Edward Munch: L’Io e gli Altri
Giorgio Cortenova
I principi fondamentali del linguaggio di Edward Munch sono presto
detti: in primo luogo la convinzione spiritualista che lo spinge a
ricercare l’essenza del mondo nel fantasma delle cose e nel loro
manifestarsi attraverso il sortilegio della visione; in secondo luogo,
ed in stretta connessione con quanto stiamo dicendo, la percezione di
una realtà duplice e speculare, che attraversa l’individuo e ne
complica la vicenda umana; in terzo, ma non ultimo luogo, lo scontro
tra la materialità e la spiritualità, la vita e la morte, fermo
restando che lo spirito e la morte rappresentano le forze enigmatiche
che non si oppongono alla vita ma ne forniscono il senso e l’energia.
Resta il fatto che l’opera di Munch é pervasa da uno stato di
permanente conflittualità, che altera la visione e la trasforma in
allarme, teatro di uno squilibrio mai risolto, di una pulsionalità
che trascende la cronaca delle umane vicende ma ne contrassegna il
destino esistenziale. Se lineari sono le premesse, di fatto gli esiti
sono raggiunti attraverso non poche vicissitudini che, di conseguenza
in conseguenza, si trasferiscono dalla vita al linguaggio e da questo
si ripresentano a quella secondo percorsi intrecciati e mai
interrotti. Vero è che la grande avventura dell'arte affonda nella
vita come metafora di una tensione inesprimibile, che ora corrode lo
spirito esaltando la materia, ora blandisce gli animi corrodendo il
corpo.
Il percorso lungo il quale s'incammina la volontà creativa di Munch
è peraltro tipico del suo tempo e della sua generazione: da un lato i
liquori che ammorbano e contemporaneamente disciolgono i vincoli
fisici della realtà, trasportandone gli esiti sui piani
"alti" di uno spiritualismo simbolista dai confini non
facilmente definibili; da un altro lato la ricaduta, da tanta
liberatoria rarefazione, verso le zone del corpo e, di conseguenza,
l'insorgere della psiche come consapevolezza di un legame inscindibile
da quello stesso corpo appena "abbandonato". In ultima
analisi, la materia non si risolve nello spirito e a sua volta questo
non si placa in quella. Storia di una lunga ed esasperata
contraddizione, la pittura di Munch s'inscrive peraltro nell'ordine
della "sconfitta", nella sua sconfinata ineluttabilità,
relativa sia alla vicenda umana che all'utopia dell'arte. Anche in
questo senso l'arte e la vita coincidevano o comunque l'una poteva
essere arrischiata nel territorio dell'altra.
Data per certa la sconfitta, essa non poteva dunque che riguardare il
dissidio originario, la radice stessa del problema, vale a dire lo
scontro tra la vita e la morte. In tal caso le cose si complicavano
parecchio; non tanto per il fatto che il problema riguardava termini
ultimativi e di per se stessi inesorabili, quanto perché lo
spiritualismo simbolista lo spingeva a risolvere nella morte i
problemi della vita, ma la sua moderna coscienza della psiche lo
induceva a destinare alla vita gli enigmi della morte.
Nel pensiero di Munch è solo attraverso la morte che la vita acquista
un senso. E' dunque da quell'emisfero che la vita dovrà essere
considerata, narrata, "significata". Tuttavia, spostato il
"luogo" d'osservazione, il contesto non si rasserena, ma si
complica in proporzione geometrica: vale a dire che tutta
l'enigmaticità della morte si riversa sulla vita; che l'allucinazione
del mistero e la consapevolezza dell'assurdo s'inseriscono nel vivere
quotidiano; che la dialettica tra la pulsione di vita e la pulsione di
morte scuote dalle fondamenta l'equilibrio dell'essere.
Non è un caso che proprio Boeklin rappresenti un riferimento
ineludibile nell'apprendistato culturale di Munch: Boklin e
naturalmente quell'isola dei morti e quel navigare tra cielo e terra,
quel trasalire dei sensi attraverso il turbamento dell'animo.
