Giuseppe Biasi al Vittoriano
Riceviamo e pubblichiamo:
Fino al 4 novembre presso gli spazi del Complesso del Vittoriano a
Roma è allestita la mostra del pittore Giuseppe Biasi (Sassari 1885 -
Andorno Micca 1945), figura di punta del panorama artistico sardo
nella prima metà del XX secolo. Oltre 100 opere che ripercorrono le
tappe fondamentali della sua ricerca: dagli esordi nell’ambito dell’illustrazione,
al Secessionismo, all’intenso periodo nordafricano sino a un
conclusivo quanto polemico orientamento verso il “ritorno all’ordine”.
L’esposizione è sostenuta e patrocinata dal Comune di Roma, Assessorato
alle Politiche Culturali e dalla Presidenza della Giunta
Regionale della Sardegna. Cura scientifica e catalogo a firma
degli storici e critici d’arte Vittorio Sgarbi, Giuliana Altea e
Marco Magnani, organizzazione Ilisso Edizioni, allestimento a cura
dell’architetto Antonello Cuccu.
Con questo evento si vuole riscoprire il contributo più largo e il
respiro internazionale contenuto nell’opera dell’artista, la cui
ricerca è certamente da collocarsi oltre quel posto di assoluto
rilievo che già occupa nell’ambito dell’arte sarda del Novecento.
Grazie al sodalizio intellettuale con artisti come lo scultore
Francesco Ciusa (vincitore della Biennale di Venezia nel 1907) e il
pittore Filippo Figari e con letterati come il Premio Nobel Grazia
Deledda (della quale ha illustrato numerose novelle), Giuseppe Biasi
riuscì ad attuare l’inserimento della Sardegna nel quadro culturale
della modernità europea.
Così come Paul Gauguin, per la sua Bretagna prima e
la Polinesia poi, ma anche quanti hanno guardato con interesse all’arte
primitiva africana, Biasi si rende artefice dell’invenzione di un’immagine
d’esportazione lucida e coerente della Sardegna che, sollevando la
regione da una dimenticanza atavica, ridisegna l’isola come paradiso
esotico, terra selvaggia e ricca di fascino. Le tradizioni popolari
sono presentate non in chiave di superficiale folklore ma quali
segnali e forme di potente forza arcaica, espressa negli abiti (simili
a quelli che i Balletti Russi andavano affermando in tutta Europa) e
nei volti seducenti e intensi dei suoi abitanti, nei riti di sapore
bizantino e nei gesti quotidiani, eroici e mitici. Un “continente”
reso in pittura e divulgato mediante uno straordinario colorismo e un’ampia
varietà di soluzioni espressive.
A facilitare la fruizione della mostra, arricchita dal corredo
digrandi pannelli didattici, contribuisce un agile catalogo, a firma
dei curatori Vittorio Sgarbi, Giuliana Altea e Marco Magnani edito
dalla Ilisso, comprendente immagini a colori di tutte le opere
esposte; alcune di queste, oltre 50 tra le più rappresentative, sono
disponibili nel sito www.ilisso.it/giuseppebiasi dove è stato
realizzato un museo virtuale.
L’Artista
1905-1915: La ricerca di un’identità. Vicino, nel suo impegno per
un riscatto sociale e culturale della Sardegna, a figure come la
scrittrice Grazia Deledda e i poeti Sebastiano Satta e Salvator Ruju,
Biasi inventa un’immagine nuova dell’Isola, cercando nel mondo
popolare il fondamento dell’identità della gente sarda. Con la
creazione del mito di una Sardegna esotica e primitiva, favolosa e
fiabesca, ribalta gli stereotipi negativi attraverso cui la sua terra
era vista in ambito nazionale (landa desolata e malarica, abitata da
una razza delinquente). Pastori e contadine si mutano così in
creature dall’incedere solenne, dai gesti lenti e gravi, dalla
dignità quasi regale, il cui fascino è esaltato dal fasto barbarico
dei costumi popolari. Arcaico e moderno, tradizione rurale e
aggiornata cultura internazionale s’incontrano nei suoi dipinti e
nelle sue illustrazioni, in cui il linguaggio secessionista, memore
del decorativismo di Klimt e di Bakst, si arricchisce di notazioni
espressionistiche e dell’influsso di pittori regionalisti spagnoli
come Ignacio Zuolaga e i fratelli Zubiaurre.
1916-1923: La poetica della lontananza. Nel lungo periodo trascorso a
Milano, l’artista affina i propri mezzi espressivi ed elabora una
personale poetica della memoria sulla base della filosofia di Bergson.
