusivamente come visioni, non già come componenti e supporti, quali sono, di una narrazione, di un discorso intellegibile, di un messaggio giornalistico, spettacolare o pubblicitario qualsiasi. A poco a poco ciascuna immagine, penetrando dentro gli occhi come una muta apparizione, subisce una metamorfosi. In superficie, rafforza il proprio maquillage, la sua veste pellicolare; stringe quei rapporti ponderali che allacciano le differenti intensità delle ombre e delle luci e dei colori. Nella sua essenza, si chiude nella sua particolarità; è unicamente spezzone, frammento, è vero, ma divenuto in maniera sovrana autonomo e assoluto. Così come si separa dall’immagine che viene prima come da quella che viene dopo, così recide qualunque collegamento che possa stabilire l’intervento della memoria e del sapere.

Ad esempio, un occhio è sempre un occhio destro o un occhio sinistro, ma ora lo è come se non avesse più bisogno dell’altro, lo avesse dimenticato. Lo stesso accade per una scattante gamba femminile fasciata in un collant verde; per una spalla nuda gonfia di muscoli; per un guanto rosso; per l’ala trasparente di un coleottero viola. Così la mano aveva dimenticato di continuare nell’articolazione del polso; la finestra aveva cessato di far parte di una facciata; la ruota di una automobile aveva preso a girare freneticamente per suo conto; monosillabi quali la, re e go avevano rinunciato a collegarsi in una parola compiuta. Dopo lo scollamento operato dalla droga, ciò che veniva impedito era di completare l’immagine mediante l’applicazione automatica di schemi anteriori alla comparsa dell’immagine stessa.

Il giorno in cui si convinse che vediamo meno immagini delle molte immagini che riconosciamo semplicemente, mise nel dipingere lo stesso metodo con cui da alcune stagioni portava avanti la sua esperienza delle droghe. Questa decisione coincise con un periodo difficile della sua vita, che in seguito era destinato a ripetersi più volte: si trovava disteso sopra una branda dell’infermeria del carcere cittadino, dove era stato internato sotto l’accusa di spaccio di eroina, in preda ad una crisi di forzata astinenza che assomigliava ad un prolungato mal di mare.

Si distraeva osservando la quadricromia di un volto di donna appesa ad un muro ad una distanza di meno di un metro; ma solo quasi al termine della sua giacenza si accorse con sgomento che alla figura cui aveva chiesto consolazione, mancavano il naso e la chiostra sorridente dei denti. Quando l’indomani, sfinito ma esaltato, ritornò nel suo studio-abitazione, passando da una clausura forzata ad una libera clausura, e ritrovò nell’oscurità i televisori accesi ma vuoti davanti a file di poltrone altrettanto vuote, pensò alla pittura di Savinio, ma immaginò anche che i suoi quadri futuri lo avrebbero definitivamente messo al riparo da tutta quella desolazione.

Aveva sempre manipolato con grande disinvoltura le linee e i colori, ma ormai si era reso conto che i tubetti e i morbidi pennelli non bastavano più. Gli occorreva uno strumento più freddo e oggettivo e soprattutto più veloce. Passare all’uso della macchina fotografica rappresentò una decisione inevitabile e spontanea. Acquistò diversi apparecchi fotografici; un altro paio ne ottenne in cambio di alcuni televisori in bianco e nero che teneva in disarmo. Poi distribuì tutti questi apparecchi in punti strategici del suo appartamento, dove nel buio facevano da guida solo il riverbero e il bianco violento dei fotogrammi, in modo che ciascuno schermo tv venisse a trovarsi dentro l’angolo di ripresa di un obiettivo fotografico. Lui stesso prese la frequente abitudine di portare a tracolla una Nikon, piazzata a metà del busto.

Sentiva di trovarsi al tempo stesso all’inizio del suo lavoro effettivo e al suo primo compimento, in un momento dove gli era dato incontrare tanto l’inquietudine dell’attesa che la distensione del risultato. Con prodigalità straordinaria il mondo nelle sue immagini defluiva senza tregua dentro le fenditure dei suoi occhi, vi deflagrava in apparizioni istantanee e successive per poi sparire, e lui si disponeva a porre la sua arte al servizio della sua visione.