Prima di "gratificarsi" con l'apprendistato parigino e
berlinese Munch può usufruire del magistero di Christian Krohg:
niente di straordinario, il maestro opera a Oslo, è austero ma
incline ai giovani e la sua arte non preannuncia in apparenza nulla di
rivoluzionario. Tuttavia essa possiede un timbro antinaturalistico e
una capacità d'introspezione psicologica tutt'altro che trascurabili
e comunque tali da far breccia sull'animo, ben predisposto al caso,
del giovane Munch.
A tale proposito si veda la "Bambina Malata" di Krohg
premessa ineludibile per l'opera omonima di Munch. La tela del maestro
si presenta subito con un'inquadratura inesorabile, si direbbe
ritagliata al fine di contenere appena la figura della ragazza, in
modo tale da non permettere allo sguardo di sfuggire l'impatto e di
distrarsi verso altre occasioni narrative. La bambina si offre come
unico, indifferibile destinatario della nostra percezione. Ciò non
bastasse, la figura sembra ruotare su di un asse orizzontale e
sporgersi verso di noi in un dialogo intriso d’enigmatici misteri.
Infine lo sguardo: gli occhi sono grandi, spalancati, fissi al centro
di un'inenarrabile allucinazione. Essi guardano oltre gli
"spettatori", persi nel tunnel del vuoto o nel pozzo della
propria allarmata interiorità.
Quando conoscerà l'opera di Boecklin, quando più tardi si
avvicinerà a Gauguin e poi, esperienza per certi versi più
interiore, apprenderà il linguaggio spiritualista di Redon e via via
tutto il crogiolo della cultura francese che premeva sulla diga tra il
vecchio e il nuovo secolo, quando insomma Munch amplierà lo spettro
della sua cultura, la lezione di Krohg ritornerà a farsi strada,
quasi a voler rinsaldare radici primigenie che inconsciamente erano
penetrate nell'animo del giovane artista e che adesso erano pronte a
contribuire alla veloce "escalation" del suo linguaggio.
L'approccio psicologico con la realtà, la valenza psichica che
s'impossessa del corpo trasformandolo in pura energia espressiva,
l'immanenza e la presenza stessa della morte nell'impulso vitalistico
dell'anima, tutti questi sono elementi che determinano la filigrana
del progetto artistico di Munch, pronta però a rivelarsi e ad
esplodere come un vero e proprio incubo nelle opere più intriganti
del suo lavoro.
Una sorta di vigilante attesa e un'incognita dimensione dell'io, che
si spalanca nelle forme pulsionali della figura umana, s'impossessano
di corpi abbozzati e spinti al parossismo dell'anima, oppure statici e
solitari nella luce improbabile dell'alba nordica. Ciò non basta.
Infatti, quando Munch approda alla matura determinazione del suo
linguaggio, tutto ciò si manifesta secondo tipologie e
"riti" ancora inconsueti, tali da inaugurare una nuova
stagione moderna. Fatto sta che i personaggi che abitano i suoi quadri
ostentano se stessi, che lo spazio della loro azione è tanto
tangibilmente vero quanto virtualmente teatrale, che l'ostentazione è
provocatoria e la solitudine suona a condanna della sordità umana e
sociale. Fatto sta che i personaggi si "affrontano", che l'
io si proietta sugli altri cercando di acquisire a se stesso le
tipologie umane e psicologiche, oppure di proiettare queste in quelle.
Un'ombra di ambiguità ed insieme di verità, di aggressiva e allo
stesso tempo dolorante energia, attraversa il mondo di Munch come un
brivido dai contorni tragici: infatti, anche laddove l'immagine è in
apparenza più pacata e consueta, la sua pittura sa avvalersi di
quelle "cattive maniere" che sempre si accompagnano alle
pulsioni forti e tutt'altro che "educate" dell'animo umano.
