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Il pittore "civile"
Fulvio Abbate
Per l'occasione, sono andato a cercare un suo catalogo del 1991.
Dieci anni fa, giorno più giorno meno. In quel momento, la storia
del mondo era abitata dalla bombe della guerra del Golfo. E così
Schifano aveva preso a dipingere soprattutto case in fiamme. Quelle
di Bagdad, forse. Un insieme di poveri edifici piazzati sotto i
bombardamenti, case sghembe appena colpite dai missili; scud e
patriot che vanno e vengono nel cielo come in ogni avventura bellica
che meriti d'essere raccontata al mondo. "L'anno caldo" è
uno dei titoli.
Non c'erano, però, soltanto le case in fiamme. Ragionando sulla
guerra, sempre in quei giorni, Schifano realizzò infatti una grande
tela chiamata "Tearful", che poi significa "in
lacrime". Un quadro nato da una fotografia, come moltissimi
altri suoi lavori.
All'origine di "Tearful" c'è soltanto un'immagine di
guerra pubblicata su "Time" il 10 dicembre 1990. La foto
in questione mostra la partenza di un contingente militare americano
per il fronte del Golfo. La scena di un addio: un padre in mimetica
si asciuga le lacrime, le porta via dal viso col dorso della mano,
in un gesto istintivo, davanti a lui c'è un bambino, probabilmente
suo figlio, un bambino smarrito, sperduto, immerso nello stupore
dell'infanzia. E' una foto drammatica e struggente, come non se ne
vedevano, forse, dai giorni dello sbarco dei Rangers in Normandia,
dove chi non piange - ossia gli altri soldati sull'attenti -
manifesta comunque il proprio sgomento, magari tenendo il capo
chino; esattamente così è quel documento.
Nel quadro di Schifano, l'uomo in lacrime è al centro di un caos
informe, quasi stesse vivendo pochi istanti prima della nascita
dell'universo e delle sue forme, mentre del bambino resta appena una
macchia bianca, resta il suo vuoto; esattamente come in un negativo
fotografico.
Ecco, "Tearful", sia pure nella sua fantasmaticità, è un
quadro "civile", è la "Guernica" di Mario
Schifano, un'opera che potrebbe vivere perfino al Palazzo di Vetro
dell'ONU, ma è anche un autoritratto ideale, una dedica a se
stesso. Sembra quasi che Schifano abbia voluto sostituirsi al
national guardsman John Moore (è il nome dell'uomo in lacrime della
foto) per raccontare in prima persona una storia del mondo, la sua
guerra del momento, le sue lacrime di sempre, l'idea della perdita,
la dimostrazione del sentimento, dell'assenza, della famiglia, del
vortice della storia che - scusate la retorica - porta con sé ogni
cosa, perfino la stessa pittura.
Chissà come, mi viene adesso in mente una poesia di Boris Vian che
dice esattamente così: "Non vorrei crepare prima di avere
conosciuto il giornale a colori".
C'entrano, questi versi, sì che c'entrano in qualche modo, con il
senso della nostra storia. Riguardano infatti il bisogno
incancellabile d'essere testimoni del mondo. Intendiamoci, Schifano
si sarebbe immediatamente schermito davanti a una citazione
letteraria, ne avrebbe rifiutato comunque lo strazio, e perfino il
pianto dirotto, l'avrebbe rifiutata risolutamente, resta però il
fatto che “Tearful", con tutte le sue lacrime dichiarate, è
l'opera più struggente e sincera, al limite della confessione
autobiografica, fra tutte quelle che ricordo d'avergli visto
dipingere; è appunto l'opera (ma lui preferirebbe che si dicesse
"lavoro") che ne conferma anche il sentire
"civile", l'amore per la verità. Perché tirare adesso in
ballo un quadro poco noto, e per giunta tardo, della sua produzione,
non sarebbe stato più naturale e più semplice accennare ai
"monocromi", alle polaroid, ai "paesaggi
anemici", al "futurismo rivisitato a colori", alle
cose che chiunque potrebbe riconoscere senza difficoltà?