Per rassicurarsi amava dire che si trattava di un problema esclusivamente tecnico e che si articolava in tre momenti: la cattura veloce del fotogramma mediante lo scatto della macchina fotografica; quindi il trattamento dell’immagine ottenuta, che si limitava al viraggio con uno solo, al massimo con due colori - il verde, il rosso, il viola, l’arancione, il blu, il giallo -, preceduto qualche volta da un ritaglio, sempre nell’intento che non andasse dispersa la pienezza dell’apparizione. Clic fotografico, colpo di forbice estemporaneo ma non sistematico, viraggio cromatico: in questo consisteva quel problema puramente tecnico che doveva affrontare infinite volte per moltissimi giorni, chiuso nel suo appartamento, dove l’espansione del laboratorio, se aveva cancellato quasi ogni traccia di abitazione, si accordava molto bene con la clausura.

Tutto dallo schermo tacitamente veniva incontro al suo sguardo; bastava aver appreso come lui l’arte di attendere e di saper vedere. Giunse pure il giorno in cui entrò nei suoi occhi la stessa figura, assieme allo spazio e agli oggetti familiari che gli stavano attorno; come sopraggiunsero il giorno e la notte e il giorno seguente in cui penetrò nei suoi occhi la Terra medesima con la sua morbida curvatura e con la sua dilatazione equatoriale. Così come si trovò costretto a catturare se stesso, si trovò costretto a catturare e a fermare la Terra in tutta la sua sferica interezza.

Fra questi estremi segnati da se stesso e dal globo terrestre, stava compreso il tutto che gli veniva incontro dallo schermo e che lui distaccava in una moltitudine di immagini. Ma per quanto avesse raggiunto l’indifferenza nei confronti della qualità delle immagini, e che le immagini stesse scorressero ognuna confinata nel proprio isolamento - come altrettanti punti esclamativi privi di punti fermi e di interrogativi -, pure due correnti di forza spartivano questo universo in due continenti. Uno era il continente che si distendeva sotto il segno del mirum; l’altro era il continente che si distendeva sotto quello del tremendum. E come scoccavano apparizioni mirabili, da cui si sprigionava una freschezza avvertibile quasi al tatto e all’odorato, così scoccavano apparizioni tremende, deragliamenti, naufragi, stragi, incendi, messe a morte, dove una irrefrenabile comicità da cinema muto - in quei momenti mi ricordavo del silenzio dei suoi televisori - non attenuava affatto, ma anzi accelerava il transito dell’orrore. Al di sotto di questi due continenti, portentosi ma di segno contrario, galleggiava un fondo di detriti, composto solo di tedio, di infiniti punti morti e di uno scarto incessante di immagini, che arrivava ad intaccare, assieme alle energie fisiche, pure il sistema nervoso fino al collasso.

L’esperienza cui si era dedicato modificò a poco a poco il suo aspetto, operando una singolare scissione, che veniva recepita tuttavia in modo diverso. Per i pochissimi che continuavano a frequentarlo, ciò che li colpiva maggiormente era la scissione che si era aperta fra i suoi occhi e il resto logorato del corpo, mentre per coloro che lo avvicinavano a grandi intervalli di tempo o che si erano abituati a udirlo al telefono, era piuttosto la distanza fra gli occhi e la voce a provocare turbamento. Nel suo universo di immagini mute, non aveva mai parlato molto; ma adesso le parole che diceva sempre più rare e cifrate, venivano pronunciate con una voce rovesciata completamente verso l’interno, che passava attraverso filtri isolanti di morbidezza. Il suono era soffice, velato, come strappato al silenzio. Quando lasciava cadere parole come “tempo istantaneo”, “evidenza”, “non felicità”, “tecnica”, “obiettività”, “consunzione”, “non impazienza”, sembrava che attorno a queste parole-chiave aumentasse il volume del disagio e della separazione.

Mentre così parlava o taceva, ciò che accadeva più di frequente, i suoi occhi mostravano per segni profondi di abitare uno spazio separato. Aveva sempre avuto degli strani occhi scuri, “da arabo”, come erano stati definiti, da donne più volentieri; ma adesso queste nere pupille nuotavano dure, brillanti, allucinate, dentro il bianco dilatato degli occhi. Lì, come sul resto del corpo rigido come una marionetta, la droga, assieme alla ricezione ininterrotta delle immagini, aveva provocato le sue perturbazioni evidenti.
Molti anni fa, nel dedicargli un mio libro, dove una mia figura immaginaria incontra l’augurale conferma nel suo personaggio, ho scritto sul frontespizio: “a M. S., da sempre “psiconauta”. Da parte di A. B., Roma, 11 marzo 1982”.



 

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