Senza dubbio alcuno Munch apprende da Redon i sortilegi dello spirito,
anche per quanto riguarda la specificità del linguaggio: si pensi
all'onda delle linee e all'eco di predilezione musicale, che si
riverbera di piano in piano, di spazio in spazio, in questa pittura
"urlata" nel silenzio o invece "bisbigliata"
attraverso la risacca nordica della luce. Di Gauguin lo affascina il
fluire enigmatico del mistero che incalza nel cuore mistico dei
primitivi destini umani. Tuttavia, né il giovanile apprendistato
presso Christian Krohg (Edvard ha appena diciannove anni), né le
successive residenze parigine, con la conoscenza diretta dell’arte
di Van Gogh, Cezanne, Bonnard, Valloton ed in genere la cultura
accampata nella capitale francese, avrebbero potuto innescare la
straordinaria innovazione del linguaggio di Munch, se non fossero
intervenuti alcuni eventi decisivi.
Uno di questi era rappresentato dalle vicende stesse della sua ancor
giovane vita, precocemente visitata dalla morte; l’altro va
rinvenuto nella straordinaria capacità di percepire la grande lezione
di Toulouse-Lautrec. Solo Picasso avrà la stessa velocità intuitiva
del maestro di Oslo, anche se altri, in seguito, saranno i destini
della sua pittura.
Si pensi, ad ogni buon conto, a quanto affermava Dujardin, nel 1888, a
proposito della ritrattistica: "L’artista - sosteneva il
critico - dovrebbe isolare i tratti essenziali del suo soggetto e
catturarne il carattere con la maggiore economia possibile di linee e
colore. L’arte giapponese fornisce un buon esempio, e le tecniche
dell’arte giapponese, come quelle degli artisti moderni, consistono
in contorni riempiti con zone di colore piatto, dipinti a comparti,
che ricordano le tecniche delle opere a smalto cloisonné ". Il
"carattere" cui alludeva Dujardin, catturato attraverso
sintesi di linee e colore, è tuttavia quello corrispondente alla
"verità" visiva e spirituale nascosta nella quantità degli
elementi retinici e materiali.
Tutto lascia pensare ad una sorta di DNA dello spirito. Da parte loro,
Toulouse- Lautrec e Edvard Munch si servono invece di quegli stilemi
per rovesciarne il risultato. Il loro fine non è diretto a filtrare i
dati del reale per ricondurli alla semplicità della sintesi, ma a
tracciare invece la complessità del soggetto attraverso la
stringatezza del linguaggio: non l’unicità dell’essere, ma la sua
contraddittoria turbolenza; non la sua verità, ma la verità e la
simulazione congiunti nella realtà aggrovigliata della psiche.
La grandezza dell’arte di Munch sorge proprio dal contrasto tra
particolare ed universale, tra identità e genericità, singolarità e
pluralità. La tensione di una psiche così spudoratamente messa a
nudo, e i princìpi stessi di una comunicazione di sé agli altri e di
questi tra loro, che per altri versi caratterizzava l’arte di
Lautrec, non poteva certo sfuggire alla sua sensibilità ed
attenzione. E così dicasi per quella "malagrazia" che
emergeva dalla pittura del maestro di Montmartre, per quella
sfacciataggine irrispettosa delle buone maniere
"impressioniste" che ancora premevano alle spalle.
Munch percepisce una tale stranita dimensione dell’io, ma da quella
prende le mosse per imbastire la sua vasta simbologia metaforica, in
cui l’umanità percorre le tappe di un’esperienza esistenziale ora
dolorosa e ribelle, ora solitaria ed allucinata. L’individuo non
appartiene più ad un’umanità da provocare nei suoi vizi e con cui
essere solidali nella disgrazia o nella malasorte. Pur vivendo la
propria dimensione storica, l’umanità di Munch ne trascende, scossa
dall’energia di Eros e di Thanatos ed in balia di una sorte
esistenziale che altera i residui equilibri.
