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Edward Munch: L’Io e gli Altri



Giorgio Cortenova




I principi fondamentali del linguaggio di Edward Munch sono presto detti: in primo luogo la convinzione spiritualista che lo spinge a ricercare l’essenza del mondo nel fantasma delle cose e nel loro manifestarsi attraverso il sortilegio della visione; in secondo luogo, ed in stretta connessione con quanto stiamo dicendo, la percezione di una realtà duplice e speculare, che attraversa l’individuo e ne complica la vicenda umana; in terzo, ma non ultimo luogo, lo scontro tra la materialità e la spiritualità, la vita e la morte, fermo restando che lo spirito e la morte rappresentano le forze enigmatiche che non si oppongono alla vita ma ne forniscono il senso e l’energia.

Resta il fatto che l’opera di Munch é pervasa da uno stato di permanente conflittualità, che altera la visione e la trasforma in allarme, teatro di uno squilibrio mai risolto, di una pulsionalità che trascende la cronaca delle umane vicende ma ne contrassegna il destino esistenziale. Se lineari sono le premesse, di fatto gli esiti sono raggiunti attraverso non poche vicissitudini che, di conseguenza in conseguenza, si trasferiscono dalla vita al linguaggio e da questo si ripresentano a quella secondo percorsi intrecciati e mai interrotti. Vero è che la grande avventura dell'arte affonda nella vita come metafora di una tensione inesprimibile, che ora corrode lo spirito esaltando la materia, ora blandisce gli animi corrodendo il corpo.

Il percorso lungo il quale s'incammina la volontà creativa di Munch è peraltro tipico del suo tempo e della sua generazione: da un lato i liquori che ammorbano e contemporaneamente disciolgono i vincoli fisici della realtà, trasportandone gli esiti sui piani "alti" di uno spiritualismo simbolista dai confini non facilmente definibili; da un altro lato la ricaduta, da tanta liberatoria rarefazione, verso le zone del corpo e, di conseguenza, l'insorgere della psiche come consapevolezza di un legame inscindibile da quello stesso corpo appena "abbandonato". In ultima analisi, la materia non si risolve nello spirito e a sua volta questo non si placa in quella. Storia di una lunga ed esasperata contraddizione, la pittura di Munch s'inscrive peraltro nell'ordine della "sconfitta", nella sua sconfinata ineluttabilità, relativa sia alla vicenda umana che all'utopia dell'arte. Anche in questo senso l'arte e la vita coincidevano o comunque l'una poteva essere arrischiata nel territorio dell'altra.

Data per certa la sconfitta, essa non poteva dunque che riguardare il dissidio originario, la radice stessa del problema, vale a dire lo scontro tra la vita e la morte. In tal caso le cose si complicavano parecchio; non tanto per il fatto che il problema riguardava termini ultimativi e di per se stessi inesorabili, quanto perché lo spiritualismo simbolista lo spingeva a risolvere nella morte i problemi della vita, ma la sua moderna coscienza della psiche lo induceva a destinare alla vita gli enigmi della morte.

Nel pensiero di Munch è solo attraverso la morte che la vita acquista un senso. E' dunque da quell'emisfero che la vita dovrà essere considerata, narrata, "significata". Tuttavia, spostato il "luogo" d'osservazione, il contesto non si rasserena, ma si complica in proporzione geometrica: vale a dire che tutta l'enigmaticità della morte si riversa sulla vita; che l'allucinazione del mistero e la consapevolezza dell'assurdo s'inseriscono nel vivere quotidiano; che la dialettica tra la pulsione di vita e la pulsione di morte scuote dalle fondamenta l'equilibrio dell'essere.

Non è un caso che proprio Boeklin rappresenti un riferimento ineludibile nell'apprendistato culturale di Munch: Boklin e naturalmente quell'isola dei morti e quel navigare tra cielo e terra, quel trasalire dei sensi attraverso il turbamento dell'animo.

Prima di "gratificarsi" con l'apprendistato parigino e berlinese Munch può usufruire del magistero di Christian Krohg: niente di straordinario, il maestro opera a Oslo, è austero ma incline ai giovani e la sua arte non preannuncia in apparenza nulla di rivoluzionario. Tuttavia essa possiede un timbro antinaturalistico e una capacità d'introspezione psicologica tutt'altro che trascurabili e comunque tali da far breccia sull'animo, ben predisposto al caso, del giovane Munch.