La risposta in realtà c'è: in quest'occasione, mi interessa
parlare soltanto di Schifano pittore "civile"; lo ripeto,
parlare del suo modo di esprimere il proprio NO. Ne aveva fatto
addirittura un quadro, di quel suo NO. Addirittura, sarà stato il
1994, il NO di Schifano finì sui manifesti di Rifondazione
comunista. Glielo chiese espressamente il segretario di allora,
Sergio Garavini, per una campagna elettorale referendaria. Bisogna
proprio dire che sui muri delle città faceva davvero la sua porca
figura il NO rosso di Schifano, faceva proprio piacere vederlo in
strada, era davvero una dichiarazione di chiarezza poetica.
D'altronde, Schifano non era certo uno che ignorava la storia, i
massacri, le ingiustizie, gli esodi, i genocidi che erano accaduti e
continuavano ad accadere nel mondo; lui si interessava proprio a
tutto.
Era uno che leggeva i giornali, Schifano; già, ogni mattina sul suo
tavolo da lavoro al pianterreno di via delle Mantellate, fra i
pennarelli, le foto, le forbici, i ritagli, il portacenere di marmo
nero, i cataloghi, le macchine fotografiche, fra tutte queste cose
c'erano anche i quotidiani già pronti, magari avevi l'impressione
che li guardasse appena, ma in ogni caso alla fine Schifano sapeva
quello che c'era da sapere. Quanto alle leggende, ne veniva a
conoscenza da altri, leggende tipo quella di Ronald Reagan, ormai
rincoglionito, che incontra Charlton Heston e gli domanda come vanno
gli incassi dei "Dieci comandamenti".
Schifano non c'è più da quasi quattro anni, nel frattempo, nel
mondo, sono successe un po' di cose strane, uniche: le torri gemelle
di NewYork, tanto per fare un esempio, il più evidente, sono state
buttate giù, e così siamo in guerra, una guerra mai conosciuta
prima, una guerra ancora tutta da raccontare. Quando, l'altro
giorno, al telegiornale ho visto il filmato degli uomini in strada
con gli scafandri della guerra batteriologica, ho pensato d'istinto
a Mario Schifano. Quelle immagini nuove mi hanno infatti ricordato
un altro suo quadro, sempre di undici anni fa, la stessa serie del
Golfo. Un quadro, in questo caso, non bellissimo, però utile a
capire il suo sguardo, la sua attenzione, il suo intuito sulle cose:
un soldato con lo scafandro e il fucile mitragliatore, così da
sembrare un palombaro o magari il pupazzo del Gabibbo. Ebbene,
quando al telegiornale ho visto quelli con gli scafandri rossi (o
arancione) che perlustravano una cittadina della Florida (forse
l'Hollywood locale) in cerca di tracce del bacillo dell'antrace, ho
pensato subito a lui, a cosa ne avrebbe fatto. E non credo di essere
stato il solo, l'unico, a fare questo ragionamento, in verità. Ho
pensato all'occhio di Schifano e al suo sguardo sulle cose, al modo
in cui le immagini delle due torri gemelle in fiamme e le stesse
espressioni del volto di Osama Bin Laden durante gli appelli
televisivi sarebbero entrate nel suo lavoro.
Mario Schifano, un po' per scherzo e un po' perfino seriamente,
sosteneva che gli americani, in realtà, in quel luglio del 1969,
non erano mai stati sulla Luna, diceva che si era trattato di una
messa in scena organizzata e messa a punto negli studios di
Hollywood con tanto di scenografi, sceneggiatore, direttore delle
luci, mancavano solo le comparse sullo sfondo, giusto perché la
Luna è un posto disabitato, privo di tutto.