L’individuo è solo, in eterna lotta con sé e con gli altri. Non
valgono modelli, né convenzioni, né strumenti meta-culturali
attraverso cui circoscrivere il senso della propria esistenza. Né il
misticismo, né il respiro variegato dello spiritualismo riescono a
frenare l’ansia e la percezione affiorante della sconfitta, che
tanto più grava sulla vita dei singoli quanto più essi stessi si
pongono in situazione conflittuale con se stessi, con gli altri, con
il destino stesso dell’esistenza umana.
"Non si dipingeranno più interni con gente che legge o donne che
lavorano a maglia. Si dipingeranno uomini che vivono, respirano e
sentono, che soffrono e che amano…La gente comprenderà che vi è
qualcosa di sacro e si toglierà il cappello come fosse in
chiesa": nient’altro che un passaggio pescato nel diario di
Munch, ma sono righe tra le altre significative della svolta che Munch
ha inteso dare al linguaggio. Non si tratta, infatti, di una ricerca
di realtà, vale a dire che l'artista non intende scartare alcuni
elementi per sceglierne altri, più rispondenti alle tipologie del
tempo e della storia. Tutt’altro, l’artista di Oslo vuole
trascendere la cronaca e con ciò intende spogliare l’individuo dai
tanti piccoli e grandi paraventi della ritualità quotidiana. Se ne
accorgeranno subito i giovani berlinesi che promuoveranno le
secessioni espressioniste, se ne accorgerà Bacon, nel dopoguerra; per
altri versi la cosa non lascerà insensibile un artista come Lucien
Freud e più recentemente una Marlin Dumas.
Altra intenzione non c’era, nel progetto creativo di Munch, che non
fosse quella di "cercare le segrete forze di vita, per tirarle
fuori, riorganizzarle, intensificarle allo scopo di dimostrare il più
chiaramente possibile gli effetti di queste forze sul meccanismo che
è conosciuto come vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite
umane". Lo scrive a proposito del suo Diario, che appunto non
vuol essere una ricostruzione autobiografica, ma una sonda per
oltrepassare gli eventi che ne caratterizzano la cronaca e per
penetrare nel senso alto e misterioso della vita stessa.
La vita umana è un meccanismo, ma, preso singolarmente, ognuno di
questi meccanismi è in conflitto con gli altri. Segreti turbamenti e
conflittualità sono di fatto il modo in cui si manifesta il soffio
della vita. Altro che donne che lavorano a maglia o uomini seduti a
leggere il giornale! Munch è tutt’altro che insensibile alla
pittura d’interni tanto cara all’arte straordinaria di Vuillard e
Bonnard. Quei salotti attraversati da una luce franta e quel palpabile
indizio di un morbo che corrodeva gli animi erano di fatto l’annuncio
di un’attenzione nuova verso la dimensione psichica della realtà.
Ma essa si ripiegava su sé stessa, indugiava sul morbo dello spirito,
che, a sua volta, ammorbava un corpo esistente solo come ombra
intessuta nell’intreccio della superficie.
Non è un caso che il termine "conflitto" ritorni con tanta
incisività nel vocabolario di Munch: conflitto tra la vita e la
morte, il bene e il male, l'uomo e la donna, l'amore e l'odio; e prima
ancora, conflitto tra sé e sé, tra sé e gli altri. L'Io e gli
Altri, appunto, prendono tra loro le misure e si scaricano addosso le
ansie e le tenebre del proprio animo, uniti, però, non tanto dalla
tradizionale solidarietà umana, quanto invece dall'enigma e dai
fantasmi che ne contrassegnano l'esistenza. Ancora una volta la vita e
l'arte si avvitano attorno a un paradosso problematico, che l'artista
stesso sottolinea come gabbia all'interno della quale si sviluppa la
quotidiana, enigmatica vicenda umana. Quanto più il corpo invade la
scena, quanto più è presente come oggetto e soggetto della pittura,
tanto più la presenza materiale viene attraversata dal soffio
allarmate dell'immateriale.
Tali esiti moltiplicano il loro potenziale allusivo proprio nel caso
del ritratto e dell'autoritratto, laddove l'Io e gli Altri sembrano
specchiarsi in un gioco di reciproche invasioni di senso. E' difficile
osservare un ritratto di Munch senza pensare ad un conflitto in atto,
senza intravedere uno slittamento dello stato d'animo dell'autore
nella psiche emergente dei suoi modelli. Tuttavia non si pensi ad una
prevedibile e reciproca influenza emotiva tra l'artista che ritrae e
il personaggio ritratto. Ciò peraltro rientrerebbe nei parametri
prevedibilissimi della ritrattistica. Nel caso di Munch quanto succede
è più sotterraneo e complesso, più enigmatico ed intrigante. Di
volta in volta l'artista scopre nell' altro la trasparente evanescenza
di se stesso. Egli prende coscienza del conflitto tra la vita e la
morte, e innesta infine nella pittura quella tensione verso le
"forze eterne" che contrastano l'immanenza del mondo nel
momento stesso in cui, rivelandosi, lo attraversano.
La "primitiva", aurorale domanda di Gauguin, " Da dove
veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?", si ripete di opera in opera
nell'arte di Munch. Ma, mentre nella pittura dell'artista francese
essa transita attraverso una natura mitologica, che accoglie le ansie
umane in un abbraccio forte ed avvolgente, nell'arte del pittore
norvegese l'enigma si rapprende nella tensione del corpo e si raggela
nello sguardo.
Tra i due primi autoritratti, dipinti tra il 1891 e il 1893, e gli
ultimi, del 1940 - '44, si sviluppa nell'arte di Munch una continuità
di tensione emotiva da cui traspare il pathos o la traccia del dramma
o l'ironia dell'amarezza. Ora la propria immagine scivola sulla
superficie, quasi si trattasse di un'interferenza imprevista nel
mirino di un fotografo, ora invece si offre frontalmente,
sfacciatamente pronta a simulare un impianto psicologico di chiara
matrice neo-romantica, la cui precarietà è pari alla forza
incalzante del brivido e del tormento esistenziale.
Nel primo caso penso, ad esempio, ad "Autoritratto
all'Inferno", del 1907, ad "Autoritratto con Cappello",
del '15, all' "Autoritratto a Bergen", del '16, a
"L'Insonne", del '23-'24, opere di un'intensità
problematica raramente uguagliata nell'arte di ogni tempo. Nel secondo
caso è inevitabile riferirsi a capolavori come
"Autoritratto" del 1982-'83, "Autoritratto su Sfondo
Rosso", del 1906, "Autoritratto in Giardino", del
'26-'29, fino alle ultime testimonianze di sé, come lo strepitoso
autoritratto "Tra l'Orologio e il Letto", del '40-43.
Non si tratta dunque di un'occasionale fatica di autorappresentazione,
ma invece di un appuntamento spirituale e di una metodologia
"auto-analitica" dalle profonde implicazioni psichiche e
dalla quale l'artista sembra non potere prescindere. Tanto meno in
rapporto alle sue più ampie escursioni metaforiche, che affondano nel
senso stesso della vita e nelle ragioni profonde che coinvolgono
un'umanità naufragata. Quel tempo empirico, che ritualmente spingeva
un artista come Rembrandt a misurare in pittura lo scorrere delle
stagioni tra le rughe del proprio volto, diventa in Munch il tempo
rarefatto ed impalpabile, ma allo stesso tempo incalzante ed
ineludibile, che caratterizza il rincorrersi ed il ripetersi delle
tensioni dell'animo.
Perciò non è il declinare inesorabile della vita, rintracciabile nel
proprio corpo, a cadenzare le tipologie delle forme nella serie
straordinaria degli autoritratti di Munch, ma sono invece i ritmi
misteriosi dell'io a determinare la "cronaca" delle proprie
ricorrenti tensioni, delle ansie e degli sporadici rasserenamenti
dell'animo. Perciò l'autoritratto "con bottiglie", del
'40-'44, o la coeva immagine dell'artista "tra l'orologio e il
letto", solo cronologicamente appartengono alla soglia estrema
della vita. Altrettanto "estremi" sono infatti
"L'Insonne", del '23-'24, o l'"Autoritratto a Bergen",
del '16. Voglio dire che ciò che interessa a Munch è di captare il
diapason dei fenomeni dell'anima e della psiche, di farne esplodere le
forze represse e contraddittorie e di mettere a nudo l'eterna forza e
l'eterna debolezza umane.
Identificato se stesso nelle contraddittorie pulsioni del proprio Io,
a Munch restava aperto il problema di porsi di fronte all'Altro, o
sarebbe meglio dire, nella specificità del contesto, agli Altri.
Anche da questo punto di vista, peraltro, il ritratto e l'autoritratto
sono "luoghi" centrali nell'opera e nella
"filosofia" dell'artista norvegese. Adesso i conflitti
individuali che attraversano l'essere si espandono all'esterno e la
conflittualità permanente che caratterizza il suo pensiero, e di
conseguenza la sua esistenza, approda a più vaste implicazioni.
La grande tensione che attraversa il suo linguaggio si fonda, di
fatto, su una conflittualità irriducibile alla sintesi di matrice
hegeliana. Munch, in sintonia con il pensiero niciano, per non dire di
Kierkiegard e di Schopenauer, sottolinea infatti gli inferni della
"differenza", facendo coincidere la conoscenza con la
maggiore determinazione della distanza tra Sé e l'Altro. La
straordinaria modernità di Munch, che ne determina la rinnovata e
profonda incidenza nell'arte del nostro tempo, consiste nel fatto che
l'artista di Oslo affronta il problema nella sua centralità, vale a
dire nelle tipologie dell'erotismo, inteso sia come pulsione di vita
immanente all'essere, sia come energia radicata nel corpo, sia,
infine, come approdo alla sessualità e come cortocircuito tra
maschile e femminile.
A voler riflettere sul famigerato misogenismo di Munch, si dovrà
concludere semplicemente che esso non è mai esistito in quanto tale.
Peraltro, la serrata dialettica maschile-femminile, pur rafforzandosi
attraverso la sua umana vicenda, da questa stessa in realtà non
scaturisce: per certi versi l'esperienza suggella e suona a conferma
dell'ipotesi, che è "letteraria" e "filosofica",
prima ancora che empirica.
La tendenza a risolvere le "differenze" nell'atto sessuale
appartiene ad una cultura che non coincide con le convinzioni di Munch.
L'erotismo, che trova la sua più ampia risonanza creativa nell'atto
amoroso, non risolve né la speculare pulsione di vita e di morte, né
le differenze tra l’Io e gli Altri. Esso produce sì una nuova
dimensione conoscitiva, ma questa inedita piattaforma, anzichè
ridurre le distanze, si rivela come un completamento ed un
moltiplicarsi della conoscenza e della consapevolezza di quella stessa
ineludibile differenza.
Il conflitto, insomma, s'ingigantisce ed invade tutte le sfere
dell'esistente. Esso è all'origine della vita stessa ed in quanto
tale deve essere vissuto ed affrontato nell'inferno quotidiano
dell'essere. La verità è che l’arte di Munch sottolinea, come mai
prima di allora, il principio della "responsabilità": l’Io
non agisce per ritornare in "sé", per assorbire l’Altro
in una sorta di egoistica ricongiunzione e consolidamento della
propria identità. L’identità consiste nella coraggiosa
accettazione di "un Altro che non ritorna mai allo Stesso. Al
mito di Ulisse che ritorna ad Itaca noi vorremmo contrapporre la
storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra
ancora ignota e che interdice al suo servo perfino di ricondurre suo
figlio al punto di partenza": così si esprimerebbe Emmanuel
Lévinas.
Tutto ciò è in netto contrasto con la tradizione della filosofia
occidentale che presuppone una sorta di "orrore" verso un
Altro che non sia riconducibile a se stessi. Ha ancora ragione
Lévinas quando, nella sua teoria dell’esistenza, parla di "un’inguaribile
allergia". Ma il fatto davvero singolare è che Munch non
discioglie l’allergia negli orientalismi simbolici che nutrivano il
malessere della cultura del suo tempo. Egli ne percepisce i valori, ma
al tempo stesso rimarca i limiti di uno spirito esoterico,
illanguidito nell’autoerotismo che ne stempera lo slancio in una
sorta d’antico narcisismo. Il narcisismo di Munch si fa invece
carico della dimensione moderna della coscienza; esso traduce in
energia il brivido della "dépense" e il rischio della
"perdita" di sé: appunto energia "a perdere",
consapevolezza di un Io strettamente connesso all’idea di evento e
non alla sua auto-definizione definitiva, scudo prefabbricato contro
la perenne avventura della vita.
I ritratti e gli autoritratti di Edvard Munch sono opere
"astratte". Mi spiego meglio: la straordinarietà dei volti
che caratterizzano i ritratti dipinti da Munch consiste soprattutto
nel carattere bipolare che costituisce la loro essenza: da un lato
essi appartengono al tempo storico e vanno a collocarsi in un contesto
di prevedibili relazioni culturali; da un altro lato essi lo
trascendono, come apparizione estranea a qualsivoglia prevedibilità.
Da una simile premessa consegue inevitabilmente che ogni ritratto
appare come una sorpresa nell’ordine fenomenico del mondo. Essi
provengono da un Altrove e perciò sono appunto stra-ordinari. Davanti
ai suoi "soggetti" Munch percepisce profondamente la
biforcazione entro la quale si sviluppa la presenza stessa dei volti:
meglio ancora, egli rabbrividisce davanti al loro
"apparire". L’apparire dell’Altro nell’immanenza di
una forma, che pure è soltanto attraversata, rende immanente l’Alterità
e rende inevitabile la continua messa in discussione dell’Io.
Nel volto appare l’Assoluto, il quale si rivela attraverso una
nudità inespugnabile. Ne consegue che l’Altro (nel caso specifico l’amico,
il committente o quant’altri) è rappresentabile in quanto forma, ma
quella stessa forma è contraddetta e disattesa dalla sua stessa
premessa. Munch sa che rappresentare un volto non equivale a
rappresentare una mela, come invece sosteneva Paul Cezanne; sa che il
volto non ti permette più di "prendere coscienza" della
cosa, ma mette in discussione la coscienza stessa: in altre parole
esso mina l’egoismo autoreferenziale dell’io. Perciò fu sordo al
Cubismo, ma non lo fu altrettanto nei riguardi del Futurismo, che
sottolineava la traccia dello spirito nell’improbabilità della
forma. Egli sa, infine, che la forma del volto è l’epifania dell’Assoluto
nella sua alterità: epifania, dunque, dell’Assolutamente Altro, il
quale richiede una risposta, un confronto cui non è possibile
sottrarsi.
Il volto è "nudo". Nella sua nudità esso si presenta
pretendendo da me una risposta, un atto di responsabilità. Ecco, va
pur detto che proprio in ciò consiste la grande lezione di Munch: l’Io
e la sua unicità consistono nel fatto che nessuno può rispondere per
noi, che l’Altro mette in discussione noi stessi, che la nostra
solidarietà con l’Altro non ha nulla a che vedere con il principio
della materia, secondo il quale un organo è solidale con l’organismo
di cui fa parte, ma si definisce come consapevolezza di una
conflittualità in atto, come atto di responsabilità dell’Io nei
confronti dell’Altro. Bisogna scegliere, avrebbe detto Kierkegard.
Enter-Eller: in questo caso o rispondi o non rispondi. Null’altro,
infine, che moralità.
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