A tale proposito si veda la "Bambina Malata" di Krohg premessa ineludibile per l'opera omonima di Munch. La tela del maestro si presenta subito con un'inquadratura inesorabile, si direbbe ritagliata al fine di contenere appena la figura della ragazza, in modo tale da non permettere allo sguardo di sfuggire l'impatto e di distrarsi verso altre occasioni narrative. La bambina si offre come unico, indifferibile destinatario della nostra percezione. Ciò non bastasse, la figura sembra ruotare su di un asse orizzontale e sporgersi verso di noi in un dialogo intriso d’enigmatici misteri. Infine lo sguardo: gli occhi sono grandi, spalancati, fissi al centro di un'inenarrabile allucinazione. Essi guardano oltre gli "spettatori", persi nel tunnel del vuoto o nel pozzo della propria allarmata interiorità.

Quando conoscerà l'opera di Boecklin, quando più tardi si avvicinerà a Gauguin e poi, esperienza per certi versi più interiore, apprenderà il linguaggio spiritualista di Redon e via via tutto il crogiolo della cultura francese che premeva sulla diga tra il vecchio e il nuovo secolo, quando insomma Munch amplierà lo spettro della sua cultura, la lezione di Krohg ritornerà a farsi strada, quasi a voler rinsaldare radici primigenie che inconsciamente erano penetrate nell'animo del giovane artista e che adesso erano pronte a contribuire alla veloce "escalation" del suo linguaggio. L'approccio psicologico con la realtà, la valenza psichica che s'impossessa del corpo trasformandolo in pura energia espressiva, l'immanenza e la presenza stessa della morte nell'impulso vitalistico dell'anima, tutti questi sono elementi che determinano la filigrana del progetto artistico di Munch, pronta però a rivelarsi e ad esplodere come un vero e proprio incubo nelle opere più intriganti del suo lavoro.

Una sorta di vigilante attesa e un'incognita dimensione dell'io, che si spalanca nelle forme pulsionali della figura umana, s'impossessano di corpi abbozzati e spinti al parossismo dell'anima, oppure statici e solitari nella luce improbabile dell'alba nordica. Ciò non basta. Infatti, quando Munch approda alla matura determinazione del suo linguaggio, tutto ciò si manifesta secondo tipologie e "riti" ancora inconsueti, tali da inaugurare una nuova stagione moderna. Fatto sta che i personaggi che abitano i suoi quadri ostentano se stessi, che lo spazio della loro azione è tanto tangibilmente vero quanto virtualmente teatrale, che l'ostentazione è provocatoria e la solitudine suona a condanna della sordità umana e sociale. Fatto sta che i personaggi si "affrontano", che l' io si proietta sugli altri cercando di acquisire a se stesso le tipologie umane e psicologiche, oppure di proiettare queste in quelle.

Un'ombra di ambiguità ed insieme di verità, di aggressiva e allo stesso tempo dolorante energia, attraversa il mondo di Munch come un brivido dai contorni tragici: infatti, anche laddove l'immagine è in apparenza più pacata e consueta, la sua pittura sa avvalersi di quelle "cattive maniere" che sempre si accompagnano alle pulsioni forti e tutt'altro che "educate" dell'animo umano.

Senza dubbio alcuno Munch apprende da Redon i sortilegi dello spirito, anche per quanto riguarda la specificità del linguaggio: si pensi all'onda delle linee e all'eco di predilezione musicale, che si riverbera di piano in piano, di spazio in spazio, in questa pittura "urlata" nel silenzio o invece "bisbigliata" attraverso la risacca nordica della luce. Di Gauguin lo affascina il fluire enigmatico del mistero che incalza nel cuore mistico dei primitivi destini umani. Tuttavia, né il giovanile apprendistato presso Christian Krohg (Edvard ha appena diciannove anni), né le successive residenze parigine, con la conoscenza diretta dell’arte di Van Gogh, Cezanne, Bonnard, Valloton ed in genere la cultura accampata nella capitale francese, avrebbero potuto innescare la straordinaria innovazione del linguaggio di Munch, se non fossero intervenuti alcuni eventi decisivi.

Uno di questi era rappresentato dalle vicende stesse della sua ancor giovane vita, precocemente visitata dalla morte; l’altro va rinvenuto nella straordinaria capacità di percepire la grande lezione di Toulouse-Lautrec. Solo Picasso avrà la stessa velocità intuitiva del maestro di Oslo, anche se altri, in seguito, saranno i destini della sua pittura.

Si pensi, ad ogni buon conto, a quanto affermava Dujardin, nel 1888, a proposito della ritrattistica: "L’artista - sosteneva il critico - dovrebbe isolare i tratti essenziali del suo soggetto e catturarne il carattere con la maggiore economia possibile di linee e colore. L’arte giapponese fornisce un buon esempio, e le tecniche dell’arte giapponese, come quelle degli artisti moderni, consistono in contorni riempiti con zone di colore piatto, dipinti a comparti, che ricordano le tecniche delle opere a smalto cloisonné ". Il "carattere" cui alludeva Dujardin, catturato attraverso sintesi di linee e colore, è tuttavia quello corrispondente alla "verità" visiva e spirituale nascosta nella quantità degli elementi retinici e materiali.

Tutto lascia pensare ad una sorta di DNA dello spirito. Da parte loro, Toulouse- Lautrec e Edvard Munch si servono invece di quegli stilemi per rovesciarne il risultato. Il loro fine non è diretto a filtrare i dati del reale per ricondurli alla semplicità della sintesi, ma a tracciare invece la complessità del soggetto attraverso la stringatezza del linguaggio: non l’unicità dell’essere, ma la sua contraddittoria turbolenza; non la sua verità, ma la verità e la simulazione congiunti nella realtà aggrovigliata della psiche.

La grandezza dell’arte di Munch sorge proprio dal contrasto tra particolare ed universale, tra identità e genericità, singolarità e pluralità. La tensione di una psiche così spudoratamente messa a nudo, e i princìpi stessi di una comunicazione di sé agli altri e di questi tra loro, che per altri versi caratterizzava l’arte di Lautrec, non poteva certo sfuggire alla sua sensibilità ed attenzione. E così dicasi per quella "malagrazia" che emergeva dalla pittura del maestro di Montmartre, per quella sfacciataggine irrispettosa delle buone maniere "impressioniste" che ancora premevano alle spalle.

Munch percepisce una tale stranita dimensione dell’io, ma da quella prende le mosse per imbastire la sua vasta simbologia metaforica, in cui l’umanità percorre le tappe di un’esperienza esistenziale ora dolorosa e ribelle, ora solitaria ed allucinata. L’individuo non appartiene più ad un’umanità da provocare nei suoi vizi e con cui essere solidali nella disgrazia o nella malasorte. Pur vivendo la propria dimensione storica, l’umanità di Munch ne trascende, scossa dall’energia di Eros e di Thanatos ed in balia di una sorte esistenziale che altera i residui equilibri.

L’individuo è solo, in eterna lotta con sé e con gli altri. Non valgono modelli, né convenzioni, né strumenti meta-culturali attraverso cui circoscrivere il senso della propria esistenza. Né il misticismo, né il respiro variegato dello spiritualismo riescono a frenare l’ansia e la percezione affiorante della sconfitta, che tanto più grava sulla vita dei singoli quanto più essi stessi si pongono in situazione conflittuale con se stessi, con gli altri, con il destino stesso dell’esistenza umana.

"Non si dipingeranno più interni con gente che legge o donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno uomini che vivono, respirano e sentono, che soffrono e che amano…La gente comprenderà che vi è qualcosa di sacro e si toglierà il cappello come fosse in chiesa": nient’altro che un passaggio pescato nel diario di Munch, ma sono righe tra le altre significative della svolta che Munch ha inteso dare al linguaggio. Non si tratta, infatti, di una ricerca di realtà, vale a dire che l'artista non intende scartare alcuni elementi per sceglierne altri, più rispondenti alle tipologie del tempo e della storia. Tutt’altro, l’artista di Oslo vuole trascendere la cronaca e con ciò intende spogliare l’individuo dai tanti piccoli e grandi paraventi della ritualità quotidiana. Se ne accorgeranno subito i giovani berlinesi che promuoveranno le secessioni espressioniste, se ne accorgerà Bacon, nel dopoguerra; per altri versi la cosa non lascerà insensibile un artista come Lucien Freud e più recentemente una Marlin Dumas.

Altra intenzione non c’era, nel progetto creativo di Munch, che non fosse quella di "cercare le segrete forze di vita, per tirarle fuori, riorganizzarle, intensificarle allo scopo di dimostrare il più chiaramente possibile gli effetti di queste forze sul meccanismo che è conosciuto come vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite umane". Lo scrive a proposito del suo Diario, che appunto non vuol essere una ricostruzione autobiografica, ma una sonda per oltrepassare gli eventi che ne caratterizzano la cronaca e per penetrare nel senso alto e misterioso della vita stessa.

La vita umana è un meccanismo, ma, preso singolarmente, ognuno di questi meccanismi è in conflitto con gli altri. Segreti turbamenti e conflittualità sono di fatto il modo in cui si manifesta il soffio della vita. Altro che donne che lavorano a maglia o uomini seduti a leggere il giornale! Munch è tutt’altro che insensibile alla pittura d’interni tanto cara all’arte straordinaria di Vuillard e Bonnard. Quei salotti attraversati da una luce franta e quel palpabile indizio di un morbo che corrodeva gli animi erano di fatto l’annuncio di un’attenzione nuova verso la dimensione psichica della realtà. Ma essa si ripiegava su sé stessa, indugiava sul morbo dello spirito, che, a sua volta, ammorbava un corpo esistente solo come ombra intessuta nell’intreccio della superficie.

Non è un caso che il termine "conflitto" ritorni con tanta incisività nel vocabolario di Munch: conflitto tra la vita e la morte, il bene e il male, l'uomo e la donna, l'amore e l'odio; e prima ancora, conflitto tra sé e sé, tra sé e gli altri. L'Io e gli Altri, appunto, prendono tra loro le misure e si scaricano addosso le ansie e le tenebre del proprio animo, uniti, però, non tanto dalla tradizionale solidarietà umana, quanto invece dall'enigma e dai fantasmi che ne contrassegnano l'esistenza. Ancora una volta la vita e l'arte si avvitano attorno a un paradosso problematico, che l'artista stesso sottolinea come gabbia all'interno della quale si sviluppa la quotidiana, enigmatica vicenda umana. Quanto più il corpo invade la scena, quanto più è presente come oggetto e soggetto della pittura, tanto più la presenza materiale viene attraversata dal soffio allarmate dell'immateriale.

Tali esiti moltiplicano il loro potenziale allusivo proprio nel caso del ritratto e dell'autoritratto, laddove l'Io e gli Altri sembrano specchiarsi in un gioco di reciproche invasioni di senso. E' difficile osservare un ritratto di Munch senza pensare ad un conflitto in atto, senza intravedere uno slittamento dello stato d'animo dell'autore nella psiche emergente dei suoi modelli. Tuttavia non si pensi ad una prevedibile e reciproca influenza emotiva tra l'artista che ritrae e il personaggio ritratto. Ciò peraltro rientrerebbe nei parametri prevedibilissimi della ritrattistica. Nel caso di Munch quanto succede è più sotterraneo e complesso, più enigmatico ed intrigante. Di volta in volta l'artista scopre nell' altro la trasparente evanescenza di se stesso. Egli prende coscienza del conflitto tra la vita e la morte, e innesta infine nella pittura quella tensione verso le "forze eterne" che contrastano l'immanenza del mondo nel momento stesso in cui, rivelandosi, lo attraversano.

La "primitiva", aurorale domanda di Gauguin, " Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?", si ripete di opera in opera nell'arte di Munch. Ma, mentre nella pittura dell'artista francese essa transita attraverso una natura mitologica, che accoglie le ansie umane in un abbraccio forte ed avvolgente, nell'arte del pittore norvegese l'enigma si rapprende nella tensione del corpo e si raggela nello sguardo.

Tra i due primi autoritratti, dipinti tra il 1891 e il 1893, e gli ultimi, del 1940 - '44, si sviluppa nell'arte di Munch una continuità di tensione emotiva da cui traspare il pathos o la traccia del dramma o l'ironia dell'amarezza. Ora la propria immagine scivola sulla superficie, quasi si trattasse di un'interferenza imprevista nel mirino di un fotografo, ora invece si offre frontalmente, sfacciatamente pronta a simulare un impianto psicologico di chiara matrice neo-romantica, la cui precarietà è pari alla forza incalzante del brivido e del tormento esistenziale.

Nel primo caso penso, ad esempio, ad "Autoritratto all'Inferno", del 1907, ad "Autoritratto con Cappello", del '15, all' "Autoritratto a Bergen", del '16, a "L'Insonne", del '23-'24, opere di un'intensità problematica raramente uguagliata nell'arte di ogni tempo. Nel secondo caso è inevitabile riferirsi a capolavori come "Autoritratto" del 1982-'83, "Autoritratto su Sfondo Rosso", del 1906, "Autoritratto in Giardino", del '26-'29, fino alle ultime testimonianze di sé, come lo strepitoso autoritratto "Tra l'Orologio e il Letto", del '40-43.

Non si tratta dunque di un'occasionale fatica di autorappresentazione, ma invece di un appuntamento spirituale e di una metodologia "auto-analitica" dalle profonde implicazioni psichiche e dalla quale l'artista sembra non potere prescindere. Tanto meno in rapporto alle sue più ampie escursioni metaforiche, che affondano nel senso stesso della vita e nelle ragioni profonde che coinvolgono un'umanità naufragata. Quel tempo empirico, che ritualmente spingeva un artista come Rembrandt a misurare in pittura lo scorrere delle stagioni tra le rughe del proprio volto, diventa in Munch il tempo rarefatto ed impalpabile, ma allo stesso tempo incalzante ed ineludibile, che caratterizza il rincorrersi ed il ripetersi delle tensioni dell'animo.

Perciò non è il declinare inesorabile della vita, rintracciabile nel proprio corpo, a cadenzare le tipologie delle forme nella serie straordinaria degli autoritratti di Munch, ma sono invece i ritmi misteriosi dell'io a determinare la "cronaca" delle proprie ricorrenti tensioni, delle ansie e degli sporadici rasserenamenti dell'animo. Perciò l'autoritratto "con bottiglie", del '40-'44, o la coeva immagine dell'artista "tra l'orologio e il letto", solo cronologicamente appartengono alla soglia estrema della vita. Altrettanto "estremi" sono infatti "L'Insonne", del '23-'24, o l'"Autoritratto a Bergen", del '16. Voglio dire che ciò che interessa a Munch è di captare il diapason dei fenomeni dell'anima e della psiche, di farne esplodere le forze represse e contraddittorie e di mettere a nudo l'eterna forza e l'eterna debolezza umane.

Identificato se stesso nelle contraddittorie pulsioni del proprio Io, a Munch restava aperto il problema di porsi di fronte all'Altro, o sarebbe meglio dire, nella specificità del contesto, agli Altri. Anche da questo punto di vista, peraltro, il ritratto e l'autoritratto sono "luoghi" centrali nell'opera e nella "filosofia" dell'artista norvegese. Adesso i conflitti individuali che attraversano l'essere si espandono all'esterno e la conflittualità permanente che caratterizza il suo pensiero, e di conseguenza la sua esistenza, approda a più vaste implicazioni.

La grande tensione che attraversa il suo linguaggio si fonda, di fatto, su una conflittualità irriducibile alla sintesi di matrice hegeliana. Munch, in sintonia con il pensiero niciano, per non dire di Kierkiegard e di Schopenauer, sottolinea infatti gli inferni della "differenza", facendo coincidere la conoscenza con la maggiore determinazione della distanza tra Sé e l'Altro. La straordinaria modernità di Munch, che ne determina la rinnovata e profonda incidenza nell'arte del nostro tempo, consiste nel fatto che l'artista di Oslo affronta il problema nella sua centralità, vale a dire nelle tipologie dell'erotismo, inteso sia come pulsione di vita immanente all'essere, sia come energia radicata nel corpo, sia, infine, come approdo alla sessualità e come cortocircuito tra maschile e femminile.

A voler riflettere sul famigerato misogenismo di Munch, si dovrà concludere semplicemente che esso non è mai esistito in quanto tale. Peraltro, la serrata dialettica maschile-femminile, pur rafforzandosi attraverso la sua umana vicenda, da questa stessa in realtà non scaturisce: per certi versi l'esperienza suggella e suona a conferma dell'ipotesi, che è "letteraria" e "filosofica", prima ancora che empirica.

La tendenza a risolvere le "differenze" nell'atto sessuale appartiene ad una cultura che non coincide con le convinzioni di Munch. L'erotismo, che trova la sua più ampia risonanza creativa nell'atto amoroso, non risolve né la speculare pulsione di vita e di morte, né le differenze tra l’Io e gli Altri. Esso produce sì una nuova dimensione conoscitiva, ma questa inedita piattaforma, anzichè ridurre le distanze, si rivela come un completamento ed un moltiplicarsi della conoscenza e della consapevolezza di quella stessa ineludibile differenza.

Il conflitto, insomma, s'ingigantisce ed invade tutte le sfere dell'esistente. Esso è all'origine della vita stessa ed in quanto tale deve essere vissuto ed affrontato nell'inferno quotidiano dell'essere. La verità è che l’arte di Munch sottolinea, come mai prima di allora, il principio della "responsabilità": l’Io non agisce per ritornare in "sé", per assorbire l’Altro in una sorta di egoistica ricongiunzione e consolidamento della propria identità. L’identità consiste nella coraggiosa accettazione di "un Altro che non ritorna mai allo Stesso. Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo perfino di ricondurre suo figlio al punto di partenza": così si esprimerebbe Emmanuel Lévinas.

Tutto ciò è in netto contrasto con la tradizione della filosofia occidentale che presuppone una sorta di "orrore" verso un Altro che non sia riconducibile a se stessi. Ha ancora ragione Lévinas quando, nella sua teoria dell’esistenza, parla di "un’inguaribile allergia". Ma il fatto davvero singolare è che Munch non discioglie l’allergia negli orientalismi simbolici che nutrivano il malessere della cultura del suo tempo. Egli ne percepisce i valori, ma al tempo stesso rimarca i limiti di uno spirito esoterico, illanguidito nell’autoerotismo che ne stempera lo slancio in una sorta d’antico narcisismo. Il narcisismo di Munch si fa invece carico della dimensione moderna della coscienza; esso traduce in energia il brivido della "dépense" e il rischio della "perdita" di sé: appunto energia "a perdere", consapevolezza di un Io strettamente connesso all’idea di evento e non alla sua auto-definizione definitiva, scudo prefabbricato contro la perenne avventura della vita.

I ritratti e gli autoritratti di Edvard Munch sono opere "astratte". Mi spiego meglio: la straordinarietà dei volti che caratterizzano i ritratti dipinti da Munch consiste soprattutto nel carattere bipolare che costituisce la loro essenza: da un lato essi appartengono al tempo storico e vanno a collocarsi in un contesto di prevedibili relazioni culturali; da un altro lato essi lo trascendono, come apparizione estranea a qualsivoglia prevedibilità. Da una simile premessa consegue inevitabilmente che ogni ritratto appare come una sorpresa nell’ordine fenomenico del mondo. Essi provengono da un Altrove e perciò sono appunto stra-ordinari. Davanti ai suoi "soggetti" Munch percepisce profondamente la biforcazione entro la quale si sviluppa la presenza stessa dei volti: meglio ancora, egli rabbrividisce davanti al loro "apparire". L’apparire dell’Altro nell’immanenza di una forma, che pure è soltanto attraversata, rende immanente l’Alterità e rende inevitabile la continua messa in discussione dell’Io.

Nel volto appare l’Assoluto, il quale si rivela attraverso una nudità inespugnabile. Ne consegue che l’Altro (nel caso specifico l’amico, il committente o quant’altri) è rappresentabile in quanto forma, ma quella stessa forma è contraddetta e disattesa dalla sua stessa premessa. Munch sa che rappresentare un volto non equivale a rappresentare una mela, come invece sosteneva Paul Cezanne; sa che il volto non ti permette più di "prendere coscienza" della cosa, ma mette in discussione la coscienza stessa: in altre parole esso mina l’egoismo autoreferenziale dell’io. Perciò fu sordo al Cubismo, ma non lo fu altrettanto nei riguardi del Futurismo, che sottolineava la traccia dello spirito nell’improbabilità della forma. Egli sa, infine, che la forma del volto è l’epifania dell’Assoluto nella sua alterità: epifania, dunque, dell’Assolutamente Altro, il quale richiede una risposta, un confronto cui non è possibile sottrarsi.

Il volto è "nudo". Nella sua nudità esso si presenta pretendendo da me una risposta, un atto di responsabilità. Ecco, va pur detto che proprio in ciò consiste la grande lezione di Munch: l’Io e la sua unicità consistono nel fatto che nessuno può rispondere per noi, che l’Altro mette in discussione noi stessi, che la nostra solidarietà con l’Altro non ha nulla a che vedere con il principio della materia, secondo il quale un organo è solidale con l’organismo di cui fa parte, ma si definisce come consapevolezza di una conflittualità in atto, come atto di responsabilità dell’Io nei confronti dell’Altro. Bisogna scegliere, avrebbe detto Kierkegard. Enter-Eller: in questo caso o rispondi o non rispondi. Null’altro, infine, che moralità.





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