Qualche anno fa, a un certo punto, un'agenzia di stampa gli dette
ragione, saltò infatti fuori la voce secondo cui la discesa del Lem
e lo sbarco di Armstrong sulla Luna era soltanto una montatura, una
bugia, nient'altro che propaganda; così lui poté dirmi al
telefono: hai visto, che avevo ragione? Gli interessava tutto,
proprio tutto. E in mezzo al tutto, c'era anche il pittore
"civile". Mentre dico "tutto", ritrovo
l'immagine riprodotta sulla copertina del catalogo di una sua mostra
del 1965: un incidente, un primo piano di ragazza, una freccia
segnaletica, un minuscolo paesaggio... Mi viene anche in mente,
sempre a proposito di cose "civili", un manifesto
realizzato da lui per il decimo anniversario della morte di Pier
Paolo Pasolini, nel 1985.
Ora, non si può dire che Schifano avesse una particolare sintonia
caratteriale con Pasolini, in tutta sincerità gli preferiva Moravia
("il mio Alberto", lo chiamava) forse perché in Moravia
riconosceva un tratto comune, poco incline alla nostalgia, nulla a
che vedere con il richiamo alla "forza del passato", alle
stimmate di Pasolini; anzi, di Moravia diceva che fosse un mutante,
che aveva una calotta d'acciaio a posto della testa. Ai suoi occhi,
Pasolini apparteneva invece al mondo in bianco e nero delle rivolte
trascorse, una preistoria moderna e tuttavia estranea al suo vero
sentire; una volta, lo ricordo perché ero lì, con lui davanti al
televisore, vedendolo passare dentro un documentario, ha detto:
"Guarda, c'è Pier Paolo..." Ed era come se l'ombra di
Pasolini stesse ancora lì, a percorrere lentamente il suo tempo
remoto, inconciliabile con la frenesia di Mario...
Ma stavamo dicendo del manifesto per il decennale della morte: in
quel manifesto, c'è il volto in primo piano di Pasolini, così
ravvicinato da sembrare quasi una maschera africana, e poi una
sequenza di altre foto dove Pasolini, il poeta civile Pasolini, con
il suo trench nero, e lì che si inerpica sulle dune di sabbia di
Sabaudia in un giorno di vento, è il mare d'inverno, direbbe
Loredana Berté; è l'ultimo Pasolini, il Pasolini che ha scelto di
abiurare la "trilogia della vita", l'uomo perso nel vento
ritagliato da Schifano e composto in un prisma ideale, in un film
immobile, un film di soli otto fotogrammi.
E Gian Maria Volonté fra due carabinieri in tenuta antisommossa che
se lo portano via? In quel caso, Schifano gli aveva allungato il
naso, come fosse Pinocchio preso in custodia dai carabinieri
dell'ordine costituito. Lì la denuncia, il ricordo degli anni in
rivolta, aveva scelto il viso di una favola, la più famosa. E poi
le riprese del picchetto del consiglio di fabbrica davanti a piazza
Colonna che appaiono nel suo film "Umano non umano"... E
poi le foto scattate al Pentagono durante un viaggio negli Stati
Uniti, e ancora il planisferio per raccontare la realtà dei
profughi e tutte le altre cose che sto, chissà come,
dimenticando...
Ora che ci penso, per il mio primo romanzo, "Zero maggio a
Palermo", lui fece addirittura una replica di "Compagni
compagni", e alla fine, quando tutto era già pronto, ci
aggiunse sopra una frase - "per migliorarlo, per renderlo più
attuale", così disse - una frase che suonava un po' da
raccomandazione futura: "Fulvio le cose cambiano".
Aveva ragione, tutto, proprio tutto, presto o tardi cambia. Peccato
però che in questo vortice che è la vita, e la storia, e forse
perfino la pittura, non sia rimasta la foto del bambino Mario
Schifano, lì a Homs, in costume da Zio Sam - il cilindro di cartone
a stelle e strisce sulla testa - così come lo volle vestire la sua
levatrice, la signora Beneventi, per il suo primo carnevale, nel
1936 forse, un altro mondo della storia, peccato davvero.
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