Il ricco patrimonio di studi dal vero e di schizzi compositivi
realizzati spesso sulla base di fotografie, raccolto nelle periodiche
escursioni nei paesi della Sardegna interna, non è per lui che il
punto di partenza per una trasfigurazione del mondo popolare, in cui
la pittura attinge valore autonomo, si fa fantastico arabesco di linee
e colori, proiezione di una realtà più interiore che osservata,
divagazione nostalgica e sensuale. Una libertà creativa che trova
sbocco, oltre che nei grandi dipinti incentrati su pochi temi
ricorrenti, volutamente ripetuti (il corteo nuziale, la festa
campestre, i suonatori ambulanti, le figure femminili in piedi contro
sfondi neutri), nei bozzetti - dal pittore definiti sensazioni - in
cui le stesure di colore sciolte, a macchia, sfiorano l’astrazione.
1924-1927: La libertà africana. Alla ricerca di nuove fonti di
ispirazione, Biasi soggiorna per tre anni in Tripolitania, in
Cirenaica e in Egitto. Sono anni di intenso lavoro, che segnano una
svolta decisa dal punto di vista formale. Profondamente influenzato
dai miti della tradizione orientalista ottocentesca (da Nerval a
Flaubert, da Gautier a Loti), sul piano stilistico l’artista non
condivide però le tendenze accademiche prevalenti nell’Orientalismo
pittorico. La sua pittura africana, preparata da una ricca massa di
disegni e da una serie di splendidi studi dal vero che fondono
realismo e stilizzazione, nasce infatti dalla mescolanza di diverse
fonti primitive (l’arte indiana, Khmer e siamese, le maschere
indigene, la scultura faraonica) e moderne (Matisse e Modigliani, gli
espressionisti tedeschi e i cubisti). In essa prende forma un
seducente universo da Mille e una notte, in cui sensualità,
esotismo e libertà fantastica assumono peculiari toni déco .
1928-1937: La ricerca della sintesi. Gli anni
Trenta, segnati dal ritorno in Sardegna e dalle difficoltà a
reinserirsi nel contesto artistico italiano, sono un decennio di
sperimentazione che vede Biasi alternare soluzioni stilistiche
diverse: dal realismo dei ritratti contadini al decorativismo di molte
immagini di gruppi femminili, alle sintesi plastiche dei paesaggi. La
recente esperienza africana lo ha spinto ad adottare un linguaggio
più sintetico, e ad abbandonare le più vistose connotazioni
folkloristiche nella resa del mondo sardo, sul quale si riflettono
adesso tratti tipici dell’ambiente arabo; superato il gusto
ornamentale degli esordi, Biasi punta ormai a una rappresentazione
della Sardegna carica di maggior partecipazione emotiva; più vera,
anche se non necessariamente più realistica.
1938-1945: Il realismo degli anni estremi. Sul finire degli anni
Trenta la pittura di Biasi volge verso un recupero del naturalismo,
che nell’ultimo periodo, trascorso a Biella, diviene aperta
rivisitazione di motivi ottocenteschi. Sono di questo momento le cupe
nature morte e i fiori su fondo nero, i romantici e malinconici
paesaggi su cui sembra aleggiare il presentimento della morte vicina.
“Queste sue illustrazioni, come del resto tutte le cose sue, mi
fanno una grande impressione: più di ammirarle io le sento, e mi
sembrano perfette, per l’animo, per il colore locale che le rende
vive e palpitanti. La sua arte è certo destinata ad un grande
avvenire ed io glielo auguro di tutto cuore”
(Grazia Deledda, 1909).
Fino ai primi anni Dieci, Biasi è conosciuto in campo nazionale solo
come illustratore, e più particolarmente come l’illustratore dei
romanzi di Grazia Deledda. Se è la collaborazione al Giornalino
della Domenica di Vamba a segnare nel 1907 la sua apparizione nel
mondo dell’editoria nazionale, è però attraverso il sodalizio con
la scrittrice nuorese (durato ininterrottamente dal 1909 al 1917, e se
si calcola l’attività di scenografo fino al 1923) che si affinano
le sue qualità di disegnatore e si consolida il suo rapporto con
riviste diffusissime come L’Illustrazione Italiana e La
Lettura. Dalle raffinate geometrie e dai sintetici intarsi
colorati delle prime tavole per Il Giornalino, tra il 1907 e il
1909, si passa ai disegni più robustamente costruiti del 1910-11, e
da questi agli esili ritmi ornamentali, già di sapore déco,
sperimentati tra il 1912 e il 1915. La guerra porta l’artista a
introdurre nel suo linguaggio accenti più drammatici, affidati a un
violento illuminismo che evoca con pochi tratti di biacca sul fondo
nero figure simili ad apparizioni. Lo si vede nei disegni di tema
bellico pubblicati dall’Illustrazione Italiana e in molte
delle tavole realizzate nel 1917 per L’incendio nell’oliveto di
Grazia Deledda.
INGRESSO GRATUITO
Roma, Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali)
2 ottobre - 4 novembre 2001
Orario: dal lunedì al giovedì 9.30-19.30; venerdì e sabato
9.30-23.30; domenica 9.30-20.30
Organizzazione: Ilisso Edizioni, in collaborazione con Comunicare
Organizzando
Catalogo in mostra L. 40.000
Per informazioni: 06/6